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Riforma fiscale, ignorate le vittime di racket: alle nostre democrazie pallide non interessa la giustizia sociale

Davide Mattiello il . Economia, Giustizia, Istituzioni, Politica, Società

Il Parlamento ha perso un’altra occasione buona e non è colpa d’Alfredo. Il documento propedeutico alla riforma del fisco approvato dalle commissioni Finanze di Camera e Senato non tocca il nodo delle vittime di racket e questo è un problema per tutti gli italiani onesti.

La questione specifica è chiara: lo Stato pretende che la vittima, dopo aver denunciato, ricominci a pagare tasse e tributi a prescindere dall’avere ottenuto dallo Stato medesimo il risarcimento del danno che ha subito a causa delle estorsioni e a causa di tutti i guai che normalmente capitano a chi denuncia. Guai che spesso pesano assai di più del danno diretto prodotto dalla estorsione medesima: sono i danni dovuti alle lungaggini burocratiche, ai costi processuali, alle patologie che accompagnano queste vicende. C’è poi un danno collaterale particolarmente odioso in questi casi: l’isolamento sociale e professionale che troppo frequentemente colpisce chi denuncia anziché pagare e starsene zitto.

Il Parlamento in questa Legislatura ha peraltro votato all’unanimità alla Camera un ordine del giorno che impegna il governo a modificare le norme sulle vittime di racket introducendo un meccanismo di buon senso: la vittima ricomincia a pagare lo Stato dopo che lo Stato lo abbia risarcito.

Ma essendo ormai al terzo governo diverso, forse non è più così chiaro chi debba rispondere a questo “moto” parlamentare. Ora, che le nostre democrazie pallide, molto pallide, servano sempre meno a fare giustizia sociale e sempre più a tutelare la corsa al profitto di chi può permettersela mi pare tristemente evidente.

La corsa al profitto è l’unico totem rimasto attorno al quale immaginare l’organizzazione sociale e non c’è transizione ecologica, rivoluzione digitale, crisi climatica, apocalissi sanitaria, tragedia migratoria che smuova un qualche radicale e coerente ripensamento.

Anche la maggior parte di coloro che hanno un approccio critico verso questa o quella stortura direttamente o indirettamente prodotta dalla sacrosantissima corsa al profitto-di-chi-può-permettersela fa fatica a trovare il bandolo del conflitto, forse più preoccupata di non finire sommersa a propria volta (oltre al “greenwashing” esiste il “redwashing”!).

Ma la democrazia ha un futuro soltanto se mantiene viva la promessa di essere la via al riscatto sociale di chi subisce l’ostilità del mondo e della forza soverchiante dei più forti, o almeno così è per la democrazia fondata sul suffragio universale, cioè sull’idea rivoluzionaria (per davvero questa!) che “gli uomini nascano tutti liberi ed eguali”. Certo che c’è un altro modo di intendere la democrazia: la democrazia come autogestione del “club” esclusivo ed escludente dei privilegiati. Ma è tutta un’altra storia: non è la storia della Repubblica italiana di sicuro.

Ecco, tra coloro che scommettono sulla democrazia emancipante, capace di tutelare i deboli dai forti, ci sono quei cittadini che avendo incontrato il muso feroce della mafia, anziché abbattersi ed ubbidire hanno denunciato, affidandosi allo Stato.

Non capirlo e condannare questi cittadini al girone infernale delle carte bollate, delle incertezze, delle lungaggini, delle solitudini (si trova sempre un motivo apparentemente intelligente per “posare” queste persone) è un atto criminale perché aiuta indirettamente, ma consapevolmente, le organizzazioni mafiose ed è un atto moralmente e politicamente vergognoso perché contribuisce a liquidare la democrazia.

Il Fatto Quotidiano, il blog di Davide Mattiello

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