Nel contributo sul tema del linguaggio giudiziario e la comunicazione istituzionale, Gianni Canzio, Primo Presidente emerito della Corte di Cassazione, ha evidenziato i pericoli insiti nella comunicazione dei media.
Oggi Giustizia Insieme affronta quest’argomento con la giornalista Rosaria Capacchione, firma eccellente di una sapiente cronaca giudiziaria che ha raccontato senza remore i fenomeni camorristici, dal 1985 al 31 marzo 2018 per Il Mattino di Napoli a Caserta e Napoli, ed oggi per la testata Fanpage.it. Senatrice della Repubblica, Segretario della Commissione permanente della Giustizia e Componente della Commissione d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali; autrice di libri di successo che hanno valicato i confini del paese; destinataria dei più preziosi riconoscimenti per il suo straordinario impegno civico, oggi, da intervistata, regala a Giustizia Insieme il suo interessante punto di vista sull’etica della cronaca giudiziaria. L’intervista a Rosaria Capacchione è di Maria Cristina Amoroso.
Cosa dobbiamo intendere per cronaca giudiziaria?
La mia carriera è iniziata in un momento in cui nel mondo della comunicazione vi era una separazione organizzativa tra la cronaca nera e la cronaca giudiziaria. La prima era costituita dalla narrazione del fatto, spesso concentrata sul lato più morboso dello stesso, la seconda dal reportage meramente tecnico di quanto emergeva dal processo e, pertanto, non particolarmente ricca di contenuti, essendo spesso limitata al riferimento ad avvenuti arresti, all’esistenza di misure cautelari e, soprattutto, alle pene di volta in volta irrogate.
In questo peculiare contesto, cercai di fare in modo che i miei primi passi nel mondo del giornalismo, per quanto novizi e quindi poco incisivi a confronto di colleghi più noti, presentassero un tratto distintivo.
Decisi, quindi, di affiancare alla narrazione tecnica quella del fatto, fondendo le due forme di comunicazione e, di fatto, attribuendo al concetto di cronaca giudiziaria un diverso contenuto raccontando non solo il processo ma anche la narrazione di ciò che avveniva “oltre”, sia all’interno dello stesso, nel “backstage” dell’aula di tribunale, sia al di fuori, nella società civile, particolarmente ricca di ricordi diretti e parole riferite.
La cronaca giudiziaria per così dire tradizionale è stata, a suo avviso, totalmente superata?
Io ho deciso di non far coincidere il contenuto della cronaca giudiziaria solo con il contenuto del processo, che è solo un frammento della narrazione del fatto che, tra l’altro, non necessariamente coincide con la realtà storica.
È molto interessante la prospettiva del processo come narrazione non meramente tecnica, ci approfondisce questo concetto?
Il processo è il rituale ma non solo. È la celebrazione solenne, ma è anche il testimone che prima di entrare in aula ti racconta qualcosa d’interesse, o la vittima che piange, o qualcuno che viene accompagnato da chi, in maniera assillante, gli ripete cosa deve dire, è l’avvocato che guarda in un certo modo il cliente che sta per dare una risposta cruciale. Tutte queste cose, che chiaramente il giudice non vede, unitamente al racconto raccolto da e tra il popolo, sono preziose tessere di un puzzle che solo l’occhio esterno del giornalista può compiutamente comporre.
Ma questa è la mia posizione, per altri la cronaca giudiziaria è ancora intesa in senso meno esteso per una serie di ragioni molto complesse.
Approfondiamo queste ragioni…
Dovendo limitarmi per evidenti ragioni, in questa sede, a selezionare solo alcune delle molteplici cause, soprattutto due fattori, uno nuovo ed uno vecchio, hanno, a mio avviso, snaturato e snaturano ancora la cronaca giudiziaria. Iniziando dal fattore “nuovo”, molto limitante, è stato, a mio avviso, l’eccessivo ed acritico interesse per le intercettazioni. Per anni non ho avuto alcuna necessità di andare in procura; i miei contatti erano limitati alla polizia giudiziaria e al giudice, evidenti e utili centri di conoscenza ove transitavano misure cautelari e altre informazioni.
Dopo Tangentopoli la caccia ai verbali ha decretato la fine del nostro mestiere, perché affidando al “bianco e nero” il racconto abbiamo barattato il nostro ricco punto di vista con quello che è per definizione solo un frammento della storia il cui contenuto, quando non assolutamente inutile, è comunque difficile da cogliere perché decontestualizzato. Questo è stato, a mio avviso il primo fattore che ha determinato anche una crisi del nostro mestiere chiaramente inteso nell’accezione a me più cara.
In questa prospettiva la riforma delle intercettazioni le è sembrata una giusta soluzione?
A me è sembrata una sconfitta, la necessità di ricorrere ad una legge per far sì che i magistrati non inseriscano nei provvedimenti verbali di intercettazioni non utili e per evitarne la pubblicazione da parte di noi giornalisti, rivela con drammatica chiarezza quanto ci siamo allontanati dal senso dei nostri rispettivi mestieri e dal rispetto dei relativi codici deontologici.
Così come sa di sconfitta l’aver dovuto prevedere delle sanzioni per reprimere comportamenti che non ci dovrebbero appartenere.
Ha parlato di due fattori, uno che Lei ha definito “nuovo” costituito dalle intercettazioni, e il “vecchio” qual è?
Più che vecchio è un fattore senza tempo, una vera e propria costante della cronaca giudiziaria ed è il costo della verità. Andare “oltre” il processo costa, costa in termini economici, soprattutto nelle inchieste in cui ci si scontra con il potere. Solo la gestione economica di una difesa in giudizio rischia di divenire un prezzo insostenibile anche in caso di vittoria giudiziale, un costo che proprio le testate medio piccole, che dovrebbero svolgere il compito di raccontare le realtà locali, non possono sostenere.
La cronaca giudiziaria “difensiva” quindi si autocensura e si rinchiude in una tutelante coincidenza con il processo, quando va bene.
Tutto questo condiziona fortemente l’effettività di una democrazia che si fonda sulla libertà di espressione, poiché è evidente che in un sistema così strutturato, più cresce la possibilità che il giornalista sia responsabile di danni economici, più la sua autonomia è legata, non più e non tanto al colore ma alla ricchezza dell’editore.
Come può influire, a suo avviso, il legislatore sulla modalità di fare cronaca giudiziaria?
Può farlo direttamente prevedendo disposizioni che, di fatto, costituiscono le forme velate di dissuasione cui ho già fatto cenno: prevedendo norme sulla responsabilità dei giornalisti, attribuendo ad alcune condotte rilievo penale, e può farlo anche indirettamente, dando al processo una struttura che impedisce la narrazione di una verità più ampia.
Si pensi ad esempio a quanto è accaduto durante la pandemia. Lo svolgimento dei processi per via telematica senza la previsione di una facoltà per la stampa di collegarsi, sia pur da remoto, per assistervi ha determinato la celebrazione “occulta” di moltissime cause di rilevante interesse pubblico e ha impedito quella narrazione che io sento come necessaria. Noi giornalisti ci siamo dovuti confrontare con questa formula che, di fatto, ci ha estromesso silenziosamente consegnandoci un processo inaccessibile ed ibrido – perché né cartolare né pubblico – che non ci ha consentito, con lo strumento del racconto, di adempiere alla funzione di controllo dell’esercizio del potere giudiziario.
Quanto i tempi di durata del processo influiscono sul modo di fare cronaca giudiziaria?
Un processo che dura tanto non può essere narrato e quindi, per questo verso, controllato. Si può controllare l’estrinseco, ovvero riferire dei lunghi rinvii, della mancata e ripetuta trattazione, ma si perde il controllo sul fatto, sulla gravità dello stesso perché se il suo accertamento vien diluito troppo nel tempo fisiologicamente l’attenzione giornalistica cala e soprattutto per vicende che invece meriterebbero sempre i riflettori accesi, il buio non giova, a tutti i livelli.
Quali processi vengono narrati dalla cronaca giudiziaria?
Per come la intendo io, la scelta su cosa raccontare è totalmente svincolata dalle categorie giuridiche. Non è detto che la cronaca giudiziaria racconti solo di reati.
La prospettiva giornalistica è, a mio avviso, differente da quella degli operatori della giustizia perché non deve tenere conto degli effetti penali della condotta, ma dell’interesse pubblico alla narrazione di un fatto.
Da questo punto di vista ci sono fatti di reato inenarrabili: un processo avente ad oggetto una grande evasione fiscale, a meno che non sia stata commessa da un personaggio pubblico, solitamente non si racconta perché si tradurrebbe in una mera elencazione di numeri. Si racconta il fatto di sangue, il crimine efferato, ma si racconta soprattutto il non reato, che tuttavia riveste interesse perché consente all’opinione pubblica di comprender persone e sistemi, a prescindere dalla loro responsabilità penale. Spesso una delle rettifiche che pubblichiamo consiste nel chiarimento del soggetto coinvolto di non essere indagato, quando l’editore mi consente due righe di replica, in maniera standardizzata, evidenzio che il dato non toglie interesse alla comunicazione che lo riguarda.
Da esperta di comunicazione come giudica la comunicazione istituzionale del mondo giustizia?
Distinguerei due livelli. La comunicazione che avviene tramite i provvedimenti e la comunicazione istituzionale.
Sovente la comunicazione effettuata “in nome del popolo italiano” è ostica e difficilmente comprensibile. In questo caso, il ruolo del giornalista è di fare da medium per restituire al lettore una coincidenza intellegibile tra significante e significato. E in presenza di una decisione non chiara è possibile avere quale medium un giornalista che si informa sul contenuto in maniera approfondita o uno che, al contrario, non cogliendo il senso del provvedimento offre una informazione non del tutto corretta.
Quanto alla comunicazione istituzionale io vorrei chiarire che per quanto chiara nella forma e completa nella sostanza non è la comunicazione che a me serve per fare cronaca giudiziaria, o meglio, non è la comunicazione che mi consente, da sola, di fare una buona cronaca giudiziaria.
Scendendo nel concreto, il comunicato stampa, ad esempio, può essere considerato una forma idonea di informazione dal punto dell’ufficio perché un punto di vista parziale sul quale il giornalista non deve assolutamente appiattirsi, in primo luogo perché la verità può coincidere o meno con la verità processuale del comunicato stampa, e poi perché non è detto che l’interesse pubblico coincida con il contenuto della voce ufficiale dell’ufficio, perché potrebbe invece riguardare fatti e persone non menzionate nel comunicato.
Quale tra le comunicazioni provenienti dalla giustizia non le piace?
Non mi piace la comunicazione di potere, la conferenza stampa indetta per affermare la superiorità di un ufficio su un altro o sulla polizia giudiziaria.
E quale narrazione della giustizia non le piace?
Non mi piace quando noi giornalisti diventiamo uno strumento e ci prestiamo a raccontare solo una parte del tutto, presentandola come la verità assoluta. Perché ciò non accada bisogna mantenere integra la tensione ad offrire al lettore tutte le notizie, tutte le versioni fornite, in maniera ufficiale o ufficiosa, e sottoporre prima a verifica e poi a critica ciò che viene veicolato. Il mio monito per i colleghi più giovani è di chiedere, informarsi, verificare in maniera ossessiva e solo dopo chiedersi se vi è un interesse pubblico a diffondere una notizia data da una sola delle parti ed interrogarsi sul se e su come farlo.
Le è capitato di essere stata strumento di qualcuno?
Consapevolmente no, perché in maniera caparbia ho sempre valutato in maniera autonoma tutto ciò che mi è stato consegnato dalle fonti.
Le fonti dell’informazione giudiziaria non sono mai cambiate, la notizia la dà chi ce l’ha. Ed allora ciò che conta è mantenere autorevolezza con le fonti, così che sia già chiaro, prima di ogni tentativo, che io, per stile, modo di fare, scelte, non sarò certo lo strumento che cercano. E questo discorso vale nei confronti di tutti. Non bisogna divenire la voce della Procura così come non bisogna divenire il megafono della difesa. E per fare ciò bisogna non valicare i limiti di ciò che è possibile fare, per non dover essere “costretti a ricambiare il favore” e bisogna mantenere quale fede incrollabile l’obiettivo di raccontare il tutto e non solo un frammento dell’accaduto.
Come vive i limiti stabiliti per la comunicazione da parte dei magistrati? Come influenzano il suo lavoro?
Su questo bisogna intenderci e non essere ipocriti. Se è vero, ad esempio, che negli uffici di procura la comunicazione ufficiale è del Procuratore, è altrettanto vero che per piccoli chiarimenti o dettagli su cose di interesse pubblico nessun pubblico ministero mi ha mai invitato a lasciare il suo ufficio.
Quanto è stato difficile essere una cronista giudiziaria, nel senso che le è proprio in terra di camorra?
Fare la cronaca giudiziaria è stato facilissimo. Mi sono concentrata sull’aspetto umano di personaggi anche molto malvagi. La mia naturale vocazione a capire e verificare mi ha portato ad approfondire aspetti che per gli altri giornalisti non meritavano attenzione e così piano piano i miei racconti erano più dettagliati e completi, e offrivano anche a chi indagava spunti inediti. Voler conoscere anche al di là di ciò che accadeva nelle aule di giustizia per me è stato naturale, subire le conseguenze di questa narrazione inedita, e proprio per questo scomoda, è stato chiaramente la parte più complicata.
Lei vive sotto scorta ormai da molti anni, cosa significa per Lei?
Significa rinunciare a fare molte cose. Leggerezze che non mi apparterranno mai più, e non è facile.
Significa però anche sicurezza e rapporti e relazioni umane molto importanti.
Carta stampata e giornalismo televisivo, come cambia la cronaca giudiziaria?
La carta stampata è stata sempre il mio mondo e sempre lo sarà.
La cronaca giudiziaria, come la intendo io, è lontana dalla comunicazione televisiva, salvo la narrazione fatta di telecamera fissa e qualche commento tecnico finale di “un giorno in pretura” non apprezzo altro.
I programmi spesso diventano l’atecnico luogo di celebrazione di un processo alternativo privato della sua storia, e pertanto una narrazione monca che, inaccettabilmente, spesso non ha alcun contatto con le carte.
Lei è stata Senatrice della Repubblica, come questa esperienza ha influito sulla sua comunicazione dei meccanismi del potere legislativo?
Sicuramente dall’interno si capiscono meglio gli schemi di funzionamento di una macchina burocratica estremamente complessa altrimenti davvero difficile da raccontare. Stando in Senato ho visto le cause degli effetti di cui discorrevo nella mia vita antecedente l’esperienza politica.
Quanto al contatto con il potere posso dire che il potere che ho raccontato era più definito del potere che ho visto, dall’interno si percepisce soprattutto un magma indefinito, il potere si sente ma non si vede, nei miei racconti era sicuramente molto più delineato di come l’ho percepito nelle sedi che gli sono proprie.
Un’ultima domanda: Lei che per lavoro ascolta la gente ci dica, come la collettività percepisce la magistratura?
Secondo me la stima è bassissima, non c’è fiducia nella magistratura e la principale causa di questa disistima deriva dall’osservazione dei comportamenti della vita quotidiana dei magistrati, dal loro venir meno ai valori che sono chiamati a far rispettare.
A questo vanno aggiunte la lentezza della giustizia e gli errori giudiziari, fattori che oltre a gettare discredito e dubbi sul funzionamento della macchina giudiziaria consegnano i cittadini in mano a giustizie parallele illecite più funzionali, o percepite come tali. La crisi che investe la magistratura è la stessa che travolge il giornalismo, finché siamo in tempo dovremmo fare, ognuno per ciò che lo riguarda, un ritorno serio a comportamenti che siano d’esempio in quanto traducenti nei fatti un solido sistema valoriale.
Fonte: Giustizia Insieme