Genova G8, vent’anni dopo. Quell’espressione un po’ così che abbiamo noi, che eravamo lì
Genova G8 2001-2020
Quell’espressione un po’ così che abbiamo noi, che abbiamo visto Genova
Per chi non c’era…
Per chi c’era e si è voltato dall’altra parte
Per chi ci ha costruito una carriera
Per chi ha visto distrutta la sua carriera
Per chi c’era e se ne è dimenticato
Per chi ha rimosso ed è andato avanti da un’altra parte
Per chi non ha rimosso ed ha continuato a pensare di essere dalla parte della ragione
PER CHI, VENT’ANNI DOPO, MANTIENE ORGOGLIOSAMENTE LA STESSA FACCIA DI ALLORA…
La cronaca è diventata storia. E va coltivata. Per non dimenticare che questo è stato.
Genova 2001 – Rainews al G8. L’informazione necessaria
Estratto dal Libro La bisaccia del giornalista di Fausto Pellegrini (2012, Dissensi Edizioni)
Se i fatti del G8 di Genova del 2001 sono ancora oggi un ricordo indelebile per molti, nel nostro Paese e non solo; se le informazioni su quello che è realmente accaduto in quei giorni è arrivata fino alle aule dei tribunali; se si è riusciti a smontare la menzogna della verità ufficiale: se è potuto accadere tutto questo è grazie ai mille occhi che hanno inquadrato Genova in quei giorni.
Genova ha rappresentato uno spartiacque nella comunicazione di eventi politici e sociali. Un grande esempio di citizen journalism diffuso, che ha trasformato tanti testimoni e vittime in attori e tutori di una legalità altrimenti violentata ed offesa. Questo sono stati la grande massa di reporter per caso e di registi che a Genova, hanno mostrato la realizzazione dell’utopia zavattiniana di una tecnologia capace di rendere le “cinecamere” simili alla biro, con le quali la scrittura diventa possibile per tutti.
Mille occhi con i quali, come Rainews, ci trovammo a fare subito i conti. Decidendo di costruire un percorso condiviso nel quale autonomia e rispetto reciproco divennero il collante di una collaborazione proficua. Fin dall’inizio avevamo scelto per raccontare gli eventi genovesi, una strada diversa dalla spettacolarizzazione. Che era invece la via seguita da tutti gli altri media. Avevamo deciso, semplicemente, di informare. Bastava questo, agli occhi di tutti, per fate la differenza.
re mesi prima dell’evento creammo un appuntamento settimanale (11 puntate ) dal titolo embiematico: SPECIALE 68 -PROVE TECNICHE DI DIALOGO- all’interno del quale istituzioni e movimenti hanno avuto (per la prima ed unica volta) la possibilità di confrontare le loro idee.
Uno sforzo di informazione (per gli spettatori) e di formazione (per noi) che ci consentì di arrivare preparati alle giornate genovesi. E di essere quindi tempestivi nel racconto dei fatti che col passare dei giorni si facevano sempre più convulsi. La voglia di essere testimoni attivi dell’evento ci fece guadagnate il rispetto di tutte le parti in campo.
E ci consentì un rapporto leale, essenziale ed insostituibile con gli altri media sul campo. Che di noi si fidavano. Che con noi collaboravano. I mille occhi sapevano di non poter avere, ciascuno per proprio conto, la pretesa di essere portatori della verita’ assoluta, ma solo di realtà parziali, che possono essere ricomposte in momenti collettivi di incontro scambio. E così è stato.
Ed anche quando gli scontri di piazza hanno provocato un totale cambiamento del registro informativo sugli avvenimenti, la padronanza della situazione ci ha dato modo di essere allo stesso tempo, tempestivi ed accurati; a cominciare dal racconto della uccisione di Carlo Giuliani per finire con la notte tragica e “cilena” passata nelle scuole Diaz e Pertini dove, grazie a un telefonino e ad una videocamera digitale, primi tra i media tradizionali, abbiamo documentato e denunciato quello che era avvenuto all’interno delle scuole, smertendo “in diretta” la ricostruzione ufficiale nel momento stesso in cui ci veniva fornita dalle forze dell’ordine.
Una scommessa vinta. Essere tempestivi e accurati è possibile. Quando la velocità non è fretta. Quando la competenza non è competitiva. Quando il rispetto te lo guadagni sul campo.
La notte della Diaz di Fausto Pellegrini
Estratto dal Libro Bianco su Genova 2001 (a cura del Genova Social Forum)
“Pereira sostiene che a quel punto si alzò dalla seggiola. Si era messo a sedere perché sentiva il cuore in gola, ma a quel punto si alzò e disse: ho sentito delle grida voglio andare a vedere cosa succede in camera mia. Il magrolino basso gli puntò la pistola. Al suo posto non lo farei, dottor Pereira, disse, i miei uomini stanno facendo un lavoro delicato e per lei sarebbe sgradevole assistere…”
(Antonio Tabucchi, “Sostiene Pereira”)
Sembrava tutto finito. Tragicamente ma definitivamente finito. Le stazioni ferroviarie, chiuse durante i giorni del G8, erano state riaperte, migliaia di ragazzi, stremati da due giorni di guerra non prevista, erano già ammassati davanti a quella di Brignole in attesa de treni che li avrebbero riportati a casa.
Sembrava tutto finito. O forse speravamo fosse così, anche se continuavano a girare voci di possibili blitz delle forze dell’ordine. Come quelle all’interno della zona rossa che rimbalzavano dagli infiniti posti di blocco interni e che invitavano a restare all’erta, “perché la notte è ancora lunga”.
Tutto inizia, per me, con una telefonata che arriva alle h.23.50 di sabato 21 luglio: mi avvertono che sta accadendo qualcosa nel centro stampa del Genoa social forum e nella scuola di fronte, dove in tanti avevano trovato alloggio durante i giorni del controvertice, complice anche la pioggia che aveva allagato alcuni altri ricoveri. “Qualcosa di molto grave”, dice il mio interlocutore. Che mi prega di andare a vedere ma non mi dice dove si trova “Perché ho paura”, mi sussurra. “Perché sta avvenendo di tutto, stanotte”.
Ne ho viste talmente tante in questi giorni che non comprendo cosa ci possa ancora essere di così terribile e spaventoso che non sia già avvenuto. Giusto il tempo di raccattare due telefonini (i tre che mi erano serviti per la diretta del pomeriggio sono ormai scarichi e inservibili) ed una telecamera digitale e con Giuseppe Rogolino, un altro preziosissimo collega di Rainews, partiamo alla volta della scuola Diaz. A mezzanotte e un quarto siamo già lì. E lo spettacolo che mi (ci) si presenta è al di là di ogni immaginazione.
Molto si è scritto, visto detto su quella notte, grazie anche ai mille occhi che hanno documentato l’accaduto. Le persone più lontane hanno potuto farsi certamente un’idea di quello che è successo. Quello che però è impossibile ricostruire è il senso di impotenza, rabbia e inutilità che ognuno di noi ha provato e si porta ancora dentro stando lì in quelle ore: testimoni impotenti di un massacro ingiustificabile.
Appena arrivo vedo via Cesare Battisti, quella dove sono le due scuole, bloccata da entrambi i lati. Le sirene delle ambulanze e quelle delle macchine e dei cellulari di carabinieri e polizia si mischiano insieme in un rumore assordante. Ancora più insopportabile sommato con quello che proviene da un elicottero che continuerà a sorvolare a bassissima quota l’area fino a ben oltre la fine del blitz. Il rumore del motore ti entra dentro, mentre le pale dell’elica sono talmente vicine che mi fanno volare i fogli degli appunti in qualche modo apparecchiati.
Faccio il primo di una serie interminabile di collegamenti telefonici con RAINEWS24 che per tutta la notte seguirà in diretta quello che sta accadendo.
La strada è completamente occupata da uomini in divisa che tengono sotto controllo entrambe le scuole, poste una di fronte all’altra. Sono già tantissimi anche se, scopro immediatamente che non sono altro che una piccola parte di quelli che sono li, gli altri sono dentro gli edifici: la versione ricorrente è che cercano armi e black bloc.
Mentre un poliziotto, con voce concitata ed in assetto di guerra, mi dice questo, comincio a vedere che tanti ragazzi vengono portati via in barella. E’ notte ma l’illuminazione che arriva dall’alto dall’elicottero aiuta anche noi a vedere e riprendere i loro volti tumefatti e sanguinanti. Alcuni di loro sono ancora nel sacco a pelo dentro cui sono stati “sorpresi”. Ma siamo ancora fuori dalle scuole: nessuno può entrare. Non la stampa, ma neanche gli avvocati, i portavoce del social forum, i parlamentari”.
L’operazione è in corso – è la risposta ritornello che ascoltiamo all’infinito – non potete passare. Lasciateci finire il nostro lavoro”. La situazione è sempre più irreale. Riesco finalmente ad entrare nel centro stampa del Social forum: è tutto sottosopra. Ai piani superiori, tra gente che piange e che impreca, i computer dei legali sono completamente distrutti: con loro, mi dicono, sono andate in frantumi anche le tante testimonianze di abusi raccolte dai legali del social forum.
Mi fermo a parlare con alcuni avvocati. Non credono ai loro occhi. Tutti sanno che solo per entrare in un ufficio legale c’è bisogno di pacchi di autorizzazioni. Figurarsi allora cosa ci vorrebbe per distruggerne uno. Ma tant’è. Un tranquillo ufficio stampa, magari solo un po’ più povero e disordinato degli altri, un ufficio legale da campo, un centro stampa dove le radio e tv indipendenti trasmettevano il loro tam tam dalle manifestazioni genovesi: tutto questo è solo un ammasso di lamiere accartocciate tra loro.
Torno giù in cortile e mi rientra nelle orecchie il rombo assordante dell’elicottero che sta li a ricordarmi che non si tratta di un incubo. Esco fuori dalla Diaz e mi trovo in mezzo tra la polizia schierata e i manifestanti aggrappati alle ringhiere che urlano “assassini, assassini “. Si vedono due sacchi che vengono portati via dalla scuola Pertini: si sparge la voce che potrebbero esserci dei morti: fortunatamente non è vero, ma la tensione diventa, se possibile, ancora più forte.
Arriva Roberto Sgalla capo ufficio stampa della Polizia, che ci fornisce la prima versione ufficiale: “Siamo intervenuti in base a quanto dispone l’art. 41 del testo unico di pubblica sicurezza. Ci è stata segnalata la presenza di armi e black bloc. Siamo intervenuti con la forza per rispondere alle aggressioni degli occupanti delle scuole. Ma tranquillizzatevi, lì dentro non sta succedendo niente di particolare. I feriti che vedete sono quelli che sono rimasti colpiti nelle manifestazioni del pomeriggio o dei giorni scorsi che noi stiamo provvedendo a trasportare in ospedale”.
Vedo un varco tra le forze dell’ordine schierate a difendere l’ingresso dell’altra scuola e decido di provare ad entrare lì dentro. Non è possibile, mi bloccano e mi rimandano indietro. Sarà ormai l’1.30 e il “lavoro” non è ancora finito. Accanto a me i parlamentari e gli avvocati urlano e protestano: “abbiamo diritto di entrare, di assistere alla perquisizione “. Ma qui il diritto e la legge sembrano davvero un optional e la risposta che si sente è sempre, ossessivamente, la stessa “lasciateci lavorare”.
Passano altri venti minuti, e finalmente riesco ad entrare nella scuola dormitorio. Sembra un altro posto rispetto a quello che conoscevo e dove ero stato più volte in quei giorni. Un posto dove, penso, avrei dovuto dormire anch’io se la mia stanza non si fosse improvvisamente liberata, visto che avevo trovato posto in albergo solo fino al 20 luglio. Eravamo già d’accordo ma il caso ha voluto diversamente.
Il cancello è completamente divelto, nel cortile della scuola c’è di tutto: sedie sfondate carte, penne, vestiti, magliette, libri, pezzi di computer, scarpe. Entro. Da uno stretto atrio si arriva alla palestra: anche qui è tutto sottosopra. Ma quel che è peggio è che c’è sangue, tanto sangue dappertutto per terra, sulle pareti, sui termosifoni: sangue vivo, intenso e recente, non certo quello secco e vecchio delle comunicazioni ufficiali delle forze dell’ordine.
Dalla redazione di Roma mi arriva la notizia che il dr. Sgalla, raggiunto telefonicamente, ha ribadito in diretta tv che “tutto è sotto controllo, non sono state commesse violenze gratuite, e i feriti che vengono trasportati via hanno vecchie ferite che risalgono sicuramente agli scontri dei giorni precedenti “. “È sangue rappreso – dice – state tranquilli”.
Chiedo la linea per quella che è certamente la prima smentita tv alla versione ufficiale: “Sono dentro la scuola – dico – e le cose non stanno come vengono raccontate. Ce’ molto sangue, ed è sangue vivo. Si vedono scie di sangue che hanno tutta l’aria di appartenere a persone che cercavano disperatamente di fuggire ad una aggressione: qui stanotte c’è stata battaglia”.
Continuo il mio giro nella scuola. E il quadro si fa sempre più chiaro. Come in un racconto dell’orrore si vedono vestiti, libri, cellulari, coperte, biglietti ferroviari, documenti del controvertice sparsi per terra e accatastati insieme: tutti sporchi di sangue, tuffi vicini ad enormi chiazze rosse (che qualche Giornale, ancora giorni dopo, ha avuto il coraggio di spacciare per pomodoro o vernice, come in un western o un poliziesco di terza categoria).
Decido di andare a vedere ai piani superiori. Seguendo le tracce di tante piccole goccioline sul pavimento e sulla scala, trovo sul primo pianerottolo una immensa chiazza rossa, simbolo ed evidenza di un obiettivo raggiunto, colpito ed affondato. Tutto è sempre più drammaticamente chiaro.
Intanto cominciano ad entrare tutti, l’operazione è finita e le forze dell’ordine stanno abbandonando la strada: arrivano i ragazzi che si disperano, si cercano, non sempre si trovano. E molti di loro cominciano a raccontare quella che chiamano senza mezzi termini “aggressione cilena”. I racconti sono simili anche se fatti in una babele di lingue: “Ci hanno picchiato, presi a calici e manganellate, senza un perché. Sembravano impazziti”. “Hanno sfondato porte e finestre, sono entrati e ci hanno colpiti. Molti di noi dormivano. Chi cercava di scappare ai piani superiori veniva inseguito raggiunto e picchiato ancora”.
Ora vedo anche i responsabili del social fornm, i parlamentari ed i legali che finalmente sono nella scuola anche loro. Mi fermo a parlare con Luisa Morgantini, che mi riconosce e mi abbraccia. Poi corre via, per fare il giro degli ospedali genovesi alla ricerca dei feriti. Poi vedo don Vitaliano della Sala, che non crede ai suoi occhi. Parla di “aggressione di stampo cileno” dice che “nulla sara’ piu’ uguale a prima”.
Facciamo insieme il giro del secondo piano della scuola e ogni volta che entriamo in un’aula restiamo sconvolti, anche se la scena è sempre la stessa: aule sottosopra, grandi chiazze di sangue per terra, sui muri, sui termosifoni. Ci fermiamo in un’aula chiamo la redazione e lascio la parola a don Vitaliano. Tutt’intorno persone che piangono, imprecano, si cercano.
Poi anche don Vitaliano va via, e mi ritrovo insieme al collega dell’Ansa accasciato, esausto, su un banco: sta dettando l’ennesimo lancio di agenzia. Alle 4.30 anch’io faccio l’ultimo collegamento con un telefonino oramai semi scarico. Appuntamento alle 7.00 per il prossimo. immagini e interviste che abbiamo raccolto nelle scuole cominciano a girare ininterrottamente.
La notte sta per finire. Ma il giorno ancora non è arrivato. Neanche 20 anni dopo.
* Inviato Rainews
Fonte: Premio Roberto Morrione
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