Ergastolo ostativo. La strada impervia di una buona soluzione
Il mio punto di vista sul tema “mafia ed ergastolo ostativo” è di quelli che rischiano di attirare le accuse puntute di qualche zelante garantista sempre pronto a mettere in riga chi non la pensa come lui.
Ecco dunque una premessa.
Prima c’era la legge del taglione, restituire al male ricevuto altrettanto male. Ora l’art. 27 Costituzione ci chiede, con la rieducazione del condannato, di andare oltre il male.
Attenzione: questo non significa affatto sminuire il male. Il male resta male, quindi nessun buonismo, perdonismo, giustificazionismo. Sarebbe vanificare la giustizia.
Il senso di una giustizia giusta, attenta anche alle esigenze della persona coinvolta in problemi di giustizia, è di evitare che ci si accanisca sul colpevole fino a schiacciarlo e impedirgli di cambiare.
Se la pena scivola nelle spirali tortuose della persecuzione vendicativa finisce per essere inefficace, sia per chi subisce il castigo sia per chi da quel torto o sbaglio è stato ferito.
Il colpevole deve essere punito secondo le leggi, ma se non capisce (anche con le modalità di esecuzione della sanzione) il perché del suo errore, la punizione finisce per servire a poco. Perché incattivisce chi la subisce, confermandolo in una scuola di violenza che inevitabilmente genera altra violenza, nuovi errori e nuova insicurezza per la società civile.
Sono principi sacrosanti di civiltà (non solo giuridica), basilari in un regime democratico. Ma che in concreto possono funzionare solo per i condannati che danno prove concrete, riconoscibili e sicure di volersi reinserire o almeno fanno sperare che prima o poi ci proveranno davvero. Non è questo il caso dei mafiosi “irriducibili” che non si sono pentiti. Quelli cioè che hanno rifiutato e rifiutano ogni forma di ravvedimento operoso attraverso la collaborazione con la giustizia (comunemente detta “pentimento”) nel contrasto alla criminalità mafiosa.
L’ordinanza del 15 aprile 2021
Con un’ordinanza pronunziata il 15.4.2021 la Consulta ha “aperto” ai mafiosi non pentiti l’ergastolo ostativo per quanto riguarda il beneficio della liberazione condizionale. Ma gli effetti della pronunzia di incostituzionalità sono stati differiti affinché il Parlamento possa intervenire. Il termine fissato è di un anno, giusto il tempo per arrivare al maggio 2022, quando cadrà il 30° anniversario delle stragi di mafia del 1992.
Il differimento è stato motivato con il rischio “di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Equivale a riconoscere che bisogna fare molta attenzione a toccare una componente dell’architettura complessiva antimafia, se si vuole evitare che questa crolli tutt’intera. Perché – dice ancora la Consulta – la mafia ha una sua “specificità” rispetto alle altre condotte criminali associative; e la collaborazione di giustizia è un valore da preservare. Si tratta in sostanza di paletti (sia pure generici) per indirizzare il legislatore, che non potrà non tenerne conto ragionando appunto a partire dalla realtà specifica della mafia.
Secondo l’ordinanza l’ergastolo ostativo per i mafiosi non pentiti è incostituzionale per violazione di tre norme: gli artt. 3 e 27 Costituzione e l’art. 3 Convenzione Europea Diritti dell’Uomo. Su quest’ultimo punto si potrebbe osservare che la realtà della condizione carceraria dei mafiosi é ben lontana dalla tortura, come dal trattamento inumano e degradante.
Uno spaccato della situazione si trova nel volume “Lo stato illegale” (Caselli, Lo Forte – Laterza ed.), dove risulta fra l’altro che ai carcerati spetta un “mensile” per le spese correnti; e che un boss può arrivare a spendere “venti milioni al mese di avvocato, vestiti, ‘libretta’ e colloqui”. Proprio una vita grama non è. Certo si tratta di uno spaccato che non fotografa la condizione carceraria dei mafiosi in tutta la sua complessità, ma è quanto basta per dubitare fortemente che si possano utilizzare le categorie della tortura o dei trattamenti vietati dalla Cedu.
Quanto alla violazione dei principi sanciti nella nostra Carta, si sostiene che la Costituzione o è uguale per tutti (mafiosi compresi) o non è. Argomento suggestivo. Però attenzione. La Costituzione (art. 49) stabilisce che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Ma a questo principio costituzionale è la stessa Carta (art. XII disposizioni transitorie e finali) che deroga, vietando “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.
Ora io non sono un costituzionalista e ho tutto da imparare da chi lo invece lo è, ma mi sembra di poter argomentare che la Costituzione vuole che ai nemici della democrazia sia dedicata un’attenzione particolare.
Qual è il rapporto dei mafiosi con la democrazia? Il mafioso è vissuto e vive per praticare un metodo di intimidazione, assoggettamento e omertà capace di dominare parti consistenti del territorio nazionale e momenti significativi della vita politico-economica del Paese. In questo modo il mafioso contribuisce in maniera concreta e decisiva a creare tutta una serie di ostacoli di ordine economico e sociale che limitano fortemente la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana. In altre parole, il mafioso è la negazione assoluta e al tempo stesso un nemico esiziale dell’articolo 3 su cui si fonda la Costituzione.
Allora, si può dire che con la pratica sistematica dell’intimidazione e dell’assoggettamento (art. 416 bis) i mafiosi si mettono sotto le scarpe tutti i valori della Costituzione e si pongono fuori della sua area? Si può dire che per rientrarvi devono offrire prove certe di ravvedimento? Si può dire che la Costituzione non è un bancomat?
La persistenza della pericolosità sociale
Ed è a questo punto che si pone la questione più delicata e controversa di tutte: la persistenza della pericolosità sociale del detenuto si può escludere soltanto in caso di pentimento oppure anche senza?
Il valore dell’art. 27 della Carta (le pene devono tendere alla rieducazione del condannato) è incontestabile. Ci mancherebbe. Ma quando si tratta di mafiosi irriducibili non pentiti (come già detto all’inizio di questo intervento) è legittimo porsi alcuni interrogativi. Il mafioso giura fedeltà perpetua all’organizzazione e il suo status di mafioso è per sempre. Lo dicono l’esperienza ed i più qualificati studi sulla mentalità mafiosa. Il mafioso non pentito continua a essere convinto di appartenere a una “razza” speciale, nella quale rientrano soltanto coloro che sono davvero uomini (non a caso autodefinitisi “d’onore”). Tutti gli altri, quelli del mondo esterno, non sono uomini. Sono individui da assoggettare. Non persone ma oggetti, esseri disumanizzati.
Tanto premesso, si può trarne la ragionevole conseguenza che i mafiosi per fruire dei benefici penitenziari devono offrire prove certe di rinunzia allo status di uomo d’onore? Che l’unica condotta univoca, l’unica dimostrazione affidabile di voler disertare davvero dall’organizzazione criminale, cessando di esserne strutturalmente parte, è il pentimento? Mentre tutte le altre, in quanto disancorate da possibilità concrete di verifica effettiva, sono ambigue? Comprese le varie relazioni (carcere, Cosp, procure antimafia) che di solito sono afflitte da un formalismo burocratico che le rende solo presuntive?
Senza pentimento la decisione diventa un azzardo, ci si consegna alle strategie del mafioso, tutto si riduce ad un atto di fede nei suoi confronti. Un pericoloso salto nel buio.
Evitare contraccolpi rovinosi
In altre parole, la mia opinione è che il “doppio binario” per i mafiosi non pentiti (fino all’ergastolo ostativo) può ritenersi rispondente a criteri di ragionevolezza basati sulla concreta specificità del problema mafia. Non si tratta di esser giustizialisti, manettari o forcaioli. E’ la realtà specifica della mafia (ripeto fino alla noia) che porta a concludere come essa escluda che il vincolo dell’associazione criminale possa cessare fuori dell’ipotesi di collaborazione.
Nel film “Il rapporto Pelican” un’impareggiabile Julia Roberts, nel ruolo di una studentessa di legge, al professore che le chiede perché la Corte suprema non abbia deciso una certa questione secondo la sua opinione, risponde “forse perché la Corte ha sbagliato…”. Non oso arrivare a tanto, va da sé. Posso soltanto prendere atto con rispetto, allo stato degli atti, delle motivazioni che hanno portato la Consulta a decidere in un certo senso.
Sinceramente mi auguro che il Parlamento (seguendo i “paletti” fissati dalla Consulta) riesca a trovare una qualche buona soluzione. La strada è impervia, e tuttavia c’è ancora margine perché alla fine si possano evitare contraccolpi troppo rovinosi per l’antimafia.
* Fonte: Rocca n°8 – 15 giugno 2021
Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi
Trackback dal tuo sito.