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Perché la mafia uccise Falcone

Luca Tescaroli il . Giustizia, Mafie, Memoria, Sicilia

La bomba a Capaci. Confessioni, intercettazioni e riscontri hanno provveduto a consegnare una verità giudiziaria che ha retto anche ai depistaggi: 37 mafiosi di rango sono stati condannati in via definitiva 

Gioè mi dice via, via, cioè me lo dice 3 volte, alla terza volta io aziono il telecomando”. Così il 28 marzo 1997 Giovanni Brusca mi rispose nell’aula bunker di Caltanissetta durante il processo di primo grado per spiegare come aveva provocato lo scoppio poderoso che ha prodotto la strage di Capaci, azionando il telecomando, procurato dall’esperto artificiere Pietro Rampulla.

L’esito dell’analisi dei contatti telefonici intercorsi nella fascia oraria caratterizzata dall’attentato faceva emergere un colloquio alle ore 17,49 del 23 maggio 1992 della durata di 325 secondi, a ridosso dell’esplosione, avvenuta alle 17,56.48, come si è stabilito attraverso la rivelazione dell’istituto Nazionale di Geofisica della stazione di Monte Cammarata. Un dialogo intercorso tra l’utenza in uso a Gioacchino La Barbera, mentre stava seguendo, a bordo della Delta Integrale sulla strada parallela all’autostrada, il corteo di auto nel quale viaggiava Giovanni Falcone, e quella intestata a Mario Santo Di Matteo in uso in quel momento ad Antonino Gioè, presente a fianco di Giovanni Brusca sulla collinetta che domina il tratto di autostrada, negli istanti immediatamente antecedenti all’attivazione del telecomando.

L’input investigativo che ha consentito di ricostruire la fase preparatoria ed esecutiva dell’eccidio, verificatosi a ridosso dello svincolo autostradale di Capaci, è stato fornito da Giuseppe Marchese, nel settembre 1992, all’indomani dell’inizio della sua collaborazione. Ci disse di attenzionare Gioacchino La Barbera, Antonino Gioè e tale Santino Mezzanasca per giungere all’individuazione dei responsabili. La conseguente attività investigativa nei loro confronti fece comprendere che La Barbera e Gioè vivevano in clandestinità in un appartamento di via Ughetti, al civico n. 17, a Palermo e consentì di identificare Mezzanasca in Mario Santo di Matteo. Il riascolto, nel maggio del 1993, dei colloqui intercettati al suo interno consentì di comprendere che, dalle 0,40 alle 1,55 del 9 marzo 1992, La Barbera si rivolgeva a Gioè, dicendogli per indicare un dato luogo: “ti ricordi u carruzzeri vicinu uni aspettai ddocu, ddocu a Capaci uni ci fici (o ci ficimu) l’attentatuni”.

Su tali risultanze sono confluite prove pesanti come macigni – idonee a resistere ai tentativi di depistaggio del passato e del presente – in parte significativa costituite dalle confessioni severamente verificate di sette uomini d’onore partecipi al delitto. Mario Santo Di Matteo, Salvatore Cancemi, Gioacchino La Barbera hanno iniziato a collaborare tra il 24 ottobre 1993 e il 2 dicembre 1993; Calogero Ganci, Giovanbattista Ferrante, Antonino Galliano e Giovanni Brusca tra il 7 giugno e il luglio del 1996, durante il primo processo di primo grado.

Le loro dichiarazioni, unitamente all’apporto di altri collaboratori, e i formidabili riscontri acquisiti hanno consentito di ricostruire dettagliatamente la fase preparatoria, esecutiva e ideativa dell’eccidio (che ha visto il coinvolgimento degli appartenenti ai massimi organi di vertice di cosa nostra: la commissione provinciale e regionale) e di giungere alla condanna con sentenza definitiva – a seguito di un doppio verdetto della Corte di Cassazione del 30-31 maggio 2002 e del 18 settembre 2008 – di 37 mafiosi di rango (tre ulteriori imputati, fra i quali Antonino Gioè, sono deceduti prima dell’intervento della sentenza di primo grado). Come era stato ipotizzato sin dalle prime indagini, gli assassini si mantennero in contatto grazie a telefoni cellulari, che si è provato non essere stati clonati e che hanno permesso di radiografare tutte le loro chiamate.

A seguito della confessione di Gaspare Spatuzza (a far data dal 2008) e, poi, di Cosimo d’Amato ulteriori esponenti dell’organizzazione sono stati individuati e condannati per aver fornito una parte dell’esplosivo impiegato: il tritolo proveniente da ordigni bellici.

Si è appurato che Falcone fu ucciso per tre ragioni. Il sentimento di vendetta che animava i vertici di cosa nostra per quanto aveva fatto a: Palermo quale giudice istruttore, che aveva contribuito soprattutto a istruire il maxiprocesso (che aveva condotto a condanne definitive e al riconoscimento per la prima volta dell’esistenza di cosa nostra e delle sue regole di funzionamento); Roma, quale Direttore generale degli Affari Penali, a far data dal febbraio 1991, per le attività espletate di promovimento legislativo e amministrative.

La prospettiva di carattere preventivo: la preoccupazione per l’attività che Falcone avrebbe potuto compiere, soprattutto nel settore della gestione illecita degli appalti, tanto più se fosse divenuto Procuratore Nazionale Antimafia. Le affermazioni di Falcone la “la mafia era entrata in borsa” avevano indotto a temere che Falcone avesse capito che dietro la quotazione in borsa del gruppo Ferruzzi vi fosse effettivamente cosa nostra.

La terza si coglie se la strage si colloca nel più ampio progetto terroristico eversivo, sintetizzato dalle parole di Salvatore Riina: “bisogna prima fare la guerra prima di fare la pace”, riportate da Filippo Malvagna. A seguito del nefasto esito del maxiprocesso, cosa nostra ha colpito gli acerrimi nemici e i tradizionali referenti politico istituzionali. Con il ricatto a suon di bombe, attuato con otto stragi (due in Sicilia e sei nel continente) e plurimi omicidi, i vertici del sodalizio hanno voluto creare un assetto di potere ritenuto funzionale alle proprie aspettative, condizionando la politica legislativa del governo e del parlamento e riannodando il rapporto politico mafioso sfaldato con altri referenti.

Rimangono spunti investigativi che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell’ideazione e nell’esecuzione della strage.

* Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Firenze

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 23/05/2021

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