NEWS

Il terrorismo neofascista e la strage di Bologna fra storia, giustizia e memoria

Chiara Zampieri * il . Giustizia, Memoria, Politica, Società

Sommario: 1. Uno sguardo d’insieme sugli studi sui terrorismi italiani – 2. Il terrorismo “nero” della prima fase – 3. Il terrorismo “nero” della seconda fase – 4. La strage di Bologna – 5. La reazione, i processi, la memoria.  

1. Uno sguardo d’insieme sugli studi sui terrorismi italiani

La violenza politica e i terrorismi italiani degli anni Settanta e Ottanta sono stati oggetto di una vasta bibliografia di carattere scientifico, così come di una nutrita letteratura di taglio memorialistico e autobiografico e di un’ampia pubblicistica[1].

Va rilevato però che in questa messe di studi, di testimonianze e di testi divulgativi il terrorismo di destra è stato meno studiato rispetto al suo omologo di sinistra. A inaugurare la stagione di studi sull’eversione “nera” è stato soprattutto l’Istituto Cattaneo che negli anni Ottanta diede avvio a una serie di ricerche volte a esaminare – anche con l’apporto di alcuni magistrati che si stavano occupando di inchieste di terrorismo – diversi aspetti del fenomeno: le vicende e le azioni dei gruppi eversivi; i percorsi individuali e collettivi, dalla militanza nell’ambiente neofascista e nel Msi all’ingresso nel settore militarizzato e nei gruppi terroristici; il ruolo e il rapporto con il Msi; la cultura politica di questi gruppi[2]. Si tratta spesso di ricostruzioni dell’intera parabola del terrorismo di stampo neofascista che, pur affondando le radici politico-culturali negli anni del secondo dopoguerra, ha insanguinato l’Italia a partire dal 1969, l’anno della strage di piazza Fontana, fino ai primi anni Ottanta.

Generalmente gli studiosi che si sono occupati di questo fenomeno hanno suddiviso in almeno due fasi questo lungo periodo: la prima, collocata fra il 1969 e il 1975 e la seconda fra il 1976 e i primi anni Ottanta. Questa seconda, però, resta ancora la fase meno studiata e dunque quella più sfuggente. In parte ciò è dovuto al valore altamente simbolico acquisito dalla strage di piazza Fontana che, quale evento iniziale di quella che sarebbe stata definita «strategia della tensione», ha perciò catalizzato l’attenzione prima degli osservatori dell’epoca, in seguito degli studiosi. Le vicende giudiziarie che ne seguirono (con i depistaggi messi in atto fin da subito dalle autorità che portarono all’immediato arresto dell’anarchico Giuseppe Pinelli, poi deceduto in circostanze mai chiarite nel corso degli interrogatori presso la questura di Milano), l’attenzione che attirò da parte degli ambienti della sinistra, storica e non, e l’effetto di ulteriore radicalizzazione che essa ebbe negli ambienti dell’estrema sinistra già dediti alla teorizzazione e all’uso della violenza come metodo di lotta politica, ovviamente amplificarono il valore periodizzante e simbolico dell’evento[3].

Inoltre, nonostante ci siano voluti diversi anni prima di cominciare a disvelare la trama delle complicità, delle connivenze e delle deviazioni da parte di alcuni settori dello Stato nelle indagini relative a piazza Fontana[4] (e così è stato anche per le indagini su tutte le stragi commesse nella prima metà degli anni Settanta) e benché ci siano voluti decenni per giungere a delle sentenze definitive di condanna, il quadro complessivo del fenomeno, delle sue articolazioni, degli obiettivi strategici, dei suoi intrecci con alcuni settori dei servizi di sicurezza e delle Forze armate, anche se non ancora del tutto chiarito, è stato delineato almeno nei suoi elementi essenziali.

Lo stesso invece non si può dire per la seconda fase del terrorismo nero, quella che è stata variamente definita come del «radicalismo di destra»[5], dello «spontaneismo armato» o del «terrorismo diffuso»[6]. Benché si sia arrivati a ricostruirne una traccia (e anche qualcosa di più, nel caso ad esempio del coinvolgimento della P2) in sede di interpretazione complessiva, anche i contorni dei suoi collegamenti con i «poteri occulti»[7] appaiono meno univoci e più sfuggenti rispetto a quelli del terrorismo della prima fase.

Va infine considerato un altro aspetto che ha determinato una maggiore conoscenza delle dinamiche del terrorismo di destra della prima fase, rispetto a quello della seconda. E cioè il fatto che, nel periodo 1969-1975, benché fosse attivo anche un terrorismo d’ispirazione marxista-leninista, questo fu sicuramente considerato di minore rilevanza e pericolosità rispetto al terrorismo “nero”. Quest’ultimo dunque attirò, almeno da un certo momento in poi, l’attenzione delle forze politiche, delle autorità, oltreché dell’opinione pubblica.

Nella seconda fase, invece, le cose stavano esattamente all’opposto: il terrorismo “rosso” fu senza dubbio decisamente più insidioso sia in termini di numero di attentati, sia in termini di numero di militanti e gruppi coinvolti nelle sue azioni. Le attività investigative, preventive e repressive furono perciò indirizzate principalmente a individuare e a perseguire i gruppi dell’eversione di sinistra, piuttosto che quelli di destra. Allo stesso modo, il dibattito pubblico fu sicuramente più incentrato su questo fenomeno che non su quello di opposta matrice.

Il terrorismo di destra della seconda fase fu dunque in parte “messo in ombra” dal suo omologo di sinistra. E ciò ebbe un riflesso diretto anche sulla letteratura – scientifica e non – sull’argomento: ricchissima ed eterogenea sul fenomeno di sinistra, scarsa su quello di destra. Su quest’ultimo punto hanno poi pesato due fattori fra loro collegati: da un lato, il fatto che, già all’epoca dei fatti, i «pentiti» – che diedero molti elementi agli inquirenti non solo per svolgere le indagini sui fatti specifici, ma anche per ricostruire una prima “storia” delle organizzazioni terroristiche – furono soprattutto appartenenti ai gruppi di sinistra (pochissimi invece furono quelli di destra); dall’altro, il fatto che la memorialistica sulle vicende del terrorismo degli anni Settanta e Ottanta sia soprattutto, anche in questo caso, opera degli ex militanti di sinistra (molte di meno sono le testimonianze degli ex attivisti di destra)[8]. Complessivamente, dunque, conosciamo meno del terrorismo di destra rispetto al terrorismo di sinistra e, più nello specifico, conosciamo meno il terrorismo di destra della seconda fase rispetto a quello della prima.

2. Il terrorismo “nero” della prima fase

Come viene correttamente evidenziato dal «breve excursus sulle stragi» della sentenza in oggetto, la strage di Bologna è dunque “solamente” l’episodio più sanguinoso di una lunga scia di attentati stragisti consumati nell’arco di più di un decennio.

La cultura politica dei gruppi che animarono la prima fase, come Ordine nuovo e Avanguardia nazionale, così come i legami che si crearono fra questi soggetti e settori deviati dello Stato e il Msi affondavano le radici nel dopoguerra e nel clima di scontro inaugurato dalla guerra fredda. Da un lato, vi era una componente nostalgica che rivendicava la continuità con il fascismo storico e con la Rsi mantenendo fede ai tradizionali miti del combattentismo, del reducismo e della lotta contro il bolscevismo.

Dall’altro, l’eredità del fascismo venne rielaborata alla luce del pensiero di Julius Evola, centrato sul concetto di Tradizione e su un fermo rifiuto di tutto il portato della Rivoluzione francese e dell’età moderna (il liberalismo, la democrazia e, ovviamente, il socialismo e il comunismo). I militanti di estrema destra, considerandosi un’«élite rivoluzionaria», erano convinti di dover condurre una lotta, anzi una vera rivoluzione (ancorché «conservatrice»), per costruire un nuovo Ordine, anche se i contorni della società da costruire rimasero sempre sfumati. Proprio l’abbandono della prospettiva rivoluzionaria, fra l’altro, aveva indotto i militanti che ne avevano fatto parte, ad allontanarsi dal Msi, con il quale però non vennero mai meno i legami. Nel contempo, alcuni di essi godevano di relazioni con altri gruppi terroristici e con regimi autoritari “amici”, come quello greco, e di una rete di appoggi che spaziava dall’America Latina, alla Spagna franchista fino al Portogallo salazarista[9].

L’oggetto dell’attacco violento in questa fase non fu dunque lo Stato, bensì i partiti, il sistema democratico e il parlamentarismo che ne avevano causato la degenerazione. Anzi, permase per un lungo periodo un atteggiamento di rispetto verso le autorità statali, probabilmente determinato, da un lato, dai legami che questi gruppi avevano fin dalle loro origini con alcuni settori dell’apparato statale e dall’altro dalla sostanziale tolleranza di cui godettero per diversi anni da parte delle forze di polizia. Le attività di queste organizzazioni furono diversificate: nel corso degli anni Sessanta, si “limitarono” ad azioni squadriste rivolte contro sedi di partiti e sindacati e ad azioni di pestaggio degli avversari di sinistra nelle università e nel corso di alcune manifestazioni pubbliche. Le bombe e gli attentati indiscriminati comparvero in un secondo momento: inizialmente a semplice scopo dimostrativo, senza causare vittime; a partire da piazza Fontana, causando decine di morti e feriti. Gli eventi scatenanti furono la contestazione del ’68 e le lotte operaie del 1969, che prefigurarono – non solo agli occhi dei militanti neofascisti, ma anche di diversi settori dell’anticomunismo più oltranzista degli apparati dello Stato, a loro vicini – l’ingresso del Partito comunista italiano (che fra l’altro era il più forte partito comunista dell’Europa occidentale) al governo o, addirittura – guardando più in generale agli equilibri della guerra fredda che sembravano volgere a favore dell’Urss –, un’invasione sovietica[10].

La peculiarità di questi attentati, come è noto, consisteva nel fatto che non vennero mai rivendicati, né giustificati a livello teorico-ideologico, nel tentativo di sviare le indagini verso gli ambienti di sinistra e di influenzare l’opinione pubblica a favore di una stretta repressiva o addirittura di una svolta autoritaria.

Ciò costituiva l’essenza strategica di quella che venne definita «strategia della tensione», ossia la logica operativa di circoli reazionari che, usando le bombe senza produrre rivendicazioni, intendevano creare sconcerto e destabilizzare il paese, facendo ricadere la responsabilità delle violenze sulle correnti più contestatrici della sinistra. L’obiettivo era sollecitare una ristabilizzazione in chiave conservatrice, reagendo così all’onda lunga della protesta giovanile e operaia e al crescente consenso che ne derivava al Pci[11]. Anche se di certo non mancarono collegamenti fra i diversi soggetti – e uno snodo significativo di queste trame correttamente evidenziato dalla sentenza fu indubbiamente il convegno dell’Istituto Alberto Pollio del 1965 che vide radunati sia esponenti dell’estremismo nero, sia osservatori militari – ciò non significa che esistesse un unico complotto con una chiara gerarchia e una mente unitaria.

Piuttosto sembra essere esistito – come ha notato Guido Formigoni – un «complesso di movimenti tentacolari, convergenti ma anche in qualche modo disordinati»[12]. Di fronte al rischio di «scivolamento a sinistra» della società e della politica italiana, alcuni spezzoni del fronte «atlantico» e delle destre interne tentarono in sostanza di forzare la situazione creando le condizioni di una «guerra civile strisciante», per ottenere un contraccolpo conservatore o reazionario. I terroristi avevano addentellati interni nei servizi segreti e nelle forze di polizia e contatti internazionali (forse anche in alcune componenti della struttura militare e di intelligence della Nato)[13].

Contemporaneamente, una parte dei militari italiani coltivò simpatie golpiste parallele a quelle dei settori dell’estrema destra (e il tentato “golpe Borghese” del 1970 rientrava in questa logica), anche se gli sforzi di passare alla fase operativa furono velleitari e, infine, fallimentari[14]. I gruppi neofascisti, quindi, accettarono di svolgere il ruolo di “detonatore” di questa complessa operazione politica, «verosimilmente – ha notato Francesco Maria Biscione – con diversi livelli di consapevolezza tra dirigenti e gregari circa gli effettivi scopi»[15]. Questa fase terminò con le stragi del 1974 (quella di piazza della Loggia a Brescia e quella del treno Italicus), quando furono presi dei provvedimenti ad ampio raggio da parte del governo Rumor non solo per smantellare i gruppi eversivi (che vennero sciolti e perseguiti), ma anche per bonificare i settori dello Stato che si erano rivelati conniventi con essi[16].

Come ha scritto Franco Ferraresi, il mutato atteggiamento dello Stato accentuò la propensione di alcuni spezzoni ad azioni autonome e, sul lungo periodo, condusse a una cruciale svolta strategica che avrebbe segnato la seconda e ultima stagione del terrorismo nero[17]. Le iniziative prese dallo Stato vennero in effetti vissute dai gruppi neofascisti come una sorta di tradimento che li indusse a loro volta a mutare atteggiamento: non più deferenza e rispetto, ma «strategia di eliminazione dei “nemici della rivoluzione”»[18]. Fu fatto un tentativo di riunire quanto restava di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale in un incontro segreto che si tenne nel 1975 ad Albano Laziale e le parole d’ordine che vennero lanciate furono: «attacco allo Stato» e «disarticolazione del potere colpendo le cinghie di trasmissione del potere statale»[19]. La sentenza in oggetto tratteggia questo mutamento, affermando efficacemente come si tratti di una «strategia non più classicamente di destra, anticomunista, ma rivolta esplicitamente contro le espressioni diffuse del potere statuale» (p. 109). L’assassinio del giudice Vittorio Occorsio nel luglio del 1976 doveva segnare l’inizio di questa svolta[20].

3. Il terrorismo “nero” della seconda fase

Nel quadro del cambiamento di strategia e modalità operative di questi gruppi, vanno considerati anche altri due elementi cruciali che contribuirono a determinarlo.

Il primo è l’esplosione del terrorismo di sinistra, a partire dal 1976, in forme sempre più militarizzate: la dimostrazione della sua efficienza operativa e spietatezza bellica colpì profondamente la destra eversiva, che venne stimolata ad emularne la tattica e le modalità organizzative. Il secondo aspetto da considerare è il ricambio generazionale che caratterizzò i gruppi neofascisti della seconda fase: i nuovi militanti, nati perlopiù dopo il 1955, erano lontani dalla memoria storica del fascismo, dal mito della Rsi e molto più influenzati dalla «furia antisistema» dei loro coetanei di sinistra[21]. Ferraresi ha sottolineato dunque l’impatto dell’esplosione del «giovanilismo» – che, come nota la sentenza, fu amplificato dal reclutamento di «“ragazzini” fagocitati dall’impazienza rivoluzionaria», p. 109 –, che comportò non solo l’instaurarsi di una certa corrispondenza fra l’estremismo nero e la nuova contestazione del 1977, ma anche la tendenza della destra rivoluzionaria a operare una lettura del tutto parallela a quella dell’estrema sinistra. Va inoltre considerato che la crisi dei gruppi “storici” del neofascismo aveva lasciato le nuove leve senza particolari riferimenti sul piano organizzativo né vincoli stringenti di carattere ideologico e ciò diede loro margini nuovi per sperimentare azioni e forme organizzative inedite, spesso ispirate appunto dai loro omologhi della sinistra rivoluzionaria. Data l’identità dei bersagli (il “sistema”) e delle forme di lotta (spontaneismo e autonomia), alcune frange della destra giunsero perfino a proporre di costruire collegamenti strategici e tattici con la sinistra e in particolare con i gruppi di Autonomia operaia, senza però raggiungere dei risultati concreti[22].

È in questo magma e nel clima del movimento del 1977 che nacquero gruppi come Terza posizione, Costruiamo l’azione (che oltre a essere un giornale, radunava attorno a sé un «movimento politico» guidato da vecchi veterani di Ordine nuovo e membri più giovani ed il cui braccio armato era il Movimento Rivoluzionario Popolare) e i Nuclei Armati Rivoluzionari.

Dal punto di vista strategico, è difficile scorgere un’idea chiara di quali fossero gli obiettivi politici di questi gruppi, eccetto l’abbattimento del «sistema», che però non prevedeva un progetto preciso. I pochi documenti a disposizione mostrano certamente una critica nei confronti tanto del Msi (per aver tradito le speranze dei rivoluzionari), quanto dei gruppi “storici” del neofascismo e della strategia golpista, soprattutto perché volta a rafforzare il sistema che loro invece, ora, volevano attaccare. Vi era poi un rifiuto dell’ideologia, ritenuta fonte di mistificazione, in favore dell’«azione», elevata a «dovere esistenziale» in sé, quale strumento privilegiato della lotta politica.

Dal punto di vista strategico, il risultato più visibile di queste elaborazioni fu il cosiddetto «spontaneismo armato», cioè la formazione di piccoli gruppi, politicamente collegati, ma autonomi, dove i militanti spesso si sovrapponevano e le azioni potevano essere rivendicate (o anche non rivendicate, al fine di allargare la propria platea di potenziali simpatizzanti) da più di un’organizzazione[23].

I Nar furono quelli che si contraddistinsero per essere i principali teorizzatori ed esecutori dello «spontaneismo», fino a negare – orgogliosamente – qualsiasi significato da attribuire alla lotta armata e alla violenza, che assumevano così un significato in sé. Si negava anche il carattere pedagogico insito nella concezione dell’esemplarità dell’azione che per altri gruppi (anche di sinistra) era invece essenziale. La lotta armata, nella loro concezione, diveniva dunque totalmente fine a sé stessa. E proprio l’assenza di qualsivoglia scopo e significato, al di là dell’affermazione simbolica della soggettività antagonista al sistema, fece sì che il confine fra questo tipo di spontaneismo e la pure e semplice criminalità a fine di lucro divenisse molto esile[24].

Tuttavia, come ha acutamente notato Ferraresi, questa «spontaneità» e la sua «eroica mancanza di scopo» erano spesso contraddette dai riferimenti ancora molto presenti alla «guerra rivoluzionaria». Come alcuni documenti dell’epoca mostrano, infatti, secondo i protagonisti del terrorismo nero, la «progressione rivoluzionaria» prevedeva, al primo stadio, lo «spontaneismo armato» condotto da gruppuscoli che sarebbero stati poi coordinati da un’organizzazione extraparlamentare con funzioni di copertura e propaganda. Nella seconda fase si sarebbero potute configurare varie tattiche, fra le quali il ricorso al «terrorismo» – sia indiscriminato, sia volto a uccidere figure strategiche del sistema e a occupare i mezzi di comunicazione e l’apparato legale – era ancora ritenuto essenziale per estendere la lotta armata. In un periodo più avanzato, sarebbe infine comparsa la guerriglia urbana e, da ultimo, quella in montagna[25].

In sostanza, come rilevato anche dalla sentenza (p. 112), nonostante le differenziazioni di facciata, emerge una sostanziale «continuità» fra le formazioni della prima e della seconda fase (peraltro garantita anche dal “travaso” di alcuni militanti e dal riferimento che ancora costituivano per le nuove reclute figure come Franco Freda) circa la visione di fondo della società e l’esigenza della lotta armata che ne discendeva. Dunque, nonostante l’autorappresentazione dei gruppi come «spontaneisti» e la rivendicazione di autonomia rispetto a qualunque disegno sovraordinato, sembra continuare a esservi una «strategia» di fondo nelle loro azioni (e in quelle dei Nar nello specifico).

E non si tratta di una questione di dettaglio, dal momento che, come ha rilevato il presidente della Corte d’Assise Michele Leoni nella sentenza, l’inserzione del termine «spontaneista» nel capo d’imputazione a carico dell’imputato Gilberto Cavallini ha funzionato «come clausola di sbarramento per una pronuncia di colpevolezza di Cavallini per strage politica o di Stato» (p. 2079), venendo quindi condannato per delitto di strage “comune”. A questo proposito, la Corte ha fra l’altro contestato l’«ottica minimalista» della Procura, che, proprio facendo riferimento al carattere spontaneista dell’organizzazione, ha ricondotto tutto «alla dimensione autarchica di quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo (con le bombe, ma anche con il solito corteo di coperture e depistaggi)» (pp. 2080-2081).

Dal punto di vista organizzativo e operativo, i Nar rifiutavano qualunque logica gerarchica: la sigla, coniata da Francesca Mambro, era a disposizione di chiunque volesse usarla. L’unica condizione era che ogni azione avesse un chiaro significato rivoluzionario “antisistema”.

Da questa impostazione sarebbe derivato un numero elevato di gruppi e di aggregazioni estemporanee che promossero una serie di azioni in tutto il paese e soprattutto a Roma. Se ne contano almeno 29 nel 1978, 43 nel 1979 e 32 nei primi mesi del 1980. Spesso si trattava di azioni molto simili a quelle svolte dai gruppi di sinistra: rapine per autofinanziamento o per fare rifornimento di armi (e in questo contesto si intensificarono le relazioni con gruppi criminali come la banda della Magliana), ferimenti e omicidi di persone ritenute simbolo del “sistema” da abbattere. A questa fase risalgono dunque azioni contro obiettivi specifici – come l’omicidio di due poliziotti, Maurizio Arnesano e Franco Evangelista, assassinati il 28 maggio 1980, e del magistrato Mario Amato, ucciso il 23 giugno 1980 – e naturalmente la strage alla stazione di Bologna[26].

4. La strage di Bologna

Il massacro del 2 agosto 1980 si colloca in una fase, nazionale e internazionale, di significativi mutamenti a livello politico, economico, culturale, sociale.

A cavallo dei decenni Settanta e Ottanta si verificò infatti quella che Silvio Pons ha definito come una «soluzione di continuità» nella politica italiana che coincise, sul piano internazionale, con la rivoluzione in Iran, la crisi degli euromissili in Europa, l’invasione sovietica in Afghanistan, l’avvento di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, la crisi sociale e politica in Polonia, l’emergere della leadership di Deng Xiaoping e l’avvio della modernizzazione nella Cina postmaoista[27]. Il passaggio da un decennio all’altro coincise dunque con la crisi della distensione e una nuova fase di tensioni a livello internazionale.

Sul piano interno, fu un periodo di transizione dai governi di solidarietà nazionale – che avevano trovato l’espressione più piena con l’ingresso del Pci nella maggioranza di governo il 16 marzo 1978, il giorno del sequestro di Aldo Moro per mano delle Br – all’avvio dei governi guidati per la prima volta da esponenti non democristiani e alla stabilizzazione delle formule pentapartito. La crisi della collaborazione fra i due principali partiti di massa si era consumata definitivamente nel 1979, anno che – come ha scritto Piero Craveri – «segnò l’esaurimento di tutte le formule evolutive possibili della prima Repubblica»[28]. Dall’anno seguente e per tutti gli anni Ottanta, il Pci – che proprio dal 1979 invertì il trend elettorale positivo – sarebbe rimasto all’opposizione di governi formati dalla Dc, dal Psi e dai partiti laici “minori”.

Con il declino del conflitto sociale, dunque, il sistema politico nel suo complesso si stabilizzò verso un nuovo equilibrio, dove la sinistra assunse una posizione decisamente più difensiva e la conflittualità operaia declinò in modo irreversibile. Anche il clima generale che aveva circondato la violenza e l’illegalità degli anni Settanta era ormai cambiato: a sinistra il movimento post-1977 si era esaurito e il terrorismo rosso, decimato da procedimenti giudiziari e defezioni dopo l’assassinio di Moro, si stava avviando alla sconfitta[29].

In questa prospettiva, la strage della stazione di Bologna può essere vista più come un – drammatico – colpo di coda di un fenomeno che affonda le radici nel decennio precedente, piuttosto che una manifestazione della transizione degli anni Ottanta. Essa è considerata la strage più grave dell’intera storia repubblicana[30]. Causando 85 morti e circa 200 feriti, fu «uno dei peggiori eventi terroristici mai registrati», che aveva provocato «più morti di qualsiasi altro attentato terroristico precedente in Europa occidentale», rilevava la Cia a quel tempo[31].

Nonostante la nuova strategia impiegata dai gruppi della destra eversiva e, in particolare, dai Nar che ne furono responsabili, le stragi erano ancora considerate un mezzo di lotta politica. Come ha messo in rilievo Ferraresi basandosi su alcuni documenti dell’epoca e sulle dichiarazioni rese da alcuni imputati nel corso dei processi, infatti, nella logica dei gruppi armati della destra radicale, era perfettamente plausibile uccidere 85 persone inermi per uno o più dei seguenti motivi: attrarre nuovi militanti; consolidare il mondo della lotta armata; criminalizzare o creare problemi a un gruppo rivale; inviare un avvertimento ai settori dello Stato che in passato simpatizzavano con le loro ma che ora sembravano essersene distaccati[32].

Una possibile altra spiegazione del ritorno allo stragismo è stata formulata pochi anni dopo l’attentato dalla Cia, in un report del 1983 dedicato alle attività del terrorismo di destra in Europa. La strage di Bologna era spiegata alla luce del forte anticomunismo che ancora caratterizzava l’ideologia neofascista italiana: secondo gli analisti statunitensi, cioè, realizzando quella drammatica strage, i terroristi di destra avevano mirato fondamentalmente a «colpire una roccaforte di sinistra» guidata dal Pci da diversi anni e, in questo modo, a minare la fiducia dei cittadini nella capacità dei comunisti di proteggerli[33].

Più di recente, il magistrato Leonardo Grassi, che si è occupato anche delle indagini sul massacro del 2 agosto, ha suggerito un’ipotesi diversa, sottolineando la discontinuità di questo episodio con la stagione precedente. Grassi ha osservato infatti che se, da un lato, la strage di Bologna ha chiuso il ciclo dello stragismo in chiave anticomunista, dall’altro essa contiene «i germi del nuovo stragismo, quello primariamente gestito dalle associazioni camorristico-mafiose che ha inizio con la strage del rapido 904 e si conclude con la strage di via D’Amelio»; un ciclo che non avrebbe dunque a che fare con il contenimento del comunismo, bensì «con il recupero e la salvaguardia, nella nuova geografia mondiale dei poteri, di tutte quelle forze massoniche, mafiose e neofasciste che assieme a pezzi di servizi segreti avevano dato il loro contributo alla lotta, anche cruenta, contro il comunismo» e che avrebbero tentato di imporre il loro potere di ricatto sulle istituzioni democratiche[34].

La sentenza in esame ha invece posto la strage – così come lo «spontaneismo armato» – nel segno della piena continuità con il progetto eversivo sviluppato negli anni precedenti, e cioè con la «strategia della tensione»; e proprio con questa “continuità” si spiegherebbe la riedizione dello stragismo, che, abbandonato per un certo periodo, tornò a essere «di nuovo strumentale a un disegno politico che aveva sempre lo stesso scopo: condizionare l’evoluzione democratica dello Stato» (p. 119).

Di certo, affiora la medesima strategia, che aveva finalità ora sovrapponibili al programma eversivo di un soggetto che si sarebbe rivelato un protagonista cruciale di queste trame per tutti gli anni Settanta, ossia la loggia massonica P2, cui è giustamente dedicata una parte della ricostruzione storica della sentenza. Pur in assenza di studi sistematici su questo soggetto, siamo ormai in grado di delineare lo sfondo entro il quale si dipana la sua storia in quel decennio e i contorni della sua penetrazione nel mondo finanziario, economico, burocratico, politico, dell’informazione e dei suoi legami con la criminalità comune e mafiosa.

Occorre innanzitutto guardare al contesto nazionale di metà anni Settanta: in particolare, il 1974 fu un anno cruciale dal momento che l’esito del referendum sul divorzio aveva polverizzato l’ipotesi di una maggioranza clerico-moderata perseguita dai promotori della consultazione. Ciò non avrebbe tardato a far sentire il proprio peso anche sugli equilibri governativi: accantonata l’esperienza del governo di centro-destra Andreotti-Malagodi, si riaprì infatti la prospettiva del confronto a sinistra con il governo Moro-La Malfa. Intanto, il Movimento sociale italiano, pur avendo ottenuto lusinghieri risultati elettorali nel 1972, appariva troppo coinvolto nella strategia della tensione e cominciò a scontarne le conseguenze.

Insomma, nel 1974, da un lato, era esplosa la «questione democristiana», dall’altro si poneva la «questione comunista», che in seguito ai risultati elettorali del 1975 e del 1976 divenne ancor più pressante e difficilmente eludibile. Dopo la tornata del 1976, si sarebbero quindi create le condizioni per un dialogo fra Dc e Pci e per il varo dei governi della “solidarietà nazionale” fondati sulla collaborazione fra i due storici avversari[35].

Proprio nel 1975 Licio Gelli fu nominato maestro venerabile della P2. La loggia non aveva una struttura centralizzata e gli affiliati vi confluivano in gruppi già costituiti, su base prevalentemente professionale. Essi, pur continuando a lavorare sui propri obiettivi di guadagno e potere, venivano integrati in una prospettiva collettiva, necessariamente politica. Tra questi gruppi, spiccava quello proveniente da quei settori dei servizi di sicurezza e dei vertici dell’Arma dei carabinieri che in passato avevano favorito la «strategia della tensione», segnando dunque – anche “fisicamente” – una profonda continuità fra i diversi piani di azione. Lo stesso Gelli, del resto, era comparso negli atti giudiziari relativi al golpe Borghese, alla strage dell’Italicus e all’omicidio Occorsio.

Proprio in virtù di questa continuità, vi era una profonda consapevolezza dei limiti e degli errori commessi con le trame della fase precedente e, dunque, attraverso la P2 si compì «il superamento della strategia della tensione», secondo una pratica ben più complessa e articolata (il “Piano di rinascita democratica” del 1976) di quella golpista. Il “Piano” escludeva in effetti ogni progetto di rovesciamento del sistema, prefigurando invece il superamento della democrazia dei partiti e un riassetto moderato[36].

In altri termini, si prevedeva di ricostituire lo Stato e l’autorità del governo attraverso un governo parallelo ed extraistituzionale di tipo massonico nel quale concentrare l’effettiva gestione del potere. Per portare a compimento il progetto, si prevedeva di svolgere un’azione “dall’interno”, che doveva consistere nella rifondazione della Dc, nella rottura della Federazione unitaria dei sindacati, nell’azione sistematica di infiltrazione a macchia d’olio della stampa, nel mantenimento della guida dei servizi d’intelligence (ed in questa sfera rientrava l’azione di copertura e utilizzo dell’eversione “nera”, come pure l’uso di quella “rossa” benché quest’ultimo non sia stato accertato), oltreché la serie di operazioni in ambito finanziario che sono ben note[37].

In buona sostanza, come sottolinea anche la sentenza, vi sarebbe una continuità fra la galassia della strategia della tensione e i piani che videro coinvolta la P2 nel corso degli anni Settanta: non solo vi erano in parte coinvolte le stesse persone (e di qui deriverebbero quelle «sinergie» alla base del coinvolgimento anche nella strage di Bologna), ma queste perseguivano pure i medesimi scopi, ancorché con modalità diverse – «più sofisticate (penetrazione e progressiva metastatizzazione delle istituzioni)» nel caso della P2 (p. 120).

Francesco Maria Biscione ha fra l’altro delineato le molteplici sfaccettature di queste continuità, che si declinarono non solo a livello strettamente tattico e strategico – un’azione pervicace sul piano extraistituzionale finalizzata a bloccare l’avanzata delle sinistre e del Pci nello specifico –, ma anche su altri piani. L’azione di questi soggetti fu in effetti segnata da continuità nei comportamenti di alcune strutture – in primis, i servizi segreti e alcuni settori dell’Esercito –, nelle coperture massoniche di cui godevano e nell’universo ideale e culturale di riferimento, che possiamo ricondurre al fascismo e all’atlantismo radicale. Tuttavia, come ha notato giustamente sempre Biscione, questi ambienti non possono essere definiti solamente “fascisti”, né genericamente “atlantisti”: tali etichette rappresenterebbero in effetti una definizione rispettivamente troppo stretta e troppo larga per qualificarli[38].

Nel dibattito storiografico, che su questo episodio risulta comunque ancora non molto ricco, il confronto sul significato politico e strategico della strage, su come essa debba essere collocata nello scenario nazionale e internazionale nella cruciale transizione fra i due decenni e, quindi, sulla continuità o discontinuità che essa segnò rispetto alle trame degli anni Settanta, è ancora aperto.

5. La reazione, i processi, la memoria

Nelle ore successive alla strage, vi fu una reazione di enorme sdegno e una protesta pubblica che misero sotto pressione le autorità nel cercare e perseguire i responsabili, che, a differenza del passato – dopo il disorientamento inziale (si parlò, per alcune ore, dell’ipotesi di una caldaia) –, vennero immediatamente indicati tra i neofascisti. Nelle settimane seguenti, furono arrestati diversi militanti, con accuse direttamente o indirettamente collegate a tale reato.

Ciò ebbe però un effetto di ulteriore radicalizzazione, che sarebbe sfociato in una terribile escalation di omicidi. Nel 1980 sorsero alcuni nuovi gruppi spinti dal desiderio di emulare le altre bande. Fra di essi, rimase attiva la cellula dei “Magnifici Sette”, raccolti attorno a Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Gilberto Cavallini. Nei mesi seguenti, tuttavia, anche ciò che restava dello «spontaneismo armato» sarebbe stato spazzato via dalla reazione dello Stato: i militanti vennero via via arrestati (altri fuggirono) ed entro la fine del 1982 il terrorismo “nero” fu definitivamente sconfitto[39].

Il 2 agosto, la città reagì con grande prontezza al massacro: sebbene gran parte dei bolognesi fosse già in vacanza, i soccorsi iniziarono ad arrivare dopo pochi minuti dalla deflagrazione. Vi fu una mobilitazione enorme di mezzi, aiuti, persone. Coloro che abitavano di fronte alla stazione si precipitarono con lenzuola, bende, mezzi di fortuna per rimuovere le macerie. Iniziarono a soccorrere i feriti, a scavare con le mani per liberare i corpi intrappolati.

Tutti i documenti analizzati, così come i testimoni intervistati, confermano l’efficienza dei soccorsi, un coordinamento quasi immediato da parte delle istituzioni e una risposta pressoché unanime da parte dei cittadini. Anche se in seguito non sarebbero mancate le polemiche, né le controversie circa le operazioni di soccorso, in quell’occasione Bologna riuscì a reagire in modo compatto anche grazie ai preesistenti sentimenti di fiducia dei cittadini verso le istituzioni del governo locale[40].

Lo stesso rapporto di fiducia non sembrò esserci, invece, con le istituzioni del governo centrale. Il giorno del funerale delle vittime, fissato per il 6 agosto, le autorità e i segretari dei partiti intervenuti vennero fischiati e, fatto ancora più significativo, alla cerimonia ufficiale, fatta per le vittime della strage, mancavano gran parte delle salme e dei loro familiari. Ben 69 famiglie avevano scelto di celebrare i funerali in forma privata e di rifiutare quelli ufficiali, con un gesto di rabbia e di indignazione[41]. La memoria delle stragi dei primi anni Settanta, fino ad allora rimaste tutte impunite, e del coinvolgimento di alcuni spezzoni degli apparati dello Stato nelle loro trame, ebbe ovviamente un suo peso.

Nei mesi seguenti, ad aggravare il sentimento di sfiducia verso le istituzioni, sarebbe giunta la sentenza di assoluzione, emessa il 20 marzo 1981 dalla corte di Catanzaro, per tutti gli imputati della strage di piazza Fontana. Come è stato osservato, quella sentenza fu per i familiari delle vittime della stazione di Bologna «come un segnale per capire che stava vincendo la cultura dell’oblio, che la verità sulla morte dei propri congiunti sarebbe stata allontanata ed occultata e che bisognava impegnarsi direttamente»[42].

Di qui sarebbe sorta l’iniziativa, promossa spontaneamente e individualmente da alcuni familiari delle vittime di Bologna il 1° giugno del 1981, di costituire un’associazione con l’unico scopo di raggiungere la verità e la giustizia. Nacque così l’esperienza dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna, che fino ad oggi è stata presente con numerose iniziative e attività alle celebrazioni che ogni anno si tengono a Bologna il 2 agosto, in tutte le fasi dei processi attinenti alla strage, con iniziative legislative (ad esempio, la proposta di legge per l’abolizione del segreto di Stato nei delitti di strage e terrorismo presentata nel 1984 e approvata nel 1990 e quella per istituire il reato penale di depistaggio che, dopo numerose traversie, è stata approvata nel 2016), e ogniqualvolta sia stato necessario ribadire la volontà di perseguire giustizia e verità.

Sull’onda delle attività intraprese dall’Associazione bolognese, si costituirono in seguito anche le Associazioni dei familiari delle vittime della strage di piazza Fontana, quelle della strage dell’Italicus e di piazza della Loggia a Brescia. Nel 1983, queste avrebbero fondato l’Unione delle Associazioni dei familiari delle vittime delle stragi, con sede a Milano e con uno statuto ricalcato su quello dell’Associazione di Bologna. Sarebbe nata così un’esperienza inedita di mobilitazione di cittadini, al di fuori delle appartenenze ideologiche o degli schieramenti di partito[43].

Come ha notato Anna Lisa Tota, dal 1981 Bologna è diventata una città simbolo delle vittime delle stragi in Italia: il genere commemorativo e le forme di comunicazione pubblica – anche grazie all’Associazione delle vittime – che si sono consolidate in questo contesto, rappresentano infatti «un vero e proprio modello di elaborazione della memoria pubblica». Tale modello, afferma Tota, si è formato in due decenni essenzialmente grazie ad alcuni fattori: in primo luogo, la presenza di un gruppo di «imprenditori morali della memoria», che ha saputo riconoscere la dimensione pubblica del proprio dolore e, conseguentemente, ha potuto transitare negli anni dalla dimensione del «fare memoria» a quella del «fare etica pubblica». Ha potuto in altri termini, da una parte, «legittimare la versione del passato delle vittime e divenire garante unico e privilegiato di questa memoria»; dall’altra, conferire a questo evento drammatico «quel carattere universalistico ed esemplare, che ha avuto come esito quello di trasformare la piazza della stazione di Bologna e la cerimonia commemorativa che vi si svolge ogni anno, in un’arena ad alta visibilità politica e istituzionale, capace di dare espressione e di articolare alcune delle grandi questioni che attraversano il discorso pubblico a livello nazionale»[44].

In questo senso, la strage di Bologna rappresenta un caso emblematico fra le «ingiustizie» e i «passati scomodi» da raccontare, perché qui – nota sempre Tota – «il connubio tra fare memoria e fare etica pubblica» ha prodotto una tale visibilità sociale, sia a livello locale sia a livello nazionale, da permettere «la genesi istituzionale di un vero e proprio genere commemorativo per l’iscrizione pubblica della memoria delle stragi italiane». La commemorazione di Bologna è divenuta così uno dei luoghi simbolo delle memorie contese e controverse del nostro paese[45].

Al sedimentarsi di questa memoria contesa ha in buona parte contribuito la lunga e faticosa vicenda processuale di questo crimine, che già dal suo inizio si dimostrò controversa. Ci vollero infatti sette anni prima di giungere all’inizio del processo di primo grado, quando nel 1987 ben 250 familiari si costituirono parte civile. La sentenza del 1988 condannò gli esecutori materiali della strage, ma non gli imputati dell’associazione eversiva. Per questa ragione, i familiari decisero di ricorrere in appello in quanto, «per una completa ricostruzione dell’intera vicenda e della verità», andava indagato più in profondità sull’operato dell’associazione eversiva nel suo complesso.

Di qui sarebbero derivate alterne vicende giudiziarie e processuali, con vere e proprie sentenze “shock” di assoluzione, tentativi di depistaggio (spesso indirizzati a sviare le indagini su piste internazionali), da cui sarebbero emerse perfino ipotesi innocentiste riguardo alle responsabilità dei Nar – sostenute in primis da coloro che sarebbero stati condannati come i responsabili del crimine[46] – che privilegerebbero la matrice mediorientale (più precisamente, palestinese) della strage. Grazie all’attività dei magistrati, però, dopo quarant’anni disponiamo di alcune sentenze definitive, che hanno in parte rimediato al vulnus rappresentato da questo lungo e accidentato iter giudiziario. Possiamo appunto affermare che, fuor di ogni dubbio, la strage è di matrice fascista. Neofascisti infatti furono gli esecutori materiali (Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini, e Gilberto Cavallini). Anche i depistaggi sono stati accertati e gli autori condannati: il capo della P2 Gelli, il generale del Sismi e affiliato alla P2 Pietro Musumeci, il colonnello del Sismi Giuseppe Belmonte e il collaboratore del Sismi Francesco Pazienza[47].

Le sentenze hanno in parte risposto alle aspettative di ottenere giustizia e verità – il che rappresenta una necessità vitale per la democrazia e per la sua stessa legittimazione agli occhi dei cittadini – e hanno certamente contribuito a ricostruire gli eventi e le responsabilità individuali.

Tuttavia, permangono la frustrazione per esiti processuali definitivi raggiunti solamente a decenni di distanza dai fatti, un sentimento di diffidenza verso uno Stato dimostratosi incapace di garantire per anni la giustizia e rivelatosi, in alcuni suoi settori, complice dei misfatti. Non solo. Sono rimaste ancora delle zone d’ombra, delle piste da indagare e delle responsabilità da verificare. Rimane quindi una memoria controversa di questi eventi e perdurano sentimenti contrastanti nel rapporto con lo Stato di cui le contestazioni alle autorità che si sono verificate anche in tempi recenti in occasione della ricorrenza della strage rendono testimonianza.

Alcuni procedimenti – che dovrebbero accertare proprio in questi mesi il coinvolgimento di altri militanti “neri” nell’esecuzione della strage e le responsabilità dirette della P2 nell’averla organizzata e finanziata – sono ancora in corso e potrebbero finalmente costituire una base per ricomporre le fratture, superare la memoria conflittuale e ripristinare un rapporto di fiducia con le istituzioni.

Fonte: Giustizia Insieme

*****

Note

[1] Per i riferimenti bibliografici, cfr. G. M. Ceci, Il terrorismo italiano. Storia di un dibattito, Carocci, 2013.

[2] Cfr. G. M. Ceci, Il terrorismo italiano cit., pp. 153-163.

[3] Sulla scelta della violenza come strategia di lotta effettuata prima della strage e sull’effetto radicalizzante che essa innescò in alcuni settori dell’estrema sinistra, cfr. D. Della Porta, Il terrorismo di sinistra, il Mulino, 1990; Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (1966-1975), Einaudi, 2009; G. Donato, La lotta è armata: estrema sinistra e violenza: gli anni dell’apprendistato 1969-1972, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2012; A. Ventrone, Vogliamo tutto: perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione, 1960-1988, Laterza, 2012. Per ulteriori riferimenti bibliografici, si rinvia a G. M. Ceci, Il terrorismo italiano cit.

[4] Per una ricostruzione aggiornata e dettagliata della vicenda giudiziaria, si rinvia al recente volume di B. Tobagi, Piazza Fontana: il processo impossibile, Einaudi, 2019. Si veda anche M. Dondi, 12 dicembre 1969, Laterza, 2018.

[5] R. Minna, Il terrorismo di destra, in I terrorismi in Italia, a cura di D. della Porta, il Mulino, 1984, pp. 21-72.

[6] Cfr. F. Ferraresi, Threats to democracy: the radical right in Italy after the war, Princeton University Press, 1996, pp. 156-160.

[7] Sulla definizione, cfr. A. Ventura, I poteri occulti nella Repubblica Italiana: il problema storico, in I poteri occulti della Repubblica. Mafia, camorra, P2, stragi impunite, Atti del Convegno promosso dall’Ufficio Affari Istituzionali del Comune di Venezia, Ateneo Veneto, 10 dicembre 1983, 1984.

[8] Anna Cento Bull ha svolto alcune interviste a terroristi di destra, poi pubblicate in A. Cento Bull – P. Cooke, Ending Terrorism in Italy, Routledge, 2013; A. Cento Bull, Italian neofascism: the strategy of tension and the politics of nonreconciliation, Berghahn Books, 2007.

[9] Sulle relazioni internazionali di questi gruppi, cfr. i recenti saggi di E. Gonzàlez Calleja, Le reti di protezione del terrorismo di destra in Europa e il ruolo di Stefano Delle Chiaie e di Yves Guérin-Sérac, in Il terrorismo di destra e di sinistra in Italia e in Europa: storici e magistrati a confronto, a cura di C. Fumian – A. Ventrone, PUP, 2018, pp. 139-152; P. Picco, Solidarietà e sostegni d’Oltralpe: l’eversione di destra tra Italia e Francia tra gli anni Sessanta e gli anni ottanta, ibid., pp. 153-165. Di Picco si veda anche Liaisons dangereuses. Les extrêmes droites en France et en Italie (1960-1984), Presses Universitaires de Rennes, 2016.

[10] Cfr. F. Ferraresi, La destra eversiva, in I terrorismi in Italia, cit., pp. 233-269. Sui processi di radicalizzazione nell’estrema destra e sul rapporto fra i primi gruppi eversivi e il Msi, rinvio a G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa, cit.

[11] G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), il Mulino, 2016, p. 394.

[12] Ibidem.

[13] Ibid., p. 443. A questo proposito, è stata utilizzata la definizione di «guerra non ortodossa al comunismo», messa in atto dai gruppi eversivi (e orchestrata dai loro sostenitori “istituzionali”) nel contesto della guerra fredda, cfr. A. Ventrone, La strategia della paura: eversione e stragismo nell’Italia del Novecento, Mondadori, 2019 e alcuni saggi contenuti in Il terrorismo di destra e di sinistra cit. Su questo, si veda anche M. Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione, 1965-1974, Laterza, 2015.

[14] G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda cit., p. 443.

[15] F. M. Biscione, I poteri occulti, la strategia della tensione e la loggia P2, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, Partiti e organizzazioni di massa, vol. III, a cura di F. Malgeri – L. Paggi, Rubbettino, 2003, p. 237.

[16] Sui mutamenti nel quadro politico nazionale e internazionale che accompagnarono questa svolta, cfr. G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda cit., pp. 429-458.

[17] F. Ferraresi, La destra eversiva cit., pp. 269-270.

[18] Ibid., p. 270.

[19] F. Ferraresi, Threats to democracy cit., p. 145.

[20] F. Ferraresi, La destra eversiva cit., pp. 269-270.

[21] F. Ferraresi, Threats to democracy cit., p. 154.

[22] F. Ferraresi, La destra eversiva cit., pp. 277-278.

[23] F. Ferraresi, Threats to democracy cit., pp. 157-159.

[24] F. Ferraresi, La destra eversiva cit., pp. 285-286.

[25] F. Ferraresi, Threats to democracy cit., p. 159.

[26] Ibid., pp. 163-179.

[27] S. Pons, La bipolarità italiana e la fine della guerra fredda, in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi. Fine della guerra fredda e globalizzazione, a cura di S. Pons – A. Roccucci – F. Romero, Carocci, 2014, p. 35-36. Cfr. anche Gli anni Ottanta come storia, a cura di S. Colarizi – P. Craveri – G. Quagliarello – S. Pons, Rubbettino, 2004, p. 7.

[28] Cfr. P. Craveri, Dopo l’«unità nazionale» la crisi del sistema dei partiti, in Gli anni Ottanta come storia cit., p. 14.

[29] Su questa fase, cfr. anche A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani 1946-2016, Laterza, 2016, pp. 90-101, 124-132. Sulla risposta dello Stato al terrorismo in questa fase, mi permetto di rinviare a C. Zampieri, Alla prova del terrorismo: la legislazione dell’emergenza e il dibattito politico italiano (1978-1982), Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, a.a. 2016-2017.

[30] L. Weinberg, W. L. Eubank, The Rise and Fall of Italian Terrorism, Westview Press, 1987, p. 48.

[31] G. M. Ceci, La CIA e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci, 2019, p. 93.

[32] F. Ferraresi, Threats to democracy cit., pp. 177-178.

[33] G. M. Ceci, La CIA e il terrorismo italiano cit., p. 136.

[34] L. Grassi, Evoluzione delle strategie stragiste in particolare nel periodo 1974-1980, in Il terrorismo di destra e di sinistra cit., pp. 283-284. Grassi ha pubblicato recentemente anche un volume sulle vicende processuali, cfr. L. Grassi, La strage alla stazione in quaranta brevi capitoli, Clueb, 2020. Ulteriori ipotesi interpretative della strage sono state formulate da altri magistrati e osservatori, cfr. P. Calogero, Magistratura, servizi segreti e terrorismi di destra e sinistra. Le responsabilità dello Stato, in Il terrorismo di destra e di sinistra cit., p. 71; A. Cento Bull, Italian Neofascism cit., pp. 62-79.

[35] Su questa fase, cfr. G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda cit., pp. 447-521.

[36] F. M. Biscione, I poteri occulti cit., pp. 248-249.

[37] Ibid., pp. 250-251.

[38] Ibid., pp. 258-259.

[39] F. Ferraresi, Threats to democracy cit., p. 179.

[40] A. L. Tota, La città ferita. Memoria e comunicazione pubblica della strage di Bologna, 2 agosto 1980, il Mulino, 2009, pp. 53 ss.

[41] G. Turnaturi, Associati per amore: l’etica degli affetti e delle relazioni quotidiane, Feltrinelli, 1991, p. 2.

[42] Ibid., p.3.

[43] Ibid., p. 5.

[44] A. L. Tota, La città ferita cit., p. 215. Sul tema della memoria, cfr. anche Ead. I non luoghi della commemorazione: la stazione di Bologna (1980-2000), in La memoria contesa. Studi sulla comunicazione sociale del passato, a cura di A. L. Tota, FrancoAngeli, 2001; ead., A Persistent Past: The bologna Massacre (1980-2000), in Disastro! Disasters in Italy since 1860: Culture, Politics, Society, a cura di J. Dickie, J. Foot, F. M. Snowden, Palgrave, 2002, pp. 256-280; il recente volume di C. Venturoli, Storia di una bomba. Bologna 2 agosto 1980: la strage, i processi, la memoria, Castelvecchi, 2020.

[45] A. L. Tota, La città ferita cit., p. 19.

[46] Come di recente ha notato Anna Cento Bull, Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro hanno sempre strenuamente sostenuto la loro estraneità al coinvolgimento nella strage e hanno guadagnato anche una certa credibilità in alcuni settori politici e fra esperti e studiosi di vario orientamento. Su questo e sulle loro testimonianze, si veda A. Cento Bull, Italian Neofascism cit., p. 145 ss.

[47] Sulle vicende processuali, segnalo in particolare la recente pubblicazione di L. Grassi, La strage alla stazione in quaranta brevi capitoli, Clueb, 2020.

Trackback dal tuo sito.

Premio Morrione

Premio Morrione Finanzia la realizzazione di progetti di video inchieste su temi di cronaca nazionale e internazionale. Si rivolge a giovani giornalisti, free lance, studenti e volontari dell’informazione.

leggi

LaViaLibera

logo Un nuovo progetto editoriale e un bimestrale di Libera e Gruppo Abele, LaViaLibera eredita l'esperienza del mensile Narcomafie, fondato nel 1993 dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio.

Vai

Articolo 21

Articolo 21: giornalisti, giuristi, economisti che si propongono di promuovere il principio della libertà di manifestazione del pensiero (oggetto dell’Articolo 21 della Costituzione italiana da cui il nome).

Vai

I link