La giurisdizione è esercizio di democrazia solo se conosciuta e comprensibile
La rubrica della Rivista Giustizia Insieme sul tema Giustizia e comunicazione, proseguendo nel percorso annunciato nell’editoriale del 18 maggio 2021, dopo aver ascoltato la voce della magistratura di legittimità e di merito nei contributi di Gianni Canzio, Giovanni Melillo, Claudio Castelli, ospitato il punto di vista della comunicazione professionale di Rosaria Capacchione e Giovanni Bianconi, discusso del valore della parola quale strumento chiave dell’emancipazione dell’individuo e della società nel contributo di Francesco Messina ed affrontato il tema del linguaggio dell’Accademia con Marina Castellaneta, torna oggi a riflettere sui temi della comprensibilità e conoscibilità della giurisdizione con Marcello Basilico.
Perché gli uffici possono e debbono comunicare ai cittadini l’attività giudiziaria
Le linee guida del 2018 del CSM per una corretta comunicazione istituzionale sono rimaste quasi lettera morta negli uffici giudiziari. Eppure da sempre tutti gli operatori del settore avvertono l’esigenza di un’informazione più attenta e corretta sui contenuti della giurisdizione. Soltanto facendo partire dall’interno degli uffici iniziative istituzionali mirate in tal senso si può ottenere una comunicazione efficace, equilibrata, capace di raggiungere una vasta collettività e pertanto davvero improntata ai valori della democrazia.
Una giustizia trasparente e comprensibile
A compimento di un’attività di studio affidata a una commissione mista di giuristi ed esperti della comunicazione, l’11.7.2018 il Consiglio Superiore della Magistratura ha approvato una delibera a suo modo rivoluzionaria, con la quale per la prima volta viene affidato ai singoli uffici giudiziari il compito di comunicare all’esterno il proprio operato e vengono loro illustrati gli strumenti per farlo in modo tendenzialmente uniforme.
L’iniziativa consiliare non è stata estemporanea, ma ha fatto seguito ad una nutrita serie di sollecitazioni a livello europeo sull’importanza della comunicazione delle istituzioni pubbliche per valorizzarne il carattere democratico[1].
Nel settore giudiziario l’indipendenza della magistratura è al contempo fattore di stimolo e di cautela in quella direzione. Da un lato, la comunicazione serve a fare comprendere il contenuto delle decisioni e, dunque, a rendere condivise nella società regole e valori sulla cui base esse vengono adottate. La comprensione accresce la fiducia dei cittadini verso l’ordine giudiziario, rafforzandone al contempo l’impermeabilità alle interferenze esterne, che possono avvenire in modo manifesto, occulto o subdolo.
Sotto quest’ultimo profilo, la comunicazione diretta della notizia da parte dell’istituzione previene la diffusione di notizie incomplete o imprecise su indagini o processi. Si riducono di conseguenza i margini di strumentalizzazione degli atti giudiziari da parte di chi voglia fornirne letture mistificatorie.
D’altro canto, però, l’indipendenza della magistratura richiede particolare cautela nelle relazioni coi media, per evitare rapporti pericolosi tra i soggetti in campo o forme di comunicazione che danneggino l’indagine, il processo o i protagonisti della vicenda giudiziaria. Ai magistrati è richiesto di dare prova di moderazione in tali relazioni[2].
Di fatto l’accessibilità delle informazioni sull’andamento dell’attività giudiziaria rappresenta ormai uno dei parametri di valutazione nell’Unione Europea dell’efficienza, della qualità e dell’indipendenza dell’attività giudiziaria[3]. La capacità di comunicazione è considerata ormai una componente fondamentale della professionalità del magistrato, soprattutto quando la sua funzione lo ponga in costante contatto col cittadino e, a maggiore ragione, quando si verifichino relazioni con fasce di popolazione più fragile.
Per l’ufficio giudiziario essa si pone evidentemente ad un livello più alto e ancora più complesso.
Le linee guida emanate dal CSM[4] valorizzano a questo riguardo due elementi: la trasparenza e la comprensibilità dell’azione giudiziaria. Vanno – e non a caso il Consiglio sente di doverlo precisare in premessa – controcorrente rispetto a un sentire intimo e diffuso della magistratura, legato all’idea della riservatezza della funzione, se non, talvolta, alla sacralità del rito decisorio.
Trasparenza e, soprattutto, comprensibilità sono in effetti predicati primari della decisione, tema sul quale la formazione della Scuola Superiore della Magistratura e del Consiglio stesso sono da tempo all’opera. Ma nelle linee guida del 2018 si coglie il tentativo di un cambio di passo rispetto ad un livello comunicativo fermo agli Uffici per il rapporto col pubblico, alle divulgazioni di eventi o notizie sui siti internet di alcuni uffici giudiziari, alle buone prassi relazionali adottate da pochi dirigenti illuminati.
L’idea del Consiglio è quella di armonizzare prassi e procedure, impostando delle forme di comunicazione comuni e, come tali, riconoscibili all’esterno, dotate dunque di credibilità e autorevolezza, oltre che di facile accessibilità da parte degli interlocutori interessati.
E’ un’idea che tuttavia ad oggi non ha attecchito. A quasi tre anni di distanza – sarà per la forma della linea-guida, percepita dai dirigenti come priva di cogenza, o per quella propensione ad una prudente ritrosia di cui si diceva – soltanto il tribunale di Genova ha attuato pienamente la delibera, dotandosi di un responsabile della comunicazione e costituendo uno stabile canale di accesso alle notizie per gli organi d’informazione e per i cittadini.
L’urgenza di comunicare.
L’inerzia degli uffici giudiziari stona coi cori che accompagnano quasi ogni giorno contro l’inadeguatezza della rappresentazione che viene data mediaticamente delle vicende giudiziarie o gli scivoloni comunicativi di cui sono protagonisti, non di rado, magistrati alle prese con telecamere, microfoni, taccuini e social network.
Se è vero che la fiducia dei cittadini viene costruita attraverso un’informazione leale e trasparente, non è pensabile che quanti abbiano a cuore la credibilità della giurisdizione rimuovano sistematicamente il tema di una relazione con l’esterno che avvenga per via istituzionale su iniziativa dei magistrati, cioè di chi conosce e pratica la giurisdizione ed avrebbe dunque tutto l’interesse a spiegarne i meccanismi.
Quanto più rare siano le esperienze dirette delle persone con una specifica area tematica, tanto maggiore sarà la loro dipendenza dalle notizie offerte dai media per ottenere informazioni e interpretazioni su quell’area[5]. Nel 2015 l’11% della popolazione della popolazione residente in Italia di almeno diciotto anni d’età aveva dichiarato di essere stato coinvolto in un contenzioso civile nella propria vita (dichiarandosi insoddisfatto nel 52% dei casi)[6].
Si tratta di una percentuale minoritaria rispetto al numero di cittadini che ha relazioni abituali con gli altri servizi pubblici essenziali; la considerazione è rafforzata dal fatto che il dato include anche le situazioni di contatto occasionale avuto da una persona non direttamente interessata dalla causa, come il testimone o il consulente, e che, per chi è parte d’un giudizio, il suo rapporto con la giustizia trova spesso mediazione nella presenza d’un legale, che è colui che partecipa davvero all’attività giurisdizionale.
La rappresentazione del mondo giudiziario è dunque delegato ai media, nella formazione del convincimento collettivo, molto più di quanto avvenga per altre sfere della società moderna. Il classico assunto di Lhumann (“ciò che sappiamo della nostra società, e in generale del mondo in cui viviamo, lo sappiamo dai mass media?”)[7] è dunque per la giurisdizione più attuale che mai. Con tre aggravanti: l’accettazione più o meno passiva della capacità selettiva dei temi giudiziari da parte del sistema mediatico; la goffaggine con la quale il magistrato si muove, per propria cultura, in questo circuito; l’estensione e l’intrusività dei mezzi moderni di circolazione delle notizie, che complicano le possibili relazioni impostate nei confronti dei media tradizionali.
La selezione delle informazioni avviene secondo procedimenti riconoscibili, che formano degli stereotipi dai quali si crea la realtà soggettiva conosciuta dai cittadini per eventi e argomenti estranei alla loro sfera di diretta percezione. Il medium
- mette in luce alcuni fatti
- vi attribuisce un significato simbolico
- crea un legame fatto/simboli secondari
- associa il tema a un portavoce (spesso un eminente esponente politico o unopinion leadergià noto per il proprio pensiero sul tema).
Si crea così un’interazione costante e complessa tra il medium e la fonte, dotata del potere di selezionare il fatto e il medium comunicatore, come spesso accade per i blog di alcuni personaggi politici.
Esemplificando rispetto al procedimento anzidetto, si può ipotizzare una vicenda tratta da una vicenda giudiziaria trattata nel 2019 dalla stampa e dai social network con una certa risonanza:
- un fatto: la condanna di un uomo, con riconoscimento delle attenuanti generiche, per omicidio volontario commesso nei confronti d’una donna;
- la valenza simbolica: le donne vittime di violenza indifese dallo Stato;
- ricorso a simboli secondari: il giudice è donna; la vittima aveva più volte chiesto aiuto allo Stato; lo Stato non tutela i cittadini (e le cittadine, in particolare) perché i giudici non applicano pene adeguatamente severe;
- ricerca del portavoce: la fonte di potere garantisce dichiarazioni dirette e notizie (ad es. sullo stato di proposte di legge avviate in materia oppure su dettagli relativi alla figura del giudice in questione).
I temi dell’agenda comunicativa vengono così composti e ricomposti mediante la creazione di legami tra prospettive (attribuiti) e frame (sottotemi). In questo modo è possibile ipotizzare quale valutazione darà del fatto il fruitore dell’informazione, che eserciterà un’influenza non più solo cognitiva, ma anche persuasiva[8].
Questo meccanismo diviene incontrollato quando del fatto s’impadronisce il circuito della comunicazione digitale, nel quale non è riconoscibile neppure il soggetto comunicatore, oltre che la fonte.
Nascono così gli stereotipi che ruotano intorno al mondo della giustizia, indipendentemente dal loro completo fondamento: i processi sono lenti; le decisioni dell’autorità giudiziaria sono antieconomiche per il mercato e i soggetti economicamente rilevanti che vi operano; l’applicazione delle leggi da parte dei giudici indebolisce la difesa sociale; esiste perciò un’emergenza-criminalità; esiste un’emergenza-immigrazione collegata all’emergenza-criminalità; le indagini penali alimentano lo scontro tra politica e magistratura per volontà dei pubblici ministeri.
Soltanto inserendosi nella catena dell’agenda comunicativa è possibile interferire con la formazione di tali stereotipi, spiegando la complessità delle vicende trattate nell’attività giudiziaria, le regole che la governano e la logica dei suoi effetti.
I rischi della comunicazione improvvisata
E’ scontata dunque la necessità che il rapporto, talvolta perverso, tra fonte e soggetto comunicatore venga interrotto dall’intervento dell’artefice della vicenda. Nel caso esemplificato in precedenza, l’artefice è l’autorità giudiziaria che ha trattato il fatto con i suoi contenuti simbolici più o meno evidenti.
Subentrano a questo punto, però, le cautele imposte dalla peculiarità istituzionale e culturale del ruolo del magistrato: istituzionale, perché egli deve essere e apparire indipendente, il che implica anche equanimità rispetto al fatto; culturale, perché il magistrato, abituato al rapporto rigido con la regola normativa da applicare e col riserbo da osservare, non è dotato abitualmente degli strumenti per muoversi sullo stretto crinale dell’informazione lecita e utile. Il magistrato non è attrezzato professionalmente per fare comunicazione pubblica né per cogliere la notizia che si annida in un processo e che è appetita dai media più d’ogni altro aspetto giuridico o investigativo.
Le dichiarazioni dei pubblici ministeri che credono nel metodo della conferenza stampa offrono una rappresentazione plastica delle diversità degli approcci alla stampa, diversità che spesso mal si addicono ad un taglio istituzionale della comunicazione. Basti considerare come spesso le affermazioni più improvvide vengano dalle interviste rilasciate a margine della conferenza stampa, quando l’incalzare delle domande incrina il programma delle dichiarazioni che era stato preparato a tavolino.
In generale le critiche sollevate dai commenti più o meno debordanti di pubblici ministeri e giudici alle proprie indagini o ai propri processi, con precisazioni o rettifiche talvolta conseguenti, denotano l’impreparazione comunicativa della magistratura. Mancando canoni relazionali prestabiliti, identificabili e riconosciuti all’esterno, l’informazione viene diffusa dai magistrati – che pure ne avvertono la necessità – con modalità spesso estemporanee, senza il paracadute di un filtro istituzionale.
Si ottiene così il risultato opposto agli obiettivi di trasparenza e comprensibilità che dovrebbero costruire la fiducia dei cittadini verso l’azione giudiziaria. L’informazione occasionale o improvvisata si espone – non meno del silenzio improvvido di fronte a un evento di grande rilievo pubblico – alla divulgazione strumentale, soprattutto da parte dei commentatori che cercano conferme nelle proprie tesi precostituite o degli organi, spesso eterodiretti, che amano imbastire tormentoni sulla giustizia per ragioni, nel migliore dei casi, miseramente commerciali.
Un’informazione pubblica efficace, istituzionale, democratica
Nelle linee guida il CSM ambisce ad instaurare “un circuito virtuoso che consenta di avere migliore consapevolezza di come il servizio giustizia è percepito dall’esterno”, nell’evidente intento di concorrere a migliorare tale percezione. Sono auspicate allo scopo riunioni interne agli uffici giudiziari per preparare i momenti di comunicazione e valutarne gli effetti.
Si chiede che la comunicazione da parte loro – siano essi giudicanti o requirenti – sia obiettiva: anche la presentazione del contenuto di un’accusa deve essere “imparziale, equilibrata e misurata non meno di una decisione giurisdizionale”.
Occorre inoltre evitare, ammonisce il CSM, la discriminazione tra giornalisti e testate, la costruzione o il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dell’informazione, la personalizzazione delle informazioni, l’espressione di opinioni personali o giudizi di valore su persone o eventi.
Il catalogo dei doveri degli uffici nei confronti degli individui e all’interno del processo è un’interessante elencazione a contrario dei vizi dell’informazione giudiziaria: dal rispetto della vita privata e familiare delle persone coinvolte, alla tutela della loro sicurezza e della loro dignità, prevenendo il rischio di vessazione da parte dei media; dalla chiarezza nella distinzione dei ruoli processuali alla centralità del giudicato; dai diritti delle vittime e dell’imputato (per quest’ultimo compreso quello di non apprendere dalla stampa quanto dovrebbe essergli comunicato preventivamente per via formale) sino al dovere del p.m. di rispettare le decisioni giudiziarie.
La vera portata innovativa dell’iniziativa consiliare sta peraltro nell’invito a essere comunicatori attivi. La delibera infatti non si limita a delineare le iniziative reattive, per correggere o smentire le informazioni errate, ma incoraggia “lo sviluppo di un approccio proattivo e garantistico” rispetto a singoli casi così come al funzionamento dell’intero sistema giustizia.
Le comunicazioni reattive si pongono nello stesso ordine concettuale delle pratiche a tutela del CSM, le quali “hanno come presupposto l’esistenza di comportamenti lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria”[9]. L’intervento dell’ufficio giudiziario rappresenta una reazione anticipata e, dunque, più diretta ed efficace di quella consiliare. Se vogliamo la comunicazione reattiva ha un orizzonte ancora più vasto, rivolto anche alla tutela esterna delle persone, spettando all’istituzione anche il compito di evitare che il cittadino subisca dall’attività giudiziaria un danno superiore e diverso da quello che essa già provoca inevitabilmente.
Ma è nell’iniziativa proattiva che si coglie un approccio inedito e sofisticato della comunicazione suggerita agli uffici giudiziari: la notizia di carattere giudiziario d’interesse pubblico sta non solo nel procedimento penale clamoroso per la qualità o il numero degli imputati (o delle vittime) o per le modalità del delitto, ma anche nella causa civile che veda in gioco interessi collettivi rilevanti e persino nel provvedimento organizzativo dell’ufficio che coinvolga la collettività.
Il retropensiero di questo invito dunque è che, se vi sono controversie “di obiettivo rilievo sociale, politico, economico, tecnico-scientifico” di cui è bene dare pubblicità, perché d’interesse pubblico “effettivo”, non sta necessariamente nel processo penale il serbatoio prevalente delle informazioni rilevanti custodite dall’ufficio giudiziario.
Una comunicazione attiva costante – se improntata a criteri di “chiarezza, sinteticità e tempestività” – è destinata creare una circolazione di notizie su temi diversi dalle questioni criminali, ad offrire un quadro più ampio, non circoscritto alla repressione penale, dell’azione giurisdizionale. In un’ultima analisi essa serve anche a stemperare le relazioni spesso complicate con gli organi di stampa e a fornire un’immagine meno severa del servizio giustizia, dando uno spaccato della giurisprudenza che vada oltre i casi conflittuali che generalmente si associano alle indagini e ai processi penali.
Il presupposto ineludibile per l’efficacia di questa attività è che le notizie fornite dall’ufficio siano chiare per chi debba divulgarle al pubblico, conservando al contempo sia quello specifico interesse che qualifica giornalisticamente un evento come “notizia” sia il necessario rigore tecnico-giuridico.
E’, questa, una delle operazioni più complesse per il giurista, abituato com’è a scrivere atti non destinati, nell’ottica che lo contraddistingue tendenzialmente, a una collettività indistinta. Non avendosi lo spazio per approfondire la questione, pur appassionante e fondamentale, sui destinatari delle decisioni dei giudici, conviene almeno ricordare che, “la comunicazione che funziona meglio è quella che tiene conto dell’interlocutore più debole, non di quello più capace”[10].
Approdiamo così all’obiettivo ultimo, il più alto: comunicare con continuità e chiarezza l’attività giudiziaria è, in effetti, un esercizio di democrazia. I magistrati agiscono in un contesto in cui, magari stancamente ma immancabilmente, si usa (e talvolta si abusa di) un linguaggio per iniziati (gli avvocati; altri magistrati; i consulenti)[11]. L’adattamento di quel linguaggio alle esigenze di una diretta informazione pubblica esterna è l’occasione per raggiungere la platea più ampia possibile di cittadini, a nome dei quali la giustizia è amministrata.
Sarebbe pure l’occasione, viene da aggiungere, per ripulire progressivamente quello stesso lessico anche a vantaggio nostro.
Il caso genovese.
Questa realtà è stata colta appieno dalla Corte costituzionale. Mutuando in parte i modelli delle Corti sovranazionali[12], la Consulta si è dotata di un ufficio stampa e ha sfornato comunicazioni sulle proprie principali decisioni e sulle iniziative ulteriori, accelerandole opportunamente nel periodo di pandemia, diffondendole anche in lingua inglese e inserendosi nei principali social network[13].
Con la sue linee guida il CSM ha per parte sua coniato la figura del responsabile della comunicazione. Negli uffici requirenti esso dovrebbe coincidere in linea di principio col procuratore della Repubblica, il quale può comunque delegare l’incarico a uno o più magistrati “scelti in relazione alle loro attitudini ed alla loro esperienza comunicativa”. Per gli uffici giudicanti il CSM prevede la delega come ipotesi normale, ammettendo che negli uffici di maggiore dimensione i responsabili possano essere due giudici, distinti per settore, civile e penale.
A oggi l’unica esperienza attuativa delle linee guida è, per quanto si sa, quella del tribunale di Genova. A distanza di quasi tre anni dall’emanazione delle linee guida, essa ha perso ormai lo status di laboratorio sperimentale, per assumere quello di vera e propria isola sperduta nell’oceano.
Nel tribunale genovese, dopo la pubblicità della nomina seguita all’indizione d’una selezione interna e i contatti preliminari coi diversi presidenti di sezione, il responsabile per la comunicazione è diventato il collettore delle informazioni relative ai procedimenti, alle decisioni, agli eventi e alle attività organizzative che possono assumere un interesse pubblico. Una volta che è stata identificata anche dagli organi di informazioni attraverso la pubblicità delle prime comunicazioni, questa figura è divenuta anche per loro il punto di riferimento per acquisire nuove notizie.
Il procedimento penale per il crollo del Ponte Morandi – in particolare le fasi preparatorie ed il successivo svolgimento dell’incidente probatorio sulle cause dell’evento – è stato il più evidente e naturale scenario d’impegno, poiché ha comportato contatti con organi mediatici molteplici, persino stranieri e talvolta spinti dall’interesse a conoscere i meccanismi del nostro processo e la valenza probatoria dell’incidente.
In tutti gli interventi comunicativi legati a tale vicenda processuale v’è un obiettivo comune: spiegare al pubblico come i tempi dell’incidente probatorio e, in generale, di ogni decisione in un giudizio tanto complesso non siano dovuti a inefficienze del sistema giudiziario, ma all’esigenza di pervenire ad un accertamento della verità più completo possibile, nell’interesse delle vittime e di tutta la collettività.
Prima e dopo di questo il responsabile della comunicazione del tribunale di Genova si è misurato con eventi disparati: dall’inaugurazione dei primi uffici di prossimità sul territorio del circondario alle scelte della curatela in un importante e delicato fallimento; dalle convenzioni con enti esterni al tribunale alle soluzioni organizzative d’interesse per la cittadinanza.
In questo quadro, una tipica azione reattiva è rappresentata dalle rettifiche indirizzate a una singola testata (ai sensi dell’art. 8 della legge sulla stampa 8 febbraio 1948, n. 47) o a una pluralità indistinta di mezzi d’informazione, soprattutto per correggere notizie distorte e dannose per il prestigio di giudici del tribunale.
Sul piano proattivo, ha suscitato discussioni, confluite anche in un utile dibattito pubblico organizzato insieme col locale Consiglio dell’ordine degli avvocati, la conferenza stampa organizzata per illustrare i contenuti del dispositivo d’una sentenza collegiale in materia di peculato e altri reati contestati in relazione all’utilizzo per scopi personali di fondi pubblici destinati ai gruppi dei consigli regionali.
In questo caso, poche ore dopo la lettura del dispositivo, il presidente e il responsabile della comunicazione del tribunale hanno dato alla stampa, fornendo anche un testo scritto, un resoconto sulla durata del processo, sulle posizioni di accusa e difesa e sui punti di maggiore rilievo pubblico della decisione. Si è badato ad evitare il rischio d’interferire con le possibili motivazioni della sentenza, per evidenziare invece, con un linguaggio accessibile al pubblico, i meccanismi giuridici che hanno condotto all’irrogazione di pene personali e reali.
L’opportunità dell’intervento esplicativo era stata segnalata dai giudici stessi del collegio in relazione all’articolazione particolarmente complessa del dispositivo, all’esistenza di questioni di difficile comprensione, come la successione nel tempo della legge regionale di riferimento, agli effetti sulle posizioni dei singoli imputati delle diverse interpretazioni, anche con riferimento alla cosiddetta “legge Severino”, al possibile clamore che la decisione avrebbe potuto suscitare per la presenza, tra gl’imputati stessi, d’un sottosegretario di recente nomina.
Bisogna dare atto a tutti gli organi d’informazione di avere recepito l’iniziativa con spirito profondo di collaborazione e convinta adesione. Le notizie pubblicate su media locali e nazionali, pur dando risalto alle condanne e ai loro effetti sulle posizioni dei personaggi politici imputati, hanno recepito i profili tecnici della decisione, riportando talvolta ampi stralci della comunicazione scritta diffusa dal tribunale e dandone delle spiegazioni in termini comprensibili per la pubblica opinione.
Ogni iniziativa siffatta è avvenuta sempre su segnalazione del giudice titolare del procedimento o del suo presidente di sezione, concertata con entrambi e col presidente del tribunale; il responsabile della comunicazione ha assunto il ruolo di medium tra l’ufficio giudiziario e gli organi d’informazione, filtrando la notizia attraverso il lessico e l’attività (comunicato; conferenza stampa; messaggio di posta elettronica; intervista) che il gruppo di lavoro costituito per l’occasione aveva ritenuto più efficace.
L’organizzazione del tribunale in tempo di pandemia costituisce oggi il tema di confronto più pressante con la pubblica opinione locale. I disagi creati prima dalla sospensione dei processi, poi dalla necessità di individuare spazi più idonei di quelli tradizionali per celebrare udienze in sicurezza, infine dalla chiusura di aule per inagibilità con la conseguente ridislocazione di processi e udienze hanno creato la necessità di fornire un’informazione costante ad avvocati, parti, cittadini.
Vi si è fatto fronte prevalentemente aggiornando il sito internet istituzionale. Talvolta si è reso necessario chiedere l’intervento della stampa. Alcuni giornalisti non hanno mancato di chiedere interviste al presidente e la raccolta d’immagini sullo stato dell’organizzazione dei locali nei siti impiegati dal tribunale per ospitare le udienze.
L’esperienza dimostra dunque che si può creare in un tribunale un circuito consolidato di segnalazione, raccolta e diffusione di notizie nonché di risposta alle notizie scorrette già altrimenti diffuse. E’ quindi possibile passare dall’invocazione stanca e reiterata per un’informazione giudiziaria migliore alla costruzione di un sistema comunicativo che rende l’opinione pubblica consapevole dei contenuti della giurisdizione.
Note
[1] Si legge, ad esempio al punto 11 della Dichiarazione di Bordeaux), adottata il 18 novembre 2009 dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (CCJE) e dal Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei (CCPE) su richiesta del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa: “E’ altresì interesse della società che i mezzi di comunicazione possano informare il pubblico sul funzionamento del sistema giudiziario. Le autorità competenti dovranno fornire tali informazioni, rispettando in particolare la presunzione di innocenza degli accusati, il diritto ad un giusto processo ed il diritto alla vita privata e familiare di tutti i soggetti del processo. I giudici ed i magistrati del pubblico ministero debbono redigere, per ciascuna professione, un codice di buone prassi o delle linee-guida in ordine ai loro rapporti con i mezzi di comunicazione”.
[2] E’ questo il monito che si legge nella Raccomandazione Rec(2012) del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri, sul tema dell’indipendenza, dell’efficacia e della responsabilità dei giudici, adottata il 17 novembre 2010 e che incoraggia la creazione di posizioni di portavoce nei servizi giudiziari.
[3] Cfr. EU Justice scoreboard 2020, pubblicato il 10 luglio 2020, pag. 23
[4] La delibera dell’11 luglio 2018 è in www.csm.it/web/csm-internet, circolari e risoluzioni, VII commissione.
[5] L’osservazione, divenuta materia di rielaborazione per più recenti tesi nelle scienze di comunicazione moderna, è di Harold Gene Zucker, The variable nature of mass media influence, in B.D. Ruben (a cura di), Communication Yearbook 2, 1978, New Brunswick, USA, p. 227.
[6] Rapporto ISTAT su cittadini e giustizia civile, in www.istat.it/it/archivio/190586.
[7] Niklas Lhumann, La realtà dei mass media, Milano, 2000.
[8] Sulla costruzione dell’agenda comunicativa cfr. Sara Bentivegna e Giovanni Boccia Artieri, Le teorie della comunicazione di massa e la sfida digitale, 2019, Bari, pag. 176.
[9] Decreto del Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura del 15 luglio 2009, in G.U. 20 luglio 2009, seie generale, n. 166.
[10] Vera Gheno, Potere alle parole, 2019, Torino, pag. 153.
[11] Tullio De Mauro, in L’educazione linguistica democratica, Bari, 1975, pag. 76, parla di “una educazione espressiva posseduta dalla classe dominante come patrimonio abituale”, all’interno del quale essa “apre e chiude facilmente” l’accesso, aumentando o riducendo così il tasso di permissività per immettere o meno nuovi soggetti nel proprio ambito.
[12] Nel sito della Corte di giustizia dell’Unione Europea si legge: “L’Unità Stampa e Informazione fornisce l’informazione disponibile sull’attività giurisprudenziale della Corte di giustizia e del Tribunale. I due organi giurisdizionali si esprimono esclusivamente tramite le loro decisioni. L’Unità Stampa e Informazione non è quindi il loro portavoce. L’Unità diffonde, in una o più lingue, comunicati stampa che consentono di conoscere velocemente i punti essenziali delle sentenze e delle conclusioni. Possono essere oggetto di informazione per la stampa anche alcuni eventi, come le udienze solenni o le visite protocollari”.
[13] Cfr. Marta Cartabia, Relazione dell’attività della Corte costituzionale nel 2019, 28 aprile 2020, in www.cortecostituzionale.it
Fonte: Giustizia Insieme
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