Custodia cautelare e ingiusta detenzione
L’entità degli indennizzi erogati nel nostro Paese in conseguenza dell’applicazione dell’istituto dell’ingiusta detenzione costituisce argomento che viene spesso sollevato nell’ambito del dibattito sui costi della giustizia e rappresenta un aspetto meritevole di idoneo approfondimento, intrecciandosi inevitabilmente alla delicata materia dell’uso e dell’abuso dell’istituto della custodia cautelare.
Trattandosi di un settore spesso misconosciuto dagli stessi operatori del diritto ne vanno rammentati in linea generale i tratti salienti.
L’istituto disciplinato dagli artt. 314 e segg. del codice di rito e di carattere indennitario e non risarcitorio prevede che-ricorrendone le condizioni di legge- sia corrisposto al soggetto, che dopo aver trascorso un periodo in stato di custodia cautelare venga assolto in via definitiva, la corresponsione di una somma.
Poiché l’entità massima prevista a titolo di indennizzo, ai sensi del secondo comma dell’art. 315 c.p.p., è quella di 516.456,90 euro, idoneo a coprire il massimo periodo di custodia cautelare fissato in via ordinaria in sei anni, in linea generale si prevede che la somma spettante per ogni giorno di detenzione sia di 235,82 euro (risultante dalla divisione della somma massima di liquidazione indicata per il numero di giorni compresi nei sei anni) e della metà (117,91 euro) per ogni giorno trascorso agli arresti domiciliari.
Le somme indicate, ritenute idonee ad indennizzo relativo alle conseguenze inevitabilmente connesse alla detenzione, possono essere integrate secondo criterio equitativo, con riferimento alla specificità dei singoli casi ed alla presenza di profili che debbano reputarsi ultronei rispetto a quelli inevitabilmente derivanti dall’avvenuta limitazione della libertà personale (particolare rilievo assumono aspetti concernenti significative conseguenze sul piano della salute fisica e mentale, della reputazione del soggetto, delle ripercussioni anche successive sul suo status lavorativo ed economico).
Tanto premesso, i dati più recenti, relativi all’anno 2020, indicano in complessi in complessivi 750 i procedimenti per i quali vi è stato accoglimento delle istanze di ingiusta detenzione, con una liquidazione complessiva che ha sfiorato i 37 milioni di euro.
In tale ambito si è sottolineato come le sole Corti d’Appello di Bari, Catanzaro, Palermo, Roma e Reggio Calabria abbiano da sole liquidato somme per quasi 27 milioni di euro e che la Corte con l’esborso maggiore di somme risulta essere quella di Reggio Calabria che ha liquidato nell’anno 2020 quasi 8 milioni di euro.
Ora, a prescindere dal rilievo che una corretta lettura del dato implicherebbe la verifica del rapporto tra l’entità degli esborsi ed il numero dei procedimenti trattati nel periodo, non può tuttavia sfuggire la considerazione che le sedi che risultano liquidare le somme più alte siano proprio quelle nelle quali si celebra un numero rilevante di maxiprocessi di criminalità organizzata relativi in particolare a contestazione di natura associativa, nell’ambito dei quali spesso si registra un gap significativo tra il numero dei soggetti attinti da misura cautelare e quello di coloro che vengono condannati con sentenza definitiva.
Va ricordato che si tratta di procedimenti che, per il numero degli imputati, la mole delle contestazioni, la complessità dell’attività istruttoria che li accompagna, si protraggono spesso per diversi anni e non è raro che si arrivi all’assoluzione ed alla conseguente scarcerazione del soggetto solo dopo che la Cassazione ha pronunciato sentenza di annullamento con rinvio ed il giudice di merito si sia adeguato al principio di diritto enunciato dai giudici di legittimità.
La scarcerazione al termine dell’intero iter processuale non implica peraltro sempre, come si potrebbe pensare, che in sede cautelare l’impianto accusatorio abbia trovato comunque piena conferma nei vari gradi di giudizio. Non è infrequente, infatti, l’ipotesi che l’annullamento con rinvio da parte della Suprema Corte di provvedimento del Tribunale del riesame che abbia confermato l’ordinanza restrittiva arrivi a distanza considerevole di tempo ed il giudizio di rinvio cautelare debba prendere atto che il procedimento di cognizione si è concluso in primo grado con la condanna dell’imputato, circostanza che implica necessariamente il riconoscimento della gravità indiziaria richiesta per il mantenimento della misura cautelare.
Va da sé che in caso di permanenza del soggetto in vinculis fino al termine di un lunghissimo iter processuale che alla fine ne sancirà l’assoluzione, la circostanza comporta -in caso di ravvisabilità dei presupposti per l’accoglimento dell’istanza di ingiusta detenzione (l’assenza di condotte del soggetto connotate da dolo o colpa grave in sede extraprocessuale e/o processuale)- la liquidazione di somme pari a diverse centinaia di migliaia di euro.
Allorquando, per esempio, ci si trovi al cospetto di soggetti dei quali viene messa in discussione l’originaria identificazione o siano raggiunti esclusivamente da intercettazioni tra terzi o dichiarazioni di collaboratori di giustizia poi ritenute non idonee a supportare una sentenza di condanna (situazioni assai frequenti in processi di criminalità organizzata), l’esito di istanze successive di ingiusta detenzione da parte di soggetto assolto e che abbia per di più respinto gli addebiti in sede di interrogatorio di garanzia, magari fornendo tesi alternative o spunti investigativi non coltivati e poi ritenuti fondati, non potrà che determinare l’accoglimento dell’istanza e la liquidazione della somma dovuta.
Ora, la custodia cautelare costituisce di per sé una extrema ratio, uno strumento da utilizzare con estrema prudenza, incidendo sulla libertà personale di soggetti non colpevoli fino alla sentenza definitiva secondo il dettato costituzionale ed essendo dovere prioritario di chi esercita la giurisdizione evitare che (pur partendo dalle intenzioni più nobili) si possa perseguire ingiustamente un innocente e cagionargli conseguenze devastanti, ben maggiori-in tal caso- delle somme che si potranno eventualmente percepire successivamente a titolo di ingiusta detenzione.
Ma ricorrere alla custodia cautelare in situazioni non adeguatamente assistite da un impianto probatorio idoneo comporta conseguenze ulteriori che paradossalmente spesso trasformano la momentanea soddisfazione dell’operazione investigativa nei confronti di soggetti gravitanti in circuiti criminali in esiti del tutto opposti, venendo a determinarsi il meccanismo noto come eterogenesi dei fini.
Non è raro, infatti, il caso che si proceda con misure coercitive a carico di individui spesso ritenuti dagli inquirenti in posizioni di spicco nell’ambito delle organizzazioni criminali, a fronte di elementi probatoriamente fragili o non univoci, destinati a sfaldarsi nel corso del procedimento, magari dinanzi ai giudici di appello o a quelli di legittimità.
In questi casi le conseguenze saranno:
1) L’assoluzione del soggetto all’esito del processo penale con l’accrescimento del prestigio personale e la sensazione di invincibilità nell’ambiente di riferimento;
2) L’impossibilità di procedere in futuro per lo stesso fatto, laddove emergessero successivamente nuovi e più significativi elementi a suo carico, come invece avverrebbe nel caso di archiviazione;
3) La percezione di una cospicua somma di denaro a titolo di ingiusta detenzione, ove non emergano dalla condotta dello stesso elementi che possano avere contribuito all’adozione ed al mantenimento nei suoi confronti di provvedimento restrittivo;
4) La conseguente disponibilità di liquidità non soggetta, proprio per la provenienza lecita, a provvedimenti di sequestro e confisca patrimoniale, da investire in ulteriori attività, finanziate, dunque, dalle somme erogate dallo Stato.
La riflessione che ne deriva è ancora una volta quella relativa alla amplificazione della fase delle indagini preliminari, con le conseguenze che da ciò scaturiscono.
L’introduzione nel nostro Paese di un modello di tipo tendenzialmente accusatorio portava con sé proprio la caratteristica di conferire massima centralità alla fase del dibattimento in cui la prova si forma nel contraddittorio tra le parti, superando il precedente modello caratterizzato dall’acquisizione delle prove formate nella fase delle indagini.
Si è al contrario affermato di fatto nel tempo un meccanismo in cui il momento centrale per l’opinione pubblica e, purtroppo, spesso anche per chi dirige le indagini, diventa proprio quella dell’inchiesta, della fase cautelare, dell’esecuzione dei provvedimenti restrittivi.
Non è questa la sede per analizzare nel dettaglio le ragioni per le quali ciò è avvenuto (l’impegno, certamente meritorio, di uffici di Procura e forze di polizia nell’opera di contrasto alla criminalità organizzata, finalizzato anche a svelare gli scenari oscuri e gli intrecci perversi con settori importanti della società, delle istituzioni, dell’economia; il ruolo svolto in tali dinamiche dalla stampa, spesso diretto ad esaltare e pubblicizzare al massimo ogni inchiesta giudiziaria; la constatata inadeguatezza dell’azione politica volta a contrastare tali fenomeni; la dilatazione dei tempi di celebrazione dei processi), fatto sta che si è verificato un clamoroso rovesciamento di prospettiva come se, acquisita la verità dei fatti e delle responsabilità nella fase delle indagini, tale certezza storica debba essere necessariamente recepita nel processo, magari constatando con scalpore che in qualche caso le decisioni del giudice non siano state pienamente (o per nulla) conformi alle richieste dell’accusa.
Eppure non va mai dimenticato che la partita decisiva si gioca nel contraddittorio pieno fra le parti processuali e che gli elementi idonei all’emissione di una misura restrittiva non lo sono automaticamente per una pronuncia di condanna.
Ed allora, anche con riferimento alla problematica concernente la materia dell’ingiusta detenzione ed alle pesanti conseguenze ad essa riconnesse è indispensabile avere un approccio al tema della custodia cautelare che sia capace di guardare in prospettiva agli esiti del procedimento ed alle sue concrete probabilità di successo nelle fasi di merito e di legittimità, ricordando che pure in materia di contrasto alla criminalità organizzata lo scopo principale non è quello di raccogliere il risultato momentaneo dell’applicazione della misura cautelare, ma quello di arrivare-alla fine del processo- ad una pronuncia definitiva di responsabilità accertata oltre ogni ragionevole dubbio.
Riacquisire piena consapevolezza di questo aspetto e rinunciare a tentazioni autoreferenziali che a volte affiorano indurrebbe a confrontarsi in modo stringente con l’esigenza di un giudizio prognostico sull’esito del procedimento, inducendo –ove ve ne sia spazio- a colmare le lacune riscontrabili o a prendere atto realisticamente della fragilità dell’impianto probatorio, riducendo anche i costi umani e sociali del fenomeno della custodia cautelare in precedenza descritti.
* Presidente della Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria
Fonte: Questione Giustizia
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