Qualche considerazione sulla recente pronuncia della Corte costituzionale in materia di “ergastolo ostativo”
Un giudizio sull’ordinanza 97/2021 della Corte costituzionale che mette in luce, oltre ai profili positivi, alcuni rischi. Uno più di tutti: quello di far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta.
L’ergastolo ostativo non è un elemento di contorno dell’armamentario repressivo: lo sperimentano sulla pelle 1259 su 1779 condannati alla pena perpetua. È un aspetto concreto e arcigno della penalità penitenziaria, in irrimediabile tensione con il volto costituzionale della pena. Lo riconosce con parole nette l’ordinanza 97/2021 della Corte costituzionale: l’incostituzionalità non è dichiarata, ma prospettata, e la parola torna ora al legislatore, secondo la tecnica inaugurata dalla Corte, sia pure con qualche rilevante diversità, con il “caso Cappato”. Questa Rivista seguirà con attenzione, a partire da oggi, il dibattito che di qui a maggio 2022 si aprirà nella politica, nella cultura e nella giurisdizione. Iniziamo con una valutazione dell’ordinanza affidata a un pubblico ministero – la materia non deve essere terreno esclusivo di penitenziaristi e costituzionalisti –, che esprime posizioni scomode e illustra la sua critica alla collaborazione quale unica via per il ravvedimento. Domani sarà la volta di un approfondito commento di un esperto magistrato di sorveglianza.
La discussione è aperta.
La Redazione di Questione Giustizia
L’11 maggio 2021 sono state depositate le motivazioni dell’ordinanza n. 97/2021 con la quale la Corte costituzionale si è pronunciata sull’annosa questione della legittimità costituzionale del così detto “ergastolo ostativo”, nozione coniata dalla dottrina (cui peraltro il legislatore non fa mai testuale riferimento) per indicare la disciplina dettata dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, elaborata nei primi anni ’90 nel contesto di quella “legislazione di emergenza” che rappresentò la risposta dell’ordinamento alle stragi di mafia e, prima ancora, del terrorismo che avevano insanguinato il paese.
Si tratta di una normativa che prevede una serie di limitazioni alla concessione di benefici (quali l’accesso al lavoro esterno, ai permessi premio, alla semilibertà, alle misure alternative alla detenzione e, da ultimo, alla liberazione condizionale) per i detenuti condannati all’ergastolo per delitti commessi con metodo o finalità mafiose, salvo che il detenuto non abbia collaborato con la giustizia; un regime dunque che – in una logica squisitamente “neoretribuzionistica” e dunque abdicando integralmente alla nozione “polifunzionale” della pena sancita dalla nostra Costituzione – ha delineato un sistema mirante all’annientamento di un presunto “nemico”, e bandito qualsivoglia prospettiva di un suo reinserimento nella società civile, lasciandogli come unica via d’uscita la “scelta” imposta di collaborare con la giustizia.
Ebbene, tale sistema è stato definitivamente scardinato dalla recente pronuncia della Corte costituzionale del 15 aprile scorso con la quale la Consulta (occupandosi specificamente della concessione del beneficio della liberazione condizionale) – sulla base di alcuni punti cardine fissati da alcune precedenti sentenze della stessa Corte costituzionale e della CEDU – sembra aver definitivamente eliminato il sopra richiamato automatismo della presunzione assoluta di pericolosità sociale fissata dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, riaffermando, anche rispetto ai detenuti condannati all’ergastolo per i delitti di mafia e di terrorismo, il fondamentale principio della polifunzionalità della pena, e in particolare la funzione rieducativa della pena stessa sancita dal 3 comma dell’articolo 27 della Costituzione, passando, tuttavia – con una tecnica che, a mio avviso, non può che suscitare qualche perplessità – il “testimone” al legislatore ordinario che dovrà, entro il termine di un anno, approntare una riforma che sia coerente con i principi affermati dalla Consulta.
Ebbene, non è certo semplice affrontare un tema così delicato e, da anni, così dibattuto a tutti i livelli. Qualcuno ha ricordato che il paradosso del carcere è che, contestualmente alla sua nascita, nascevano anche le prime proposte di riforma del carcere. E su questo tema, e su quello più specifico dell’ergastolo “ostativo”, si sono recentemente pronunciati autorevoli colleghi ed ex colleghi come il Consigliere Di Matteo e il Procuratore Caselli, ma anche autorevoli esponenti della società civile ed altrettanto eminenti teologi come Monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti, intervenuto da ultimo su un tema ugualmente delicato, e connesso a quello di cui si è occupata la Corte costituzionale, quale il così detto “ergastolo bianco”. Ma soprattutto non è facile parlarne in un paese come il nostro nel quale la criminalità organizzata e, prima ancora, la criminalità terroristica hanno provato a scalfire gli stessi cardini istituzionali dello Stato, ricorrendo sovente a tecniche stragiste.
Detto ciò, devo dire che, per quanto mi riguarda, la disciplina dell’ergastolo ostativo di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario mi ha lasciato da sempre non poco perplesso. E ho già detto che qualche perplessità mi viene anche dalla pronuncia della Corte costituzionale dello scorso aprile, sia per la tecnica utilizzata del rinvio al legislatore sia per alcune indicazioni che la stessa Consulta, tra le righe, sembra dare sulla scelta dei parametri e dei criteri cui dovrà essere ancorata l’abolizione della preclusione alla concessione della libertà condizionale (mi riferisco in particolare al passo nel quale il Giudice delle Leggi suggerisce che il legislatore potrebbe fissare, tra le condizioni cui subordinare la concessione dei benefici, anche la sussistenza o l’accertamento di “specifiche ragioni della mancata collaborazione” da parte del detenuto condannato all’ergastolo per i delitti sopra indicati).
Ho solo avuto – per ragioni anagrafiche – la possibilità di ascoltare e di leggere nei media alcuni interventi di Giovanni Falcone, acuto e tenace investigatore, unico e moderno, e mi è parso in tutta franchezza culturalmente ed ideologicamente lontano da alcune delle più che rispettabili posizioni che capita in questi giorni di leggere sui giornali. Mi auguro tuttavia di non essere tacciato e additato come uno che non rispetta la memoria di Giovanni Falcone e degli altri “eroi” che hanno immolato la loro vita per contrastare mafia e terrorismo, se dico e sostengo in modo convinto che – anche al di là del tema, per certi versi trascendentale, del “fine pena mai” – l’aspetto più odioso della disciplina ostativa dell’ordinamento penitenziario è proprio quello di aver subordinato la concessione di benefici (e il venir meno della presunzione assoluta di pericolosità) alla collaborazione, e quindi ad una condotta delatoria del detenuto. Ciò che giustifica pienamente il sospetto che si tratti in realtà di un regime che vuole punire chi non “si pente” o, peggio ancora, di una sorta di tortura intesa a favorire la “collaborazione”, e ciò perché per “pentimento” nella nostra prassi giudiziaria non si intende affatto quel travaglio morale che porta ad una revisione critica del proprio passato e di conseguenza ad un autentico ravvedimento con la conseguente decisione di cambiare vita. No, significa solo confessione e, soprattutto, delazione. Insomma, proprio la finalità tipica che si propone la tortura.
Peraltro, a tale riguardo, il numero elevatissimo di “pentiti” fa sorgere il sospetto che, in certi ambienti di criminalità organizzata, sia diventata prassi “ordinaria” quella di commettere reati gravissimi e poi, una volta beccati, “pentirsi” e godere dei sontuosi benefici legati alla collaborazione, primo tra tutti il venir meno delle preclusioni di cui all’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Anche qui, e senza alcuna considerazione di ordine morale, i critici del sistema parlano di una misura criminogena che, paradossalmente, favorisce il crimine, offrendo una prospettiva – il “pentimento” – ai più efferati assassini, messi nella condizione di delinquere senza dover subire conseguenze irrimediabili. Addirittura, c’è chi si spinge ad affermare che, in vista del “pentimento”, conviene ai criminali moltiplicare i propri reati, per avere più cose da “rivelare” e, dunque, accrescere la “rilevanza del contributo all’accertamento della verità”, cui sono commisurati i benefici di legge.
In tale ottica sarebbe altrettanto impellente una riforma seria che argini in qualche modo la tendenza delle Procure Distrettuali Antimafia ad imbarcare decine e decine di collaboratori di giustizia che, almeno in alcuni casi, si prendono gioco della stessa Autorità Giudiziaria, e non solo – purtroppo – del Pubblico Ministero, ma anche del Giudice. Con ciò non voglio affatto negare il fondamentale e decisivo apporto fornito da molti collaboratori “seri” nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata. Dico solo che, in sintonia con quella che era la originaria prospettiva dei “padri” della legge sui pentiti, occorre maggiore vigilanza da parte del PM, occorre evitare che – tra “pentito e Pubblico Ministero – si crei una sorta di “sindrome di Stoccolma” rovesciata, e che di veri Giudici non ce ne sia soltanto uno, e per giunta a Berlino, ma se ne riempiano i Tribunali della penisola.
Ribadisco dunque che non mi soddisfa pienamente la motivazione della recente pronuncia della Corte costituzionale. In primo luogo, mi sembra infatti discutibile, se non singolare, che debba continuare ad applicarsi, almeno per un anno, una norma dichiarata incostituzionale. Si tratta di un effetto che – con buona pace della comprensibile esigenza di bilanciare e di contemperare il principio affermato dalla pronuncia in questione con le esigenze securitarie di tutela della collettività – a me pare in evidente contrasto con i principi cardine del nostro ordinamento, e in particolare con i principi fondamentali affermati dall’articolo 25 della Costituzione e dall’articolo 2 del codice penale; sul punto non appare superfluo rammentare che “delle pene” si è occupato il legislatore nel titolo III del primo libro del codice penale (sostanziale).
Inoltre – e anche qui mi ripeto – appare altrettanto insidioso il riferimento fatto dalla Consulta anche alla necessità che sussistano e che vengano accertate “specifiche ragioni della mancata collaborazione” da parte del detenuto condannato all’ergastolo, individuandolo quale parametro da utilizzarsi per la concessione di taluni benefici, ivi compresa la liberazione condizionale. Al riguardo, infatti, vi è il concretissimo rischio che, in sede legislativa, si faccia rientrare dalla finestra ciò che si è provato a fare uscire dalla porta. Alla fine della giostra, potrebbe risultare ribadito il discutibile rapporto di scambio tra la concessione di benefici e la “scelta” di delazione imposta al detenuto ergastolano.
Per evitare tale risultato paradossale, il legislatore del rinvio dovrà – almeno a mio modesto avviso – oltremodo valorizzare, come fondamentale parametro da utilizzare ai fini di tale delibazione, l’aspetto rappresentato dal tempo trascorso in espiazione della pena. Come anche la Corte Costituzionale ha avuto modo di osservare in passato, il trascorrere del tempo modifica qualsiasi cosa, purtroppo o per fortuna, da tutti i punti di vista; in oltre un quarto di secolo tutto cambia, dalla natura e dal vissuto del condannato, fino alle dinamiche e agli equilibri criminali. E’ evidente che, trattandosi di detenuti condannati alla pena dell’ergastolo per reati gravissimi, occorre necessariamente che il passare del tempo si accompagni ad un conclamato percorso di ravvedimento e di autentica dissociazione dall’originario contesto criminale, emblematico, dunque, dell’autentica volontà del detenuto di reinserirsi nella società, magari nella prospettiva di poter svolgere il “mestiere” che, in tanti anni, ha avuto la possibilità di apprendere in carcere. Ma un tale percorso non ha nulla a che vedere con la “delazione” che spesso, come si diceva, è sintomatica di tutto, tranne che di autentico ravvedimento. E’ altrettanto innegabile che il vaglio critico di un simile percorso richieda un’attenta e scrupolosa analisi, passo dopo passo da parte della magistratura di Sorveglianza, dei progressi compiuti dal detenuto e, prima ancora, la realizzazione di un apparato penitenziario non solo decente ma adeguato, esigenza sacrosanta per un qualsiasi paese civile, non potendosi certamente far ricadere sui detenuti le conseguenze dell’inadeguatezza di un sistema carcerario come il nostro che, da anni, ci costa bocciature e bacchettate anche dall’Europa.
A proposito di Europa, chi sa se una piccola parte dei soldi che arriveranno coi programmi del Recovery Fund non possa essere spesa, invece che in sussidi vari, per migliorare il sistema carcerario e dunque le condizioni di vita dei sessantamila e più esseri umani detenuti.
* Sostituto procuratore presso la procura della Repubblica di Napoli
Fonte: Questione Giustizia
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