Il problema della giustizia non si risolve modificando le regole del processo
Sommario: 1.Premessa: il problema della giustizia non si risolve modificando le regole del processo – 2. I vincoli che la Costituzione pone al legislatore ordinario – 3. L’organizzazione non efficiente – 4. L’aggiramento dei limiti e divieti costituzionali – 5. Verso forme di giustizia deformalizzate (a proposito del d.d.l. in discussione) – 6. Qualche (non lieta) conclusione.
1. Premessa: il problema della giustizia non si risolve modificando le regole del processo
Ho svolto il mio insegnamento del diritto processuale civile nella convinzione che mi competesse di sistemare le norme di legge, di assemblarle in ragionevoli combinati disposti (come amava dire uno dei miei maestri, Virgilio Andrioli), di indicare i problemi e le soluzioni applicative possibili, di condire il tutto, seguendo l’insegnamento dell’altro mio maestro, Corrado Vocino, con un sano relativismo, alimentando negli allievi la civiltà del dubbio anche nei confronti delle idee che professavo. Da qualche tempo sono assalito dal timore di essere stato un cattivo maestro.
Ho, infatti, sotto gli occhi una casa che brucia: quella della giustizia. E non posso non pensare che una parte di responsabilità spetti a chi, come me, si è per tanti anni baloccato nell’illusione che, costruendo modellini processuali, si potesse migliorare il nostro sistema. Una fatica inutile e, forse, addirittura controproducente. Da più di venti anni Governo e Parlamento ci inondano di provvedimenti “a costo zero” per rendere migliore e più efficiente il sistema. Il solo fatto che ancora oggi l’uno e l’altro debbano ricorrere ad un ulteriore (ma non ultimo) provvedimento di riforma è la prova di assoluta evidenza che quanto è stato fatto in precedenza non è servito a niente.
È questa la ragione per la quale, consapevole che il persistere nell’errore è diabolico, da qualche tempo ho preso a considerare questi conati riformatori non sotto l’aspetto tecnico, ma cercando di individuare quale sia la filosofia che ne è alla base. E credo di aver capito che alla base vi è qualcosa di simile a una irrimediabile schizofrenia.
La dissociazione porta, infatti, Governo e Parlamento a ritenere che la via per rendere efficiente il sistema di giustizia civile sia quello di sottoporlo ad un’operazione di maltusiana riduzione, incentivando gli accordi fuori dal processo e rendendo quest’ultimo un percorso costosissimo e irto di ostacoli, là dove Governo e Parlamento alzano di mani di fronte alla inevitabile dilatazione del processo penale favorita dall’obbligatorietà dell’azione, così come previsto in Costituzione.
Farei offesa al relativismo al quale mi sono ispirato per tutta una vita se ponessi la distinzione, che potrebbe essere ridotta alla contrapposizione tra privato e pubblico, in termini assoluti. Per chi la pensa come me il problema sta nel trovare il giusto punto di equilibrio. Ma per farlo è necessario abbandonare qualsiasi ipocrisia e mettere sul tappeto i problemi che, nel nostro settore, nascono anche e, forse, soprattutto dalla rigidità dei precetti costituzionali.
Il legislatore ordinario, infatti: 1) non può istituire giudici speciali; 2) non può limitare l’esercizio del diritto d’azione dinanzi agli organi di giustizia; 3) deve garantire la possibilità di ricorrere alla Corte di cassazione contro i provvedimenti decisori e quelli sulla libertà personale; 4) deve rispettare il principio che l’azione penale è obbligatoria; 5) nel predisporre le norme sull’ordinamento giudiziario non può dettare un’organizzazione di tipo aziendale, fondata sulle competenze e sulla gerarchia; 6) deve accettare l’assimilazione dei pubblici ministeri ai giudici.
A mio avviso se non si comincia a fare una discussione franca e scevra da ipocrisie di circostanza su questi limiti e vincoli non saremo in grado di affrontare seriamente i problemi della nostra giustizia o, peggio ancora, poiché all’UE non interessa la qualità della giustizia, ma soltanto l’efficienza traducibile in termini economici, ci dovremo abituare a una giustizia sempre meno soddisfacente, cui sta di fronte la rassegnazione, che è come fuoco che cova sotto la cenere. L’ultimo libro che ho scritto (Giustizia, politica, democrazia, Rubbettino, 2021) costituisce il lascito di un penitente, che mette da parte le questioni di tecnica processuale, avendo capito che il cuore dei problemi è altrove.
2. I vincoli che la Costituzione pone al legislatore ordinario
La discussione franca comporta di chiarire quali sono le conseguenze dei vincoli e dei limiti posti dalla Costituzione.
a) Il legislatore non può isolare settori di controversie da affidare, per ragioni di materia, a giudici speciali e da risolvere con procedure semplificate. È un prezzo che paghiamo, essendo costretti a concentrare l’amministrazione della giustizia sui giudici statali ordinari. È un prezzo ragionevole? La nostra Costituzione ha posto il divieto di giudici speciali, sotto la cui mannaia sono caduti gli arbitrati obbligatori e che, alle origini, portò perfino a dubitare della possibilità di ammettere nel nostro ordinamento l’arbitrato “ad hoc”. Il divieto fu posto nel Quarantotto perché i Costituenti avevano fresco il ricordo che il Fascismo aveva fatto ricorso a Tribunali speciali per applicare leggi nefande e, quindi, si volle evitare che esperienze del genere avessero a ripetersi. A distanza di settant’anni possiamo porci due domande. La prima: il ricorso a giudici speciali può essere strumentale nei regimi autoritari; non dovrebbe esserlo nei regimi di sana democrazia, nei quali dovrebbe essere sufficiente la garanzia del giudice naturale e, di conseguenza, il solo divieto di giudici straordinari, ossia costituiti “ad hoc”. La seconda: se si volesse per prudenza mantenere il divieto, sarebbe sufficiente conservarlo per la sola giustizia penale o per la giustizia in senso lato civile riguardante situazioni giuridiche indisponibili. Oggi, non essendo ciò possibile, siamo costretti ad affidarci alla mediazione o alla negoziazione assistita, ossia a una sorta di “fai da te”.
b) Il legislatore non può limitare il diritto dei cittadini di portare in giudizio le loro pretese. Anche questo fu un divieto che i Costituenti introdussero, avendo il ricordo delle leggi razziali che avevano posto limiti agli ebrei al loro diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti. Il divieto ha una sua validità assoluta e, quindi, non è da mettere in discussione. L’art. 24 Cost., tuttavia, collega il diritto d’azione alla tutela “dei propri diritti e interessi legittimi”. Come si stabilisce che il cittadino ha un diritto o un interesse legittimo per il quale chiede tutela dinanzi al giudice? Nel nostro, ma non soltanto nel nostro sistema non esiste un catalogo degli uni o degli altri. È verosimile che i Costituenti abbiano operato nella convinzione che alla base del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo vi è un substrato naturale, ossia un interesse, un bisogno, una pretesa, ai quali l’ordinamento ha dato previo riconoscimento. Questa conclusione trova conforto nella posizione assolutamente contraria dei Costituenti nei confronti del diritto libero e in una loro implicita adesione ad un sistema basato sul primato della legge, tale che ai giudici spetti soltanto di dichiarare situazioni cui la legge ha già riconosciuta protezione, mai di creare, essi, la protezione; di parlare il linguaggio dell’accertamento, fondato sulla sussunzione del fatto alla norma (come si legge nell’art. 2909 c.c.) e soltanto eccezionalmente di esprimersi con provvedimenti costitutivi, con i quali il giudice ha poteri creativi (come si legge nell’art. 2908 c.c.). Nell’evoluzione di questi Settant’anni le cose sono andate in ben diversa direzione. La giurisprudenza, applicando direttamente le norme della Costituzione, che sono norme che esprimono valori e che non sono legate alla fattispecie, e dovendo anche adeguarsi alle pronunce del giudice europeo, sempre più spesso non applica la legge, ma crea il diritto omogeneo ai valori che sono a base della Carta fondamentale (quali l’eguaglianza sostanziale, la solidarietà, lo sviluppo della personalità ecc.) e della Carta dei diritti dell’uomo. Tutto ciò era ed è inevitabile, ma non può non avere come effetto una dilatazione del contenzioso, perché non c’è modo di porre un freno preventivo alla possibilità di portare dinanzi al giudice l’interesse, il bisogno o la pretesa che il singolo ritiene non soddisfatti o non sufficientemente tutelati. Il legislatore ordinario, pertanto, escogita espedienti di contenimento, che inevitabilmente incidono sul processo, che diventa un luogo in cui le garanzie si vanno lentamente prosciugando. E poiché il meglio è nemico del bene, la consapevolezza di questa evoluzione dovrebbe indurci a chiederci se il monopolio della giurisdizione affidata ai soli giudici statali costituisca un presupposto indeclinabile.
c) A proposito di garanzie, scontiamo anche la previsione della ineludibile garanzia del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti decisori. Anche questa è una previsione che ha condotto ad una dilatazione dei ricorsi dinanzi la Corte di cassazione, che ha un carico di contenzioso che è superiore a quello dei giudici cd. supremi degli altri Paesi. Anche in questo caso, essendo impossibile introdurre efficaci filtri preventivi, si incide sulle garanzie del processo. La Corte di cassazione, anche se a giorni alterni, non è giudice che assicura giustizia, ma è giudice che detta le regole e che, spesso, le crea. Si è parlato di un vertice ambiguo. Siamo piuttosto di fronte ad un ibrido sul quale sarebbe necessario fare chiarezza.
d) Il giudice dei valori aspira inevitabilmente e quasi inconsapevolmente a porsi come giudice dell’etica dei comportamenti. A questo giudice la nostra Costituzione ha affidato il compito di controllare il corretto esercizio dell’azione penale che si vuole obbligatoria. Anche questa è la ragione della dilatazione del contenzioso penale, i cui costi in termini di amministrazione della giustizia sono altissimi. La dilatazione è inevitabile perché i pubblici ministeri, che sono responsabili per l’esercizio dell’azione penale e che hanno alle loro dirette dipendenze la polizia giudiziaria (così essendo stato inteso l’art. 109 Cost.), sempre più spesso non conducono indagini su reati, ma dirigono inchieste alla scoperta di reati, essendo divenuti responsabili non solo per la repressione dei reati, ma anche per la loro prevenzione; e ciò con un’attività che non può essere doverosa e obbligata, in quanto alla base vi sono inevitabili scelte discrezionali. Ne consegue un numero di casi assai alto in cui il processo penale si traduce, per l’una o per l’altra ragione, in un nulla di fatto e vivendo nell’incubo per il quale tutto va tradotto in termini di economia, si impone oggi una riflessione sul rapporto tra prezzo e risultati. Quale che sia la conclusione, un dato è certo: se si potessero dirottare sulla giustizia civile risorse almeno pari a quelle assorbite oggi dalla giustizia penale, di sicuro i problemi della prima sarebbero assai meno rilevanti.
3. L’organizzazione non efficiente
Ai limiti e vincoli imposti dalla Costituzione al legislatore ordinario nella formulazione delle norme processuali si aggiungono limiti e vincoli riguardanti l’organizzazione dei servizi. Un qualsiasi aziendalista sa che l’efficienza organizzativa poggia sull’individuazione di soggetti capaci di escogitare modelli efficienti e di guidarli, essendo dotato dei necessari poteri direttivi; e sulla possibilità di selezionare soggetti cui affidare i compiti sulla base della loro idoneità specifica; di incentivare un sano antagonismo premiando i più meritevoli; di evitare forme organizzative eccessivamente rigide, lasciando ampi margini alla adattabilità in relazione alle esigenze concrete. L’organizzazione aziendale presuppone, perciò, che colui che è preposto a funzioni dirigenziali abbia poteri cui corrispondono situazioni di soggezione dei sottoposti e che l’esercizio di tali poteri abbia come contraltare una doverosa responsabilità. È il modello burocratico quale ci è stato tramandato soprattutto a partire da Weber.
Questo modello non è praticabile per la giustizia. Il superamento della prova concorsuale, che è la chiave di accesso alla funzione di magistrato, funge da livellatore delle persone. Il magistrato, secondo la Costituzione, è soggetto soltanto alla legge ed è autonomo e indipendente non solo nel rapporto con gli altri poteri dello Stato, ma anche all’interno del corpo dei magistrati. Ciò rende impossibile un’organizzazione fondata sul potere direttivo dei capi degli uffici. A questi ultimi viene affidata una funzione di mero coordinamento (cui si affiancano mansioni strettamente amministrative per le quali hanno poca o scarsa competenza) che nei fatti si svolge con forme di coinvolgimento complesse, spesso estenuanti, e che deve fare esclusivo affidamento sul senso di responsabilità dei collaboratori (non sempre presente e non sempre eguale), in quanto il potere direttivo è rigidamente regolamentato ed è sindacabile, così che ogni direttiva può scontrarsi con posizioni giustiziabili del destinatario. Il diritto tabellare costituisce l’approdo finale ed inevitabile del sistema quale si è cristallizzato negli anni.
Potremmo discutere sulle intenzioni dei Costituenti e chiederci se essi, quando garantirono l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati, pensarono a una garanzia riguardante il potere giudiziario nel suo complesso e verso l’esterno ovvero se vollero che questa garanzia avesse come destinatario anche il singolo magistrato e all’interno della stessa magistratura. Sarebbe, tuttavia, una discussione sterile, perché ormai questa seconda chiave di lettura è diventata diritto vivente.
Nel darne e nel prenderne atto, però, dovremmo anche comprendere che gli scandali che di recente hanno investito la magistratura poco hanno a che vedere con l’efficienza e la qualità della giustizia. Le quali, nella situazione data, poco o nulla cambiano se a capo di un ufficio o di una sezione del medesimo vi sia un magistrato piuttosto che un altro. I magistrati – essi ce lo ricordano di continuo (salvo dimenticarlo quando partecipano a una qualsiasi selezione) – sono tra loro fungibili e si differenziano non per l’idoneità maggiore o minore all’esercizio di talune determinate funzioni, ma soltanto per il fatto di esercitarle concretamente (secondo la lettura accolta dell’art. 107, co. 3° Cost.).
Eppure oggi il problema delle nomine è al centro delle discussioni sulla giustizia. La ragione è semplice: la pietra dello scandalo è data dalle Procure, così che il problema delle nomine è soprattutto il problema delle nomine nelle Procure. La spiegazione è semplice almeno quanto è evidente: le Procure hanno il potere di indagine, il quale non può non essere discrezionale e oggi, per l’ausilio dei moderni mezzi di captazione delle nostre vite private, è assai invasivo. Il suo esercizio mette a rischio l’equilibrio del nostro sistema e incide in qualche modo sulla nostra democrazia. Nelle Procure e presso i loro collaboratori vi sono infiniti serbatoi di notizie riguardanti le nostre vite private e del tutto irrilevanti per il processo penale. C’è l’immanente pericolo che il vaso di Pandora sia in qualche modo scoperchiato, creando effetti che mettono in pericolo le istituzioni.
Credo che il recente intervento del Presidente della Repubblica sia stato in qualche misura provocato dalle attuali vicende. Egli ha ammonito: “Guai se la magistratura perde credibilità”. La Sua preoccupazione è la magistratura, non il processo. Ma parlare di magistratura significa parlare di ordinamento giudiziario, un capitolo del quale concerne le nomine. A questo riguardo, è per me doveroso squarciare il velo dell’ipocrisia di regime che ci affligge: in un sistema che per definizione è basato sulla fungibilità delle persone (perché per i cittadini che chiedono giustizia vale la regola che l’un giudice vale l’altro, così che non è possibile pretendere che abbia attitudini specifiche), le scelte non possono che avvenire sulla base di criteri soggettivi, cui si dà, con enfatiche circolari del CSM, una parvenza di oggettività (che si trasforma in discutibile criterio di giudizio del giudice amministrativo, cui il magistrato pretermesso ricorre non perché sia più bravo o più idoneo, ma perché sono stati violati i criteri che lo stesso CSM si è dato). Si parla di scandalo delle lottizzazioni su basi correntizie e volutamente si mette la sordina alle cause dell’attuale situazione, che vanno ravvisate nella mancanza di oggettivi e attendibili criteri, così che l’unica alternativa resta l’anzianità o il sorteggio. E se ne parla soltanto perché nelle Procure è oramai concentrato un potere enorme, che il potere politico vorrebbe in qualche modo controllare quando è esercitato ai suoi danni (ma non quando colpisce l’avversario).
Sarebbe necessario un ripensamento sull’ordinamento giudiziario, curando di distinguere ciò che è funzionale per garantire l’indipendenza del giudice e le “garanzie” del pubblico ministero e ciò che si è tradotto in privilegio. Ho, tuttavia, il timore che fino a quando si ritiene che ciò è di competenza esclusiva dei magistrati (che, con l’avallo del CSM, predispongono i provvedimenti legislativi tramite il Ministero, di cui occupano le posizioni di vertice) un ripensamento in questa direzione non sia possibile. Qualcosa, tuttavia, si potrebbe pretendere e fare per rispettare l’art. 107, ult. co. Cost., che vuole che lo “status” del p.m. non sia identico a quello del giudice. Non credo che ci sia la volontà e la forza necessaria per farlo.
Finiamo, così, con lo scaricare il peso delle riforme sul processo.
4 . L’aggiramento dei limiti e divieti costituzionali
La difficoltà in cui si imbatte il legislatore ordinario – che, oggi, deve rispondere all’Europa, che, per darci danaro, pretende anche il nostro impegno concreto a risolvere anche i problemi del sistema di giustizia – sono evidenti, anche perché siamo costretti ad operare con la clausola dell’invarianza finanziaria (ossia con riforme a costo zero), come è anche per il disegno di legge di recente riproposto e di cui ci occuperemo in seguito.
La tattica cui fa ricorso il nostro legislatore è quella dell’aggiramento dei precetti costituzionali. Se il primo comma dell’art. 106 Cost. prescrive che le nomine dei magistrati abbiano luogo per concorso, si dilata la portata precettiva del secondo comma, che apre la strada alla possibilità di nominare giudici onorari per tutte le funzioni attribuite ai giudici singoli, da un lato riducendo la collegialità ad una minima area residuale (il che era ben lontano da ciò che i Costituenti avevano sotto i loro occhi e, nel passato, mi indusse a pensare che sottostante alla norma vi fosse un nucleo non minimo di riserva di collegialità) e, dall’altro lato, incrementando il numero dei giudici onorari in misura tale da tradire il precetto costituzionale, che di sicuro aveva in mente una possibilità di ridotta utilizzazione di un giudice scelto senza le garanzie del pubblico concorso (presupposto indispensabile perché si abbia un giudice “ordinario”).
Non basta. Oggi si pensa a forme surrettizie di implementazione. Il disegno di legge AS 1662 comunicato alla Presidenza del Senato il 9 gennaio 2020 e di recente emendato dal nuovo Governo contiene un art. 12 bis di nuova formulazione che fa molto affidamento sul cd. ufficio per il processo, al quale sono attribuiti compiti di supporto, che si estendono alla predisposizione di bozze di provvedimenti e alla cooperazione per incrementare la capacità produttiva dell’ufficio, per abbattere l’arretrato e per prevenirne la formazione. Senza opporre un aprioristico fine di non ricevere a tali innovazioni, non si può non sottolineare il divario tra la preoccupazione dei Costituenti di garantire un’adeguata e oggettiva selezione dei magistrati tramite il concorso pubblico e i sistemi di reclutamento, alquanto opachi, del personale di questo ufficio (per non parlare delle mansioni che possono facilmente tracimare).
Con la stessa tattica dell’aggiramento, si garantisce il diritto di azione da esercitare nel processo ordinario, ma se ne rende sempre più costoso e ricco di insidie l’esercizio, là dove si spinge la parte a cercare la lite fuori dal processo: a) incentivando con benefici fiscali (art. 1, comma 1, lett. a) la mediazione, la cui obbligatorietà viene ulteriormente estesa (dall’art. 1, comma 1, lett. c); e b) dilatando la negoziazione assistita, nel cui ambito i difensori possono compiere anche un’attività istruttoria stragiudiziale, perfino (e, a mio avviso, pericolosamente) utilizzabile nel processo in caso di insuccesso della negoziazione (art. 1, comma 3). Si pongono le premesse per discutere nel processo degli abusi nell’attività di acquisizione delle prove con l’inevitabile responsabilità disciplinare (ma non solo) del difensore, come previsto dall’art. 1, comma 5.
5 .Verso forme di giustizia deformalizzate (a proposito del d.d.l. in discussione)
Siamo, insomma, costretti a credere che i problemi della giustizia civile si possano risolvere riducendo la durata dei processi a tempi ragionevoli e che ciò si possa fare attraverso le norme processuali. È sbagliato, in quanto è evidente che la lunghezza dei nostri processi è determinata soprattutto dai tempi morti, che non dipendono dalle norme processuali. Stiamo pagando l’errore, perché da circa un ventennio facciamo riforme che hanno inciso sulle garanzie, senza conseguire alcun beneficio. Ed è paradossale che ciò sia avvenuto soprattutto dopo che è stata approvata la riforma dell’art. 111 Cost. secondo cui “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”.
Fermo che un processo per definizione deve essere “giusto”, altrimenti non è processo, la formula inserita nell’art. 111 Cost. ha dato luogo a diverse letture: è giusto il processo che si svolge nel rispetto delle regole fissate dal legislatore; è giusto il processo che perviene alla decisione giusta. La prima lettura mi sembra tautologica e mi sembra ancorata ad epoche storiche in cui si potevano celebrare processi non regolati per legge; la seconda è per me pericolosa, nella misura in cui rende finalistica l’azione del giudice, che dovrebbe essere neutrale e asettica. Ne preferisco una terza: è giusto il processo che si svolge nel rispetto di regole giuste.
Se si condivide questa interpretazione e se è possibile scrutinare se le regole processuali sono “giuste”, è necessaria una premessa. Le regole processuali hanno per oggetto le forme e i tempi degli atti e individuano gli oneri, le facoltà e i poteri dei soggetti processuali. Esse non riguardano soltanto le parti e i soggetti che a vario titolo partecipano al processo e, quindi, devono essere funzionali per non scadere in pernicioso formalismo (secondo l’ammonimento di Satta), ma toccano anche il giudice, in quanto stabiliscono i limiti all’esercizio del suo potere, dovendo fungere da insopprimibile garanzia (come più di mezzo secolo fa evidenziò Calamandrei). Per esemplificare, l’art. 324 c.p.c. non è norma indirizzata esclusivamente alle parti, le quali, non impugnando il provvedimento nei tempi fissati ne determinano il passaggio in giudicato, ma è norma che riguarda anche il giudice, il quale non può intervenire sulla vicenda una volta che sia decorso il termine e la parte non abbia impugnato il provvedimento.
Quando si abbia presente questa caratteristica delle norme processuali, appare evidente che si dovrebbero evitare norme di contenuto didascalico. Di conseguenza, prescrivere non forme degli atti, ma modi (per cui i fatti devono essere esposti in “modo chiaro e specifico”: così si legge nell’art. 3, comma 1, lett. b) in relazione all’atto introduttivo in primo grado; nel comma e-ter) per la comparsa di risposta; nell’art. 6, comma 1, lett. a) per l’atto d’appello e, in maniera non dissimile, nell’art. 6-bis, comma 1, lett. a) per il ricorso in cassazione) non solo è inutile, ma è controproducente. Si incentivano discussioni inutili sulla “conformazione” dell’atto di parte, complicando il processo e appesantendolo di inutili questioni (oggi ne abbiamo esempi quotidiani in relazione alla redazione dell’atto di appello o per effetto della giurisprudenza della S.C. che ha elaborato un principio di completezza del ricorso, che ha come conseguenza un suo inevitabile appesantimento là dove se ne vorrebbe imporre addirittura la dimensione). Sono discussioni che mi fanno rimpiangere i tempi in cui era sufficiente rifarsi all’aureo art. 156 c.p.c., che era l’irrinunciabile bussola per il giudice che voleva governare bene il processo. Con queste riforme i confini che delimitano il potere del giudice diventano mobili, giacché gli si affida il compito di stabilire ciò che nell’atto confezionato dalla parte non è espresso in forma sufficientemente chiara, puntuale e completa con una valutazione che non può non essere soggettiva.
Si dovrebbero anche evitare disposizioni irragionevolmente impositive. L’art. 3, comma 1, lett c) del disegno in esame vuole che nell’atto di citazione sia contenuta l’indicazione specifica dei mezzi di prova “a pena di decadenza” e analoga imposizione è stabilita per la comparsa di risposta dalla lett. e-quater), anche se non si può escludere il diritto di “entrambe le parti ad articolare i necessari e conseguenti mezzi istruttori” per effetto delle domande, eccezioni e difese successive (lett. e-quinquies). Non ho mai amato un processo materiato di preclusioni e di decadenze, che lo allontanano dal suo obiettivo, che dovrebbe essere quello della decisione più giusta possibile. Non ho mai amato l’esasperazione del principio di autoresponsabilità a senso unico, che incrementa il divario tra parte e giudice, al quale le norme che impongono forme e, soprattutto, termini (ce ne sono a iosa anche nel disegno di legge oggi ripresentato) sono sostanzialmente e necessariamente prive di sanzioni nell’ambito del processo (infatti, poiché non è possibile la sanzione della nullità degli atti o del procedimento, che aggiungerebbe al danno della parte incolpevole una beffa, la violazione potrebbe soltanto costituire base per valutazioni sulla professionalità del giudice o per sue responsabilità disciplinari). In disparte tali considerazioni, che riguardano mie opzioni personali, è da chiedersi se le ricordate disposizioni siano funzionali a una giustizia più rapida ed efficiente. C’è da dubitarne, perché da un lato si introduce qualcosa di simile al principio di eventualità, contro cui a cavallo degli anni Trenta e Quaranta scrisse pagine ancora attuali Antonio Segni, costringendo i difensori ad immaginare il tutto e il di più e appesantendo inutilmente gli atti processuali; e, dall’altro lato, si apre la strada su ciò che la parte doveva antivedere (e non ha visto, così aprendo la strada a dispute tra cliente e difensore su chi ne abbia responsabilità) e ciò che è conseguenza delle posizioni dell’avversario, così rendendo inutilmente complicato il processo.
Si dovrebbe, infine, stabilire se obiettivo del processo è la corretta soluzione della controversia (come leggiamo nelle sentenze dei nostri supremi giudici) o una rapida ed efficace composizione della lite (anche se le parti sono costretti a subirla).
Per tutte le ragioni che ho esposto il legislatore è di fronte a una scelta obbligata. Oramai il processo è diventato in prevalenza uno strumento di composizione delle liti, che le parti sono obbligate ad accettare più per necessità che per intima convinzione. Questo è il senso di molte disposizioni del disegno di legge che sto esaminando.
Esemplifico. L’art. 3, comma 1, lett. c-bis) prevede che la contumacia ritualmente verificata determini “la non contestazione dei fatti a fondamento della domanda, ove la stessa verta in materia di diritti indisponibili”. In questo modo sulla parte convenuta è posto un onere di costituzione, se vuole evitare la “ficta confessio”, che si verifica per il solo fatto della mancata costituzione a seguito di regolare notificazione dell’atto introduttivo e senza alcun riguardo alle ragioni che possano avere eventualmente impedito una tempestiva costituzione.
Il procedimento semplificato di cognizione, che è inserito nel II libro del c.p.c., diventa il rito normale ed è un procedimento la cui semplificazione riguarda soprattutto l’attività istruttoria. Non si cerca più la verità, essendo sufficiente la probabilità come, del resto, ha anticipato la Corte di cassazione sia pure enunciando come criterio residuale quello del “più probabile che non”.
Nel corso del giudizio di primo grado e per le controversie relative a diritti disponibili il giudice può, infine, pronunciare ordinanza provvisoria di accoglimento “quando i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate” o ordinanza di rigetto nel caso contrario o nel caso di assoluta incertezza sull’oggetto della domanda o di mancata esposizione dei fatti su cui essa dovrebbe essere fondata; ordinanza reclamabile e che non acquista efficacia di giudicato. La disposizione, che immagina un giudice che “alla prima letta” abbia attentamente studiato gli atti introduttivi, è in linea con la tendenza alla sommarizzazione. Qualcosa del genere già esiste, così che, quanto al procedimento, sarebbe stato sufficiente mutuare le disposizioni sulla sentenza breve introdotte nel codice del processo amministrativo. Si eviterebbero la contradizione di una definizione nel merito della controversia con un provvedimento non suscettibile di giudicato e l’inutile complicazione che può seguire all’accoglimento del reclamo.
Sono questioni tecniche che, tuttavia, non mi appassionano. Ne ho estratto alcune (ma ce ne sono altre) per evidenziare che il nostro legislatore è costretto a tradire il precetto costituzionale, perché il processo che sta costruendo è sempre meno giusto sotto tutti gli aspetti.
6. Qualche (non lieta) conclusione
Vi è, infine, un’altra idea largamente condivisa: che vi sia da combattere una litigiosità eccessiva, alimentata da un’avvocatura troppo numerosa. Condivido parzialmente la diagnosi, ma non i rimedi. Non si può contrastare l’abuso del processo con provvedimenti che per punire la mancanza di meritevolezza della parte non perseguono la giusta definizione della lite. Bisogna sapere distinguere l’esito della vicenda processuale dalla giusta sanzione per il comportamento immeritevole. E ciò andrebbe fatto non solo per il processo civile, ma anche per il processo penale, in tutti i casi in cui l’azione penale viene esercitata senza il necessario equilibrio e senza l’egualmente necessaria prudenza. Sono convinto, infatti, che le soluzioni praticate per i giudici in ordine alla responsabilità civile e disciplinare non possono essere automaticamente e completamente estese ai pubblici ministeri.
Soprattutto di ciò ho scritto nel mio ultimo libro, preoccupato, come sono, per un’evoluzione che ha ricadute sull’economia del Paese e sui nostri comportamenti collettivi e individuali, alimentando una sterile burocrazia, cui è impossibile porre rimedio, deprimendo il coraggio dell’osare e incentivando la fuga dalla responsabilità; in una parola, condannandoci alla mediocrità. Ma soprattutto essa incide pesantemente sui nostri diritti di libertà, che la Costituzione vorrebbe inviolabili. Il problema dell’efficienza, ridotto a un problema di tempi processuali ragionevoli, è soltanto un aspetto della questione-giustizia nel nostro Paese. Non ho scritto per l’accademia e non a caso ho scelto un editore generalista. Volevo e speravo che i temi posti sul tappeto non fossero oggetto di discussione nel chiuso recinto delle aule universitarie, ma in qualche modo coinvolgessero quanti hanno a cuore non solo la giustizia, ma anche la democrazia. Pensavo soprattutto ai giovani, perché il problema riguarda soprattutto il loro futuro. Ho, tuttavia, l’impressione che per il combinarsi delle convenienze di tutti (politici, magistrati, avvocati, mezzi di informazione e persino cittadini, che se ne preoccupano soltanto quando si imbattono in processi a loro carico) non ci sia la necessaria volontà di aprire un serio dibattito.
Se mi perdonate una piccola presunzione, ho tentato di accendere una fiammella, che è assai tenue. Sta soprattutto a voi giovani di fare in modo che non si spenga.
* Magistrato per 12 anni, poi avvocato e professore universitario di diritto processuale civile, ha insegnato nelle Università di Camerino, Salerno, Napoli-Federico II, Roma-Sapienza e LUISS, che lo ha insignito del titolo di Emerito. È stato dal 1998 vice-presidente del CSM. È tra i massimi esperti del processo civile. L’ultimo libro pubblicato è Giustizia, politica, democrazia, Rubbettino, 2021.
Fonte: Giustizia Insieme
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