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Il caso Brusca e la legge sui pentiti

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Mafie, Memoria, Sicilia

Giovanni Brusca. Un boss che  quando è stato arrestato (1996), a Palermo davanti alla Questura, è stata festa di popolo: la gente schierata con gli “sbirri” contro gli uomini d’onore, mai visto prima niente di simile.

Perché Brusca, latitante imprendibile da anni, era di una famiglia con “lignaggio criminale” assoluto; perché era soprannominato “u verru” per la ferocia dimostrata scannando un’infinità di uomini; perché si sapeva che era stato lui a premere il pulsante dell’attentatuni di Capaci.

Una serie di orrende nefandezze criminali che spiegano perché la liberazione di Brusca, dopo 26 anni di carcere e a pena scontata per intero, abbia suscitato e susciti  tante polemiche. Riuscendo a dividere persino i familiari delle vittime, alcuni dei quali pur manifestando dolore e sconcerto, hanno osservato che purtroppo la legge è legge, mentre altri hanno parlato di vergogna e di tradimento intollerabili.

Io Brusca l’ho visto da vicino.

Infatti, come procuratore capo di Palermo ero nella sala operativa della Questura quando gli uomini della “catturandi” ebbero l’idea geniale della motocicletta “smarmittata” per localizzare con precisione il covo di Brusca (chi fosse interessato ai  particolari li trova tutti nel libro di Sabella – Resta “Cacciatore di mafiosi”, ed. Mondadori).

Ho partecipato ai primi interrogatori di Brusca quando manifestò l’intenzione di collaborare (per altro, all’inizio, in maniera ambigua e tortuosa, tanto che ci volle l’impegno congiunto  di tre procure –  Nazionale, Palermo e  Caltanissetta –  per riuscire a decifrare la sua posizione).

Sono stato il primo magistrato che ha potuto ricostruire l’esecuzione materiale della strage di Capaci raccogliendo la confessione di Santino di Matteo che vi aveva partecipato; confessione alla quale un mese dopo la mafia rispose facendo pagare a chi aveva rivelato il segreto dei segreti di Cosa nostra un prezzo doloroso e disumano, il sequestro del figlio tredicenne Giuseppe,  ucciso  dopo  una  prigionia di 779  terribili giorni, e infine  sciolto nell’acido.

Un omicidio che, oltre a sprofondare il genere umano negli abissi della crudeltà, ha dolorosamente segnato – per sempre – anche me e tutti coloro che professionalmente avevano avuto a che fare con Santino Di Matteo.

In sostanza, non posso certo dire che vedendolo da vicino Giovanni Brusca mi sia mai sembrato – come dire – un tipo da prenderci un caffè insieme. Ma ai ricordi e alla emozioni personali preferisco ora una riflessione sul fenomeno e sulla legge dei cosiddetti pentiti. Con una premessa e fissando poi alcuni punti.

La premessa – La pena che scivola nelle spirali tortuose della persecuzione vendicativa finisce per essere inefficace, sia per chi subisce il castigo sia per chi è stato ferito dal torto o sbaglio commesso.

Perché in questo modo la pena incattivisce chi la subisce, confermandolo in una scuola di violenza che inevitabilmente genera altra violenza, nuovi errori e (attenzione!) anche nuova insicurezza per la società civile. Di qui il precetto costituzionale che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Un principio di civiltà (non solo giuridica) basilare in un regime democratico. Che però in concreto può funzionare solo per i condannati che mostrano di volersi reinserire o almeno fanno sperare che prima o poi ci proveranno davvero.

L’esperienza e gli studi sull’ identità mafiosa dimostrano che non è assolutamente il caso dei mafiosi “irriducibili” che non si sono pentiti. I mafiosi infatti giurano fedeltà perpetua all’organizzazione; lo status di “uomo d’onore” è per sempre; la collaborazione con lo Stato è l’unico modo per “disertare”.

Tutto ciò rientra nel problema del cosiddetto ergastolo ostativo (che ha evidenti e dirette ripercussioni sull’istituto della collaborazione). Questioni gravi e divisive: ma in ogni caso da affrontare avendo ben presente la realtà concreta della mafia. Che ancora oggi domina parti consistenti del territorio e della vita politico-economica del Paese. Ed è quindi la negazione assoluta dei valori di libertà e uguaglianza che  della Costituzione sono la linfa.  Rimuoverle  è compito che l’art.  3 cpv affida ad ogni organo della Repubblica, nessuno escluso, con la conseguenza che la lotta alla mafia va considerata come un dovere di tutti, scolpito delle Carta fondamentale del nostro Stato.

Ed eccoci ai punti che conviene fissare sul tema specifico Brusca e pentimento.

Primo – In quanto  fondato su vincoli associativi segreti, il gruppo mafioso (soprattutto Cosa nostra) può essere paragonato ad una roccia, rispetto alla quale le indagini senza “pentiti” appaiono come un semplice scalpello. Lo scalpello riesce semmai a scheggiare la superfice esterna della roccia ma non a penetrarci dentro. Invece, le indagini collegate alle ricostruzioni fornite da un collaboratore di giustizia riescono a trasformare lo scalpello in una sorta di carica esplosiva. Una carica posta all’interno della roccia, che la spacca mettendone a nudo la parte più segreta. Insomma, l’efficacia delle indagini, grazie all’apporto dei collaboratori di giustizia, si moltiplica in modo esponenziale e i risultati sono disastrosi per la roccia, cioè per i mafiosi.

Secondo – Se allo Stato i pentimenti dei mafiosi sono utili (e lo sono), proprio per questo uno Stato responsabile deve incentivarli. Con misure previste da una legge ad hoc, senza  i sotterfugi  e le vischiosità che fisiologicamente caratterizzano la collaborazione dei semplici “confidenti”.

Terzo –  Giovanni Falcone era straconvinto della necessità di una legge in favore dei pentiti, proprio la legge che oggi consente al suo killer di essere scarcerato. Anzi, poiché questa legge che egli chiedeva a gran voce tardava  ad essere approvata, ad un certo punto arrivò a chiedersi se dietro la  “perdurante inerzia nell’affrontare i problemi del pentitismo” si nascondesse la voglia di non “far luce sui troppo inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti”.

E attenzione: Falcone non parlava mai a vanvera, ma sempre a ragion veduta. Innanzitutto perché il suo capolavoro investigativo giudiziario, il maxi processo che ha segnato la fine del mito dell’invulnerabilità della mafia, lo ha costruito grazie appunto alle rivelazioni di vari pentiti (Buscetta, Contorno, Calderone e Marino-Mannoia). Buscetta in particolare è l’uomo che consegnò a Falcone il codice per decifrare Cosa nostra, una specie di lingua ancora sconosciuta di cui egli spiegò alfabeto, grammatica e sintassi. La “password” dei segreti di Cosa nostra. Per l’ antimafia, più che una svolta l’inizio di una nuova era.

Falcone poi sapeva bene  che non c’è  paese al mondo che non si avvalga dei pentiti per contrastare il crimine organizzato.  Vale ancora oggi, con la differenza che da noi i pentiti si processano, si condannano e scontano la pena (anche se ridotta: nel caso di Brusca dall’ergastolo a 30 e poi 25 anni); mentre altrove, per esempio in USA, chi collabora la fa del tutto franca. Nel senso che la legge gli assicura una completa immunità per i reati commessi.

Quarto – In Italia vi sono obiezioni a quanto fin qui sostenuto, suggestive ma superabili. Si dice che i mafiosi “pentiti” sono figure negative, eticamente inaccettabili. Ma attenzione alle parole: non sono di certo personaggi negativi perché hanno parlato o tradito o fatto la spia. Se ragionassimo così, applicheremmo anche noi il codice dell’omertà dei boss mafiosi. Un criterio di lettura  che non aiuta a capire.

Si dice ancora: non si possono legittimare coloro che sono marchiati dall’indelebile abominio di essere stati mafiosi. Mafiosi, è vero, ma utili (dal punto di vista investigativo-giudiziario) proprio per questo: se non fossero stati mafiosi non avrebbero informazioni sulla mafia da darci, non conoscerebbero i segreti  che servono per contrastarla incisivamente.

Quinto – I “pentiti” sono certamente uno strumento processuale da maneggiare con cura, per i possibili e non pochi effetti collaterali pericolosi.  Non si chiedono analisi ai pentiti:  si pretende il racconto di vicende da verificare, da sottoporre al vaglio critico della ricerca di concrete e oggettive conferme. E se tutto funziona secondo le regole (in particolare quella che senza adeguati riscontri le  parole non sono prove) il  contributo dei collaboratori di giustizia – va ribadito –  è davvero insostituibile.

In altre parole è un rimedio che riesce ad aggredire efficacemente e direttamente la malattia, cioè lo sviluppo delle organizzazioni criminali segrete. Perciò un rimedio che secondo logica ed esperienza non dovrebbe essere contestato da coloro che hanno a cuore la qualità e le sorti della nostra democrazia.

Assume invece una posizione illogica chi per pregiudizio va a testa bassa contro i collaboratori per screditarli tutti, per contrastarne l’attività se non addirittura la semplice esistenza. Solo Cosa Nostra ha titolo per tenere simili atteggiamenti, visti  i danni che le sono derivati proprio dai pentiti.

E la prova provata che i pentiti sono un siluro sotto la linea di galleggiamento della mafia la forniscono proprio i mafiosi, in particolare Salvatore Riina: quand’era latitante il capo dei capi  predicava che pur di riuscire ad abolire la legge sui pentiti si sarebbe giocato anche i denti; dopo la cattura, in un’aula d’udienza, in favore di tutte le tv, lanciò (24 maggio 1994)  un pubblico anatema contro il “complotto” ordito dalla Procura di Palermo che allora io dirigevo e contro i “pentiti manovrati”, con conclusiva richiesta di cancellazione della legge sui collaboratori.

Riina faceva il suo mestiere. Ma gli altri? C’è forse qualcuno che  non ha capito o non vuol capire? Magari in nome di interessi che niente hanno a che fare con le esigenze della giustizia?

Fonte: La Voce e il Tempo, 13/06/2021

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