Bella ciao, l’emozione di sentire un operaio mentre canta, al lavoro, l’inno alla Resistenza
Otto del mattino. Un caffé come unica compagnia. La solita dose: la metà di una tazzina fatta a mano da un’amica, fortunata superstite di un servizio sterminato negli anni da mani frettolose.
Mentre lo sorseggio giunge una voce dall’esterno. “Una mattina, mi son svegliato…”. Non c’è dubbio, canta proprio così la voce sconosciuta. “O bella ciao, bella ciao…”.
Ma perché quei versi in musica alle otto del mattino di una giornata feriale? Non è data di cerimonie o di commemorazioni. Non sono previste manifestazioni. Eppure le parole sono esattamente e coerentemente quelle: “e ho trovato l’invasor”. Mi incuriosisco. Penso a qualcuno che forse vuole sondare le reazioni del vicinato, dalla strada o da qualche finestra dei palazzi di fronte. A una strofa spensierata in libera uscita. La voce però riprende. Ora è perfino tonante, si direbbe quasi da tenore. “O partigiano, portami via”…Sembra che le sappia tutte, le parole. Non dev’essere né uno squinternato né, data l’ora, un ubriaco.
Sapete com’è, in certe circostanze si è alla ricerca di voci amiche. Spinto dalla curiosità esco dunque con la mia tazzina sul balcone. Voglio vederlo, il tenore. Guardo in basso, nulla. Finestre e balconi dei palazzi vicini, ancora nulla. Sposto lo sguardo più in là, verso l’alto.
E finalmente ho davanti a me, a circa cento metri di distanza, l’ispirato e improvvisato interprete della più bella canzone di Resistenza al mondo. E’ un uomo alto, robusto. Porta una maglietta color verde pisello sotto una giacchetta di tela gialla antinebbia. Sta armeggiando su un balcone, ultimo piano di una casa di ringhiera in ristrutturazione. Sta in piedi, vicino a una scala a pioli. Oltre la scala, sul tetto, c’è una altra persona, mi sembra più giovane e con la pelle più scura, che lavora con lui e che mi sembra il suo aiutante. Maglietta sul granata e pantaloni corti, tiene sollevato un secchio di detriti.
E’ chiaro, sono due muratori che stanno eseguendo lavori finali senza più i ponteggi. Lui continua, come se traesse forza e gioia dal suo canto: “e tutti quelli che passeranno…”. Canta con orgoglio, intervallando le strofe con qualche breve disposizione di lavoro al compagno che lo ascolta.
Voi direte: e che c’è di eccezionale in tutto questo? Forse nulla. Ma voi avete mai sentito un muratore, un carpentiere, un cuoco, uno spazzino, un giardiniere, un garzone, cantare “Bella ciao” a squarciagola mentre lavorava? Lo confesso: a me sentirla cantare da un muratore durante le sue fatiche di polvere e di pesi ha regalato un’emozione strana.
Ho pensato che in fondo quella canzone ha preparato la Repubblica fondata sul lavoro. Ha dato dignità alle persone umili, magari venute da lontano, come mi è parso essere l’aiutante del tenore partigiano. Sono riandato anche a quando ero bambino e gli italiani cantavano per strada, a quando arrivava il festival di Sanremo e nei tinelli o nei salotti si approvavano le canzoni più orecchiabili dicendo “questa la canteranno i garzoni dei panettieri”, noti (allora) per fischiettare i loro motivi prediletti pedalando su una bicicletta. In un attimo “Bella ciao” mi riassume un po’ tutte queste conquiste e queste malinconie.
Naturalmente il signore che armeggia a cento metri da me non lo immagina nemmeno. Andando avanti e indietro tra le porte del ballatoio all’ultimo piano esprime solo il suo buon umore. Finché a un tratto si interrompe. Il ritornello si blocca. E arrivano altre parole, sempre con la stessa intensità: “Dice ch’era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare”.
Ancora qualcosa che sa di Resistenza. Questa volta le parole saltano, visibilmente il nostro tenore non le conosce tutte. Ma quelle che arrivano al mio balcone sono sufficienti a farmelo sentire amico.
Abbiamo qualche affinità profonda, amico sconosciuto. Ecco che cosa ti combinano un caffè, un muratore e un po’ di solitudine.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 07/06/2021
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