Riscoprire la strada per la felicità nella nostra società
“Quelli che sperano di raggiungere la felicità, cercando ricchezze, gloria, potere e imprese eroiche, sono ingenui quanto un bambino che vuole afferrare l’arcobaleno per farsene un mantello”. Sono parole di Dilgo Khyentse Rinpoche riconosciuto dai buddisti come uno dei suoi più grandi recenti maestri.
Parole che trasmettono una grande saggezza e comprensione dell’essenza stessa dell’umanità.
Eppure nella nostra società moderna, regolata dal mercato, la felicità è oggi sempre più associata a ciò che si può comprare e non a ciò che si può e si deve essere. Tutto o quasi, deve avere un valore economico per contare ed essere importante.
Un tempo non era così; per secoli la ricerca della felicità si è legata a una dimensione morale della vita che prescindeva dalla dimensione economica del mercato.
Si è come capovolto il modo di pensare ed oggi, nella nostra società, pensiamo più a ciò che non abbiamo ancora che non a quello che invece già possediamo. Nasce come una lotta tra di noi e il riferimento (direi i nostri maestri) diventano coloro che hanno di più. D’altronde il mondo della pubblicità passa proprio da qui: da una società dei consumi che alimenta continuamente la nostra insoddisfazione per ciò che non abbiamo.
Un mondo che ci fa pensare che la felicità è dietro l’angolo, subito dopo il prodotto che quella pubblicità ci spinge a comprare.
Dunque la nostra diventa la società dell’infelicità, perché pensiamo veramente a ciò che ancora non abbiamo, spingendo sempre oltre l’asticella da raggiungere. Ma non è una sfida a migliorare noi stessi come persone, ma solo un possedere qualcosa in più.
E’ una società dove non c’è neanche la condivisione di ciò che possediamo, ma la ricerca individuale di quel che ancora ci manca individualmente, verso un continuo, infinito, irraggiungibile traguardo, che fa dei noi delle persone infelici.
E’ una società da un punto di vista psicologico basata non sui sentimenti, ma sul desiderio. Il desiderio diventa la nostra struttura mentale, il nostro modo di guardarsi intorno, dove tutto ha un prezzo.
Il libro di Jonathan Sacks “Moralità – ristabilire il bene comune in tempi di divisioni”, dedica un intero capitolo al tema della “Felicità che consuma” indicando anche gli antidoti per invertire questo cammino disastroso dell’uomo che lo sta portando verso la propria infelicità (e distruzione).
La prima parola per invertire questo nostro suicidio psichico, è “gratitudine” perché ci spinge a valorizzare ciò che abbiamo e rafforza la nostra autostima.
Sacks parla poi di “aiuto verso l’altro”; una dimensione che ci permette di assaporare una sensazione di euforia, di esultanza che ci aiuta a stare meglio con noi stessi.
La terza parola toccata da Sacks è “relazioni”, la forza che abbiamo di tessere legami sociali, sia nella famiglia, che nelle amicizie. Noi siamo le relazioni che riusciamo a costruire. Non è una frase fatta, ma la realtà che ogni giorno possiamo costruire.
La quarta parola è “gioia”, che altro non è se non la felicità condivisa.
Sacks che è un rabbino, racchiude queste 4 parole nello Shabbat, il giorno dove, per la religione ebraica, Dio si è riposato e ha pensato che tutto quello che aveva fatto era buono.
Sacks vede nello Shabbat il modello con cui si combatte la mentalità del mercato, perché prevalgono le cose che hanno un valore e non un prezzo. Prevale la gratitudine per ciò che siamo e per quello che abbiamo, prevale l’attenzione verso gli altri, le relazioni nella famiglia e con gli amici, la gioia per la vita intesa come dono.
Un pensiero quello di Sacks che deriva da uno studio approfondito della religione ebraica.
Nello Shabbat, secondo uno dei maggiori maestri dell’ebraismo Benjamin Gross, è racchiusa la prospettiva di giustizia, di integrità e di armonia per tutti gli esseri viventi, dove anche gli altri sei giorni di quotidiano lavoro ricevono luce e orientamento.
Si riscoprono i significati profondi dell’esistenza che non sono merce; non si comprano né si vendono, possono solo essere coltivati, curati e condivisi.
Lo Shabbat porta la persona a pensarsi e coltivarsi come creatura. Lo Shabbat è la rappresentazione delle nostre relazioni umane, del modo con cui dovremmo rapportarci con il mondo; è il giorno del noi, dove scopriamo che la nostra umanità conta più del nostro conto in banca.
E non è un caso che lo stesso Gesù, per rispondere ai farisei che accusavano i suoi discepoli di aver colto delle spighe di grano nel giorno della festa, rispose che “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, riscoprendo il significato più profondo dello Shabbat, contro il mero rispetto della formalità della legge.
Buddismo, ebraismo, cristianesimo, ci aiutano a ritrovare la strada della felicità in questa nostra vita attraverso la gratitudine, l’altruismo, le relazioni, la gioia condivisa.
Un cammino lungo il quale smettiamo di essere dei bambini che cercano di afferrare l’arcobaleno per farne un mantello, ma persone adulte che sanno ancora guardare un arcobaleno per contemplarlo e condividere la felicità che si prova con gli altri.
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