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Strage di Capaci, di Giovanni Falcone mi commuove ancora la capacità di resistere

Davide Mattiello il . Mafie, Memoria, Politica, Società

Appartengo a quella generazione che ha aperto gli occhi sull’Italia il 23 maggio 1992. Di più: appartengo a quella generazione che si è domandata seriamente cosa volesse fare della propria vita il 23 maggio 1992. Allora avevo vent’anni esatti e a vent’anni sei fortunato se imbattendoti in una buona idea decidi di impegnare la tua vita. Sono tra i “ri-nati” il 23 maggio 1992.

Da allora sono passati quasi trent’anni e ho avuto la possibilità di tornare e ritornare innumerevoli volte su quei fatti: le stragi del 1992, i nomi delle vittime, le loro storie, le loro famiglie. I processi. Di tutte le cose impressionanti di quelle esistenze adoperate fino alla fine nella lotta per una Sicilia liberata dalla mafia e dal “puzzo del malaffare”, per una Italia autenticamente democratica cioè mondata dal modo mafioso di gestire il potere pubblico, un aspetto, che riguarda soprattutto Giovanni Falcone, mi commuove ancora profondamente: la sua capacità di resistere nonostante le cocenti delusioni che dovette sopportare.

Bocciata la sua candidatura a Capo dell’Ufficio Istruzioni di Palermo, quando il posto fu lasciato da Nino Caponnetto. Bocciato come candidato al Csm. Bocciato come Procuratore di Palermo. Osteggiato fino all’ultimo come candidato a Procuratore Nazionale Antimafia. Eppure, coerente a quanto affermò in una intervista: non pensò mai di arrendersi, di smettere. Non fece mai della sconfitta, della solitudine, un alibi per giustificare il passo indietro.

Come l’acqua che attraversando la terra, in un modo od in un altro, tende al mare, così Giovanni Falcone prese la forma dell’acqua pur di non farsi fermare dalle pietre messe sul suo cammino e arrivò dove probabilmente nemmeno i suoi più accaniti nemici avrebbero mai pensato di trovarlo: a Roma, a lavorare per il governo, un governo presieduto da Giulio Andreotti, come Capo dell’Ufficio Affari penali del ministero della Giustizia, un ministero retto da Claudio Martelli. Quanto fango, quante insinuazioni, quante accuse pubbliche dovette patire per quella ultima mossa! Eppure quanto fu importante quella mossa, per fare “un passo in più” dei suoi avversari.

Ed è spesso questo mix di fantasia e coraggio che determina l’esito di una battaglia. La sua scelta suscitò clamore: Falcone con i politici di Roma, Falcone nelle stesse stanze del potere di Andreotti&Soci… A molti parve un tradimento. Invece no, perché l’unico “tradimento” è la resa. Invece no, perché Falcone aveva compreso che a Palermo, da magistrato, non lo avrebbero più lasciato lavorare, era diventata troppo pericolosa quella sua competenza professionale, quella capacità di seguire i soldi, di analizzare il sistema di relazioni (dai vicoli di Palermo fino alla Borsa di Milano), di allacciare cooperazioni internazionali e soprattutto di rappresentare una versione così autorevole dello Stato da convincere pure i mafiosi a fidarsi di lui.

L’ultima mossa produsse frutti straordinari che ancora oggi costituiscono l’ossatura della azione di prevenzione e repressione dello Stato contro mafie e sistemi criminali variamente intesi. Falcone da Capo dell’Ufficio Affari penali infatti ispirò, tra le altre, l’invenzione della Dia, la Direzione Investigativa Antimafia, e della Dna, la Direzione Nazionale Antimafia ovvero la Procura nazionale antimafia ed antiterrorismo. Dalla Convenzione Onu di Palermo celebrata nel 2000, fino ad oggi. (Tra il 12 ed il 16 Ottobre 2020 a Vienna si è svolta la decima Conferenza delle Parti della Convenzione di Palermo. La Conferenza di Vienna ha rilanciato a livello globale tutto il ventaglio di strumenti di contrasto del crimine transnazionale di matrice soprattutto italiana, tanto che l’atto più significativo con cui si è chiusa la conferenza è stato chiamato Risoluzione “Falcone”.)

Quelle invenzioni, quel modo di interpretare la lotta al crimine organizzato, hanno ispirato e continuano ad ispirare il mondo intero. Ma, appunto, Falcone dovette farsi come acqua, per non restare intrappolato nella prigione delle bocciature. In questo mi ha sempre ricordato Peppino Impastato, che dopo anni di militanza politica e culturale fuori dalle Istituzioni, decise infine di candidarsi al Consiglio comunale di Cinisi, per entrare dentro la gestione del potere pubblico.

Ci vedo anche un’altra cosa, oltre a questo dirompete mix di fantasia e coraggio, ci vedo l’estremo omaggio al valore della Repubblica, che per quanto possa essere lordata da chi ne abusa per i propri scopi criminali, trascende tutti costoro, non si esaurisce in quelle nefandezze, perché rappresenta la possibilità più concreta ed alta di riscatto sociale, di libertà e di giustizia, per tutti e per ciascuno.

Il Fatto Quotidiano, il blog di Davide Mattiello

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