Carcere per i giornalisti si, ma non obbligatorio: la sentenza salomonica della Corte Costituzionale
Il carcere per i giornalisti non è più un “obbligo”.
La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 13 della legge sulla stampa (n. 47 del 1948) che fa scattare obbligatoriamente, in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato, la reclusione da uno a sei anni, insieme al pagamento di una multa.
Rimane però in vigore, perché ritenuto compatibile con i principi costituzionali, l’articolo 595, terzo comma, del Codice penale, che prevede, per le ordinarie ipotesi di diffamazione compiute a mezzo della stampa o di un’altra forma di pubblicità, la reclusione da sei mesi a tre anni oppure, in alternativa, il pagamento di una multa.
Che cosa cambia d’ora in poi per i giornalisti?
Nulla.
Tutte le querele per diffamazione lamentano l’ipotesi di reato ai sensi dell’articolo 595, terzo comma, del Codice penale.
Ogni anno, ai sensi di quest’articolo del codice penale che per la Corte Costituzionale è legittimo, in media vengono condannati 155 giornalisti per un totale di 103 anni di carcere (fonte: Ossigeno).
Chi è vittima di quelle che in Europa sono definite SLAPPs, Strategic lawsuit against public participation, le cause strategiche contro la partecipazione pubblica, ovvero le querele temerarie, lo sa bene: l’articolo 595 terzo comma è quello che viene invocato ogni volta.
Chi ha provato l’orrore si sentire il pubblico ministero invocare il carcere, ai sensi di quell’articolo, il 595, terzo comma, e solo per aver fatto il proprio lavoro, lo sa bene.
L’ho provato, ho provato quell’orrore: il pubblico ministero chiedeva per me otto mesi di reclusione. Il giudice mi ha assolta.
L’articolo 13 della legge sulla stampa dovrà essere abolito ed è certo un’ottima notizia: la Federazione nazionale della stampa giustamente definisce “storica” questa sentenza.
Ma non ci basta. Non cambia nulla, per chi è sul campo.
Il carcere per i giornalisti deve essere eliminato: l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo più volte proprio perché prevede, nel suo ordinamento, la reclusione per i reati d’opinione.
I reati d’opinione devono essere eliminati.
Nel 2013 Ossigeno per l’Informazione elaborò un dossier, dal titolo “Onore offeso e libertà di stampa”, contenente uno studio commissionato dall’Ufficio del Rappresentante Osce per la Libertà dei media, e alcuni pareri del Consiglio d’Europa, del Relatore dell’Onu per la libertà di stampa e di numerosi esperti.
Io stessa sono stata audita dal rapporteur Onu sul tema della diffamazione a mezzo stampa, avanzando proposte condivise ampiamente dalla categoria: dall’Ordine dei giornalisti, dalla Fnsi, da Ossigeno per l’Informazione, da una folta schiera di colleghe e colleghi.
Non voglio entrare troppo nel tecnico, quindi citerò solo alcune e più importanti modifiche da apportare al nostro ordinamento:
– eliminazione totale del carcere per i giornalisti: tale necessità è stata ribadita dall’Ordine dei giornalisti, che prima della discussione sulla questione di legittimità costituzionale aveva avanzato questa richiesta;
– necessità di eliminare la possibilità di perseguire i giornalisti contemporaneamente e in separata sede, civile e penale e anche in tempi diversi;
– necessità di estendere in sede civile tutti gli effetti della prescrizione raggiunta in sede penale: paradossalmente oggi non è così e su questo il Tribunale di Lecce ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale. Siamo in attesa di questa importante decisione della Corte;
– Modificare la natura del reato, da doloso a colposo;
– O, meglio, eliminare il reato d’opinione perché in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione, l’articolo 10 della Carta europea dei diritti dell’uomo e con l’articolo 19 della dichiarazione universale dei diritti umani.
I fatti
La Corte Costituzionale aveva dato tempo un anno perché il Parlamento adeguasse le norme italiane, che prevedono il carcere per i giornalisti, perché violano la convenzione europea dei diritti dell’uomo, in particolare l’articolo 10 relativo alla libertà di espressione. Ma un anno è passato invano.
Il 22 giugno 2020 la corte Costituzionale (all’epoca presieduta dall’attuale ministra della Giustizia Marta Cartabia) era intervenuta su un caso di diffamazione sollevato d’ufficio dal Tribunale di Bari e Salerno, emanando un’ Ordinanza che analizzava nel dettaglio la incostituzionalità di alcune norme che prevedono il carcere per i giornalisti (art. 13 legge 8 febbraio 1948, n. 47, in combinato disposto con l’art. 595, comma terzo, codice penale).
L’Italia è stata più volte condannata dalla CEDU, la Corte europea per i diritti dell’uomo, in particolare per il caso Belpietro e il caso Sallusti, per violazione della legge sulla stampa, ma sono passati diversi anni e nulla è stato fatto.
Nonostante l’Ordinanza della Corte Costituzionale, il Parlamento è stato inerte. Le norme non sono state modificate e la Corte è intervenuta, ma rimanendo a metà del guado.
C’è un disegno di legge, definita Primo De Nicola dal nome di chi l’ha proposta, che prevede anche delle norme per arginare il fenomeno delle querele temerarie, ma è impaludata.
Paradossalmente, al tempo dell’infodemia, del proliferare incontrollato di informazioni che dicono tutto e il contrario di tutto, tutelare la libertà di stampa e d’espressione, dunque uno dei pilastri della democrazia, non interessa ai nostri governanti.
La Corte quindi con la sentenza che abolisce l’articolo 13 della legge sulla stampa ha sopperito all’inerzia del Parlamento.
Perché in Italia, al 41esimo posto nella classifica mondiale sulla libertà di stampa di Reporters senza frontiere, il Parlamento non voglia modificare le norme sulla diffamazione a mezzo stampa, è difficile da immaginare.
O forse no.
Una stampa sotto scacco fa comodo al potere.
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