Livatino: “Le sue bussole erano il Vangelo e il Codice”
In un video le parole di don Luigi Ciotti, presidente di Libera e del Gruppo Abele in occasione della beatificazione del giudice Rosario Livatino
Rosario Livatino non era un uomo dalle grandi certezze, ma piuttosto dalle grandi e coraggiose domande. Il dubbio, la domanda profonda e feconda, erano il motore del suo pensiero e la premessa del suo agire. Sia nella fede che nella professione.Non gli interessavano una fede esibita o una carriera brillante. Aderiva con sincerità di cuore al Vangelo e lo incarnava nelle sue scelte di vita. Con altrettanta sincerità aderiva alla legge per farla rispettare, sapendo però che la legge è sempre solo un mezzo, mentre il fine è la giustizia. Questo atteggiamento è sintetizzato in una delle sue frasi più note: “alla fine dell’esistenza, non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili”.
L’abitudine a interrogare senza sconti la propria coscienza non lo rendeva incerto nell’azione. Era anzi un magistrato risoluto, capace di portare avanti inchieste scomode e imboccare strade innovative, ad esempio riguardo alla confisca dei beni mafiosi. Un’altra sua caratteristica era l’enorme senso di responsabilità. Si sentiva responsabile verso lo Stato e verso il ruolo di tutore della legge che gli aveva affidato. Ma si sentiva tanto più responsabile verso le persone, i loro diritti e la loro dignità.
Le sue bussole erano il Vangelo e il Codice, che sempre teneva a portata di mano.Metteva la sua vita interamente nelle mani di Dio. Sui suoi diari e agende ricorre la sigla S.T.D., “Sub Tutela Dei”.
Nei mesi prima dell’omicidio, era consapevole dei rischi che stava correndo. E scriveva: “vedo scuro nel mio futuro”. Il suo coraggio nell’accettare la possibilità della morte non va però confuso con un’aspirazione a morire. Era innamorato della vita, come tutti coloro che vivono senza risparmio, perché la vita non si può risparmiare ma soltanto appunto vivere più o meno intensamente. La Congregazione delle Cause dei Santi lo fa oggi beato perché ucciso “in odium fidei”, ossia per disprezzo verso la sua fede cristiana. In quella fede pura e intransigente i mafiosi videro l’ostacolo insormontabile a corromperlo, o a sperare in un progressivo indebolimento della sua azione di giustizia.
Ora che è beato, dobbiamo stare attenti a non farne un “santino” da invocare o da celebrare. Il miglior modo per ricordarlo è invece imitarlo nel suo luminoso esempio di virtù civili e cristiane.
Oggi più che mai, Rosario Livatino vive. Come vive Peppino Impastato, ucciso in questo stesso 9 maggio, dalla stessa violenza mafiosa, 43 anni fa. Come vive il ricordo di quello straordinario grido contro ogni forma di complicità con le mafie, lanciato da San Giovanni Paolo II il 9 maggio del 1993, presso la Valle dei Templi di Agrigento. Poco prima, il Papa aveva incontrato i genitori di Rosario, aveva forse “annusato” la santità del loro figlio.
Rosario Livatino vive nella memoria di chi l’ha conosciuto. Vive nel lavoro della cooperativa di giovani che porta il suo nome, e coltiva le terre confiscate ai boss. Vive nell’ammirazione di tanti magistrati, giuristi e studenti che a lui si ispirano nel coltivare l’amore per il diritto e soprattutto per i diritti di ogni persona. Vive nell’impegno di chiunque si spenda contro ogni forma di prepotenza, violenza e sopraffazione dell’uomo sull’uomo.
* Presidente Libera e Gruppo Abele
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