Saman e Seid con le loro storie e il loro sacrificio parlano a tutti noi
Le storie di Saman e di Seid Visin, nella loro diversità e particolarità, riescono a parlare a tutti noi che siamo cittadini di questo paese e appartenenti alla Comunità Europea.
Entrambe ci spingono ad allargare i nostri orizzonti mentali, a interrogarci su come questa nostra società affronta non solo il tema di persone straniere che arrivano qui da noi provenienti da altre culture, ma anche di come noi ci comportiamo di fronte a chi ha un colore della pelle diverso dal nostro.
Nel caso di Seid, la lettera che è stata pubblicata da molti giornali nei giorni scorsi, scritta molto tempo prima del suo suicidio, è quasi come un testamento spirituale che questo giovane ragazzo, bello, intelligente, fantasioso, talentuoso, cresciuto in una famiglia che tutti vorrebbero avere, ha lasciato per tutti noi.
Un messaggio che ci interroga su come dentro di noi, aldilà delle idee politiche, sia radicata la paura dell’altro, anche se questa persona vive con noi da anni, ha frequentato le nostre scuole, ha fatto sognare gli amanti del calcio, è cresciuto nel rispetto delle nostre leggi.
E’ la sensibilità a fare la differenza in questo caso, una sensibilità che in Seid si è sviluppata vivendo sulla propria “pelle” (è proprio il caso di dirlo) comportamenti superficiali di altri che l’hanno considerato non per ciò che è e sente, non per la sua storia, ma per il semplice fatto di avere un colore diverso.
E’ quel colore a fare la differenza, a creare un muro invalicabile, per cui si è per il colore che si ha.
Il razzismo si basa su questi fatti, sull’incapacità di andare oltre il proprio corto pensiero, di non vedere l’altro con la sua storia e i suoi valori e sull’ignoranza che attanaglia le persone.
Dunque Seid, che aveva lasciato il calcio perchè questo mondo non gli piaceva più ed aveva ripreso a studiare coltivando i suoi sogni, ci lascia questa lezione: non giudicate un altro per ciò che appare, ma abbiate il coraggio di andare oltre le apparenze, cercando ciò che è, attraverso la conoscenza della sua storia, i suoi sogni, le sue speranze.
Ma anche la tragica morte di Saman diventa per noi un testamento spirituale.
Nel suo caso quello che sorprende è l’incapacità di uno stato di essere vicino a chi, con culture diverse, arriva nel nostro paese.
Non per cambiare le loro idee e le loro tradizioni, ma per far conoscere che esistono altri modi di vivere e soprattutto che in questo paese ci sono regole da seguire, se qui si vuole vivere.
Tra queste sicuramente che nessuno può essere costretto in questa nazione a sposare chi non si vuole, e che la nostra personale capacità all’autodeterminazione vale più di qualunque rapporto di parentela e di religione.
In questo caso quindi il problema non è stata Saman, che anzi ha fatto proprio il desiderio di decidere della propria esistenza, ma la famiglia di Saman e le persone che vengono a vivere in un paese come se fossero ancora nel loro.
Qui è solo l’istruzione che può aiutare nel tempo, ad iniziare dall’obbligo della conoscenza della lingua che in un paese che vuole veramente fare integrazione, dovrebbe esserci.
Un obbligo che dovrebbe essere imposto dallo stato e per questo motivo essere un insegnamento a carico dello stato stesso.
Soprattutto il mondo femminile si avvarrebbe di questo insegnamento perchè la conoscenza della lingua del paese che le ospita (e dunque della conoscenza anche della sua storia, tradizione e cultura) porterebbe a una emancipazione che non vuol dire smettere di rispettare le loro tradizioni, ma capire che nel mondo ci sono altre visioni possibili, iniziare un percorso di rispetto e di apertura della propria mente.
In fondo la storia di Saman è la storia di un femminicidio, un fenomeno che non vede esenti dalla sua pratica noi occidentali (tanto più in Italia, dove è diventato un vero e proprio problema sociale).
Dipende da una visione patriarcale della vita dove l’uomo vede e vive la donna come proprietà, con tutto ciò che ne consegue. In Occidente, come in Africa, come in Oriente.
Solo che qui in Occidente le donne hanno raggiunto una consapevolezza molto più forte e proprio la conoscenza della lingua potrebbe aiutare anche le donne di altre culture in questo percorso di emancipazione.
Invece nel nostro paese, l’ignoranza soprattutto di una politica che non sa vedere oltre la lunghezza del proprio naso, ha prodotto ben altro.
Anziché percorrere la strada dello Ius Culturae per riconoscere ciò che è nella storia e nella realtà un semplice diritto di tanti ragazzi che vivono qui da anni, si sono invece creati migliaia di clandestini lungo le nostre città, privi o quasi di ogni forma di tutela, lasciati soli a se stessi, regalandoli al mondo del caporalato (quando va bene) se non della criminalità organizzata.
Così la storia di Saman e di Seid, nella loro diversità, parlano a tutti noi. Diventano un vero e proprio testamento per costruire un domani più umano.
Riguardano un nostro percorso personale che ci deve spingere ad uscire da ogni forma di superficialità che poi rischia di sfociare nel razzismo.
Ma aprono anche a un discorso collettivo e sociale per cui solo attraverso politiche di integrazione si può arrivare nel tempo a smettere di creare nuovi “schiavi” da un lato e favorire un’emancipazione sul fronte dei diritti personali che spesso non fanno parte ancora delle tradizioni di altri popoli.
Dobbiamo veramente chiedere perdono a Saman e Seid, ma soprattutto fare in modo che il loro sacrificio ci spinga a uscire dalle nostre paure e dalla nostra ignoranza personale e collettiva.
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