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Petrolmafie Spa: alleanza tra camorra e ‘ndrangheta tra frode e riciclaggio

Redazione il . Calabria, Campania, Economia, Lazio, Mafie

Napoli, Roma, Catanzaro e Reggio Calabria. Eseguite 71 misure cautelari – Sequestri per un valore di circa un miliardo di euro

L’integrazione delle mafie nel mercato delle imprese è un processo emerso da tempo nelle più importanti indagini sulla criminalità organizzata, tanto che ormai è divenuto sistematico e globale il riciclaggio di denaro, frutto di traffici illeciti, non solo nella economia legale per “ripulirlo”, ma anche nell’economia criminale per produrre ulteriori proventi illeciti, in questo caso attraverso frodi fiscali nel settore degli oli minerali.

Le frodi nel settore degli oli minerali sono sempre più spesso oggetto di attenzione da parte dell’opinione pubblica, soprattutto per gli importi milionari sottratti a tassazione. Tuttavia, quest’ultimo sembrava finora un campo criminale riservato a “specialisti” delle cartiere e delle frodi carosello, non necessariamente legati a clan della criminalità organizzata.

Ne è derivata una nefasta sinergia tra mafie e colletti bianchi, senza l’apporto dei quali le prime ben difficilmente avrebbero potuto far fruttare al massimo quel tipo di frodi fiscali.

L’operazione PETROL-MAFIE SPA rappresenta l’epilogo di indagini condotte su una duplice direttrice investigativa dalle Direzioni Distrettuali Antimafia di Napoli, Roma, Reggio Calabria e Catanzaro – con il coordinamento della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e di Eurojust – che hanno fatto emergere la gigantesca convergenza di strutture e pianificazioni mafiose originariamente diverse nel business della illecita commercializzazione di carburanti e del riciclaggio di centinaia di milioni di euro in società petrolifere intestate a soggetti insospettabili, meri prestanome.

Sul campo oltre mille militari dei rispettivi Nuclei PEF e dello SCICO della Guardia di Finanza, nonché su Catanzaro dei ROS dei Carabinieri. Mentre sul fronte camorristico risulta la centralità del clan Moccia nel controllo delle frodi negli oli minerali oggetto delle misure odierne, sul versante della ‘ndrangheta i clan coinvolti sono Piromalli, Cataldo, Labate, Pelle e Italiano nel reggino e Bonavota di S. Onofrio, gruppo di San Gregorio, Anello di Filadelfia e Piscopisani a Catanzaro.

Le indagini sull’infiltrazione camorristica: DDA Napoli e Roma.

Sul fronte anti-camorra hanno operato le DDA di Napoli e Roma, a mezzo di indagini rispettivamente sul clan Moccia e sulla Max Petroli SRL.

Il sodalizio criminale denominato “clan Moccia” costituisce una tra le più potenti e pericolose organizzazioni camorristiche del panorama nazionale ed è notorio per l’abilità nello stringere patti con esponenti di rilievo dei settori pubblico e privato per agevolare profittevoli investimenti di capitali illeciti nell’economia, legale e illegale.

Tra le indagini condotte dalla DDA di Napoli negli ultimi 15 anni sui Moccia, quella odierna mette in luce le più attuali evidenze degli interessi dei Moccia nell’Economia legale, in particolare nel “settore strategico dei petroli”. Questa attività prende le mosse nel 2015 da una indagine del GICO della Guardia di Finanza di Napoli – su delega della DDA partenopea – che riguardava inizialmente rilevanti investimenti del clan Moccia nei settori dell’edilizia e del mercato immobiliare.

A conferma dell’importanza attribuita al nuovo canale “legale” di investimento, se ne occupa personalmente un esponente di vertice del clan Moccia attraverso contatti, ampiamente intercettati, con un imprenditore di settore, con commercialisti e faccendieri. Infatti l’imprenditore utilizzava nelle proprie relazioni commerciali la sua parentela con i Moccia, presentandosi all’occorrenza come suo cugino.

Attraverso una serie di operazioni societarie, il gruppo entra in rapporti con una SRL di settore, che aveva ereditato l’impero di un noto petroliere romano.

La titolare della SRL, trovandosi a gestire una società in grave crisi finanziaria, grazie alla conoscenza dell’imprenditore petrolifero era riuscita a ottenere forti iniezioni di liquidità da parte di vari clan di camorra, tra cui quelli dei Moccia e dei casalesi, che le avevano consentito di risollevare le sorti dell’impresa, aumentando in modo esponenziale il volume d’affari, passato da 9 milioni di euro a 370 milioni di euro in tre anni, come ricostruito dal III Gruppo Tutela Entrate della GDF di Roma su delega della DDA capitolina, anche grazie alla trasmissione da parte della Procura di Napoli delle proprie risultanze investigative, in totale osmosi informativa.

Risulta che la stessa avrebbe sfruttato non solo il riciclaggio di denaro della camorra, ma anche i classici sistemi di frode nel settore degli oli minerali, attraverso la costituzione di 20 società “cartiere” per effettuare compravendite puramente cartolari in modo tale eludere con una società le pretese erariali, potendo così rifornire i network delle c.d. “pompe bianche” a prezzi ancor più concorrenziali.

Il successo imprenditoriale consentiva inoltre agli indagati di mantenere un elevato tenore di vita, fatto di sontuose abitazioni, gioielli, orologi di pregio e auto di lusso.

Nel mese di maggio 2019, ad esempio, l’imprenditrice fu fermata a bordo di una Rolls Royce alla frontiera di Ventimiglia (IM), mentre si recava a Cannes per partecipare all’omonimo festival del cinema, e trovata in possesso di circa € 300.000 in contanti. I successivi accertamenti presso il lussuoso albergo a Milano dove soggiornava, consentirono di rinvenire altri 1,4 milioni di euro, sempre in contanti, poi sottoposti a sequestro.

Nel frattempo, i Moccia ponevano la base logistica per lo svolgimento delle attività fraudolente negli uffici napoletani del sopracitato imprenditore di settore da dove venivano coordinate le commesse di materiale petrolifero e organizzato il vorticoso giro di fatturazioni per operazioni inesistenti e i movimenti finanziari (esclusivamente on-line). Per il gruppo criminale, infatti, una volta disposti i bonifici relativi al formale pagamento del prodotto energetico sorgeva la necessità di monetizzare in contanti le somme corrispondenti all’IVA non versata all’erario dalle società cartiere.

Per la raccolta delle ingenti somme liquide derivanti dalla frode, il clan Moccia si avvaleva di una vera e propria organizzazione parallela, autonoma e strutturata, atta al riciclaggio di elevate risorse finanziarie, gestita da “colletti bianchi”, attiva sia sul territorio partenopeo che su quello romano. In pratica, le società “cartiere” gestite dal gruppo petrolifero, una volta introitate le somme a seguito delle forniture di prodotto petrolifero, effettuavano con regolarità ingenti bonifici a società terze, simulando pagamenti di forniture mai avvenute. Quest’ultimo, mediante la propria organizzazione territoriale, provvedeva ai prelevamenti in contanti e alle restituzioni tramite “spalloni”. Nello svolgere tale attività, questo gruppo tratteneva per sé una percentuale su quanto incassato.

Si trattava in buona sostanza di soldi provenienti dalle attività illecite dei clan reinvestiti in un settore economico legale, quello dei petroli, per produrre altri proventi illeciti attraverso le frodi fiscali: un effetto moltiplicatore dell’Illecito che finisce per annichilire la concorrenza, sia per i prezzi alla pompa troppo bassi per gli operatori onesti, sia perché questi ultimi indietreggiano quando capiscono che hanno di fronte imprenditori mafiosi.

Per il territorio di Roma, quella struttura professionale si avvaleva di altri soggetti che gestivano piccoli gruppi di persone, le cui mansioni erano quelle di effettuare continui prelievi di contanti (in misura frazionata) su conti correnti postali intestati a società cartiere e/o a soggetti prestanome. Tali risorse finanziarie in contanti, una volta raccolte, venivano concentrate nell’area napoletana, e fatte pervenire, tramite “spalloni”, agli stessi riciclatori romani, che successivamente provvedevano alla consegna ai “clienti”, tra i quali come detto figurava proprio il gruppo societario facente capo all’imprenditore petrolifero e ad un esponente del clan Moccia, a perfetta chiusura del riciclo di denaro sporco.

Riassumendo, quindi, risultano tutti gravemente indiziati di aver stretto un accordo societario di fatto per la commissione di illeciti di cui hanno beneficiato praticamente tutti i soggetti coinvolti; il rapporto con l’imprenditore è stato fondamentale per la titolare della SRL in quanto l’uomo è subentrato nell’azienda in un momento di evidenti difficoltà economiche e gestionali dovute anche ai problemi di salute del marito. Infatti, la stessa è risultata una donna scaltra e molto ben inserita negli ambienti del potere imprenditoriale (e non solo) capitolino, e tuttavia non all’altezza di sostituire da sola il coniuge, petroliere di collaudata esperienza: il patto ha apportato agli affari comuni la competenza “specialistica” del petroliere e soprattutto le provviste finanziare e il sostegno del potere mafioso del Moccia, le une e l’altro non soltanto ben accetti ma anche ricercati dal mondo affaristico romano.

Come emerso dalle indagini napoletane, la rilevanza dell’incipiente business dei Moccia nel settore degli oli minerali, nel quale quel clan era diventato egemone proprio grazie ai prezzi super-competitivi ottenuti grazie alle frodi, provoca reazioni anche violente da parte di altri clan della camorra. L’imprenditore petrolifero subisce due attentati con esplosione di colpi di pistola, a seguito dei quali non esita a chiedere aiuto al suo referente e parente Moccia che si attiva. Ne consegue una pax mafiosa, imposta dai Moccia e suggellata con la cessione di una quota dell’impianto di carburanti al clan Mazzarella.

Le indagini sulla ‘ndrangheta: DDA Catanzaro.

Sul versante delle indagini sulla ‘ndrangheta, l’indagine, avviata nel giugno 2018 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro – Direzione Distrettuale Antimafia, quale naturale prosecuzione dell’operazione “Rinascita-Scott”, si è incentrata sulle figure di taluni imprenditori vibonesi, attivi nel settore del commercio di carburanti, ritenuti espressione della cosca Mancuso di Limbadi, nonché collegati alle articolazioni ‘ndranghetistiche sia della Provincia di Vibo Valentia (Bonavota di S. Onofrio, gruppo di San Gregorio, Anello di Filadelfia e Piscopisani) che del “reggino” (cosca Piromalli, cosca Italiano di Delianuova, cosca Pelle di S. Luca).

In particolare, sono stati accertati due sistemi di frode, riguardanti il commercio del gasolio, attraverso il coinvolgimento di 12 società, 5 depositi di carburante e 37 distributori stradali, elaborati, organizzati e messi in atto proprio dagli indagati.

La lunga attività investigativa ha fatto emergere gravi indizi a carico di soggetti mafiosi che, grazie alla collaborazione di imprenditori titolari e gestori di attività economiche ubicate in Sicilia, operanti nel medesimo settore, avrebbero costituito, organizzato e diretto un’associazione per delinquere, con base in Vibo Valentia, finalizzata alla evasione dell’IVA e delle accise su prodotti petroliferi.

L’associazione avrebbe commesso innumerevoli reati fiscali ed economici: contrabbando di prodotti petroliferi, l’emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, l’interposizione di società “cartiere”, la contraffazione e utilizzazione di Documenti di Accompagnamento Semplificati (DAS), il riciclaggio, il reimpiego in attività economiche di proventi illeciti, l’auto-riciclaggio, il trasferimento fraudolento di valori e altri.

Il sistema di frode consisteva nell’importazione, perlopiù dall’est-Europa, di prodotti petroliferi artefatti (miscele) e oli lubrificanti, successivamente immessi in commercio come gasolio per autotrazione, con conseguenti cospicui guadagni dovuti al differente livello di imposizione. I prodotti venivano, quindi, trasportati, con documentazione di accompagnamento falsa, presso i siti di stoccaggio nella disponibilità dell’associazione, ubicati in Maierato (VV) e Santa Venerina (CT), pronti per essere immessi sul mercato (sia fatturato che completamente in nero) come “gasolio per autotrazione”, categoria merceologica di maggiore valore, soggetta ad un’accisa superiore, con notevole margine di guadagno.

In tal modo, dal 2018 al 2019, sono stati movimentati circa 6.000.000 di litri di gasolio per autotrazione di provenienza illecita, cui corrisponde un’evasione di accisa pari ad euro 5.766.018,60. Inoltre, sono stati accertati episodi di omessa dichiarazione dell’IVA, con un’evasione pari ad euro 661.237,86, di emissione di fatture per operazioni inesistenti per euro 1.764.022,27, nonché di omesso versamento di IVA per euro 1.729.586,00.

Altra tipologia di frode, riconducibile a una seconda associazione per delinquere, contemplava lo strumentale ricorso al deposito fiscale romano dalla S.r.l. e sarebbe stata anch’essa promossa e organizzata a Vibo Valentia, con il contributo dei medesimi imprenditori vibonesi e con la partecipazione di indagati (soprattutto) romani e napoletani – a loro volta intranei ad associazioni camorristiche napoletane.

In questo caso, gli associati acquistavano, dal suddetto deposito, ingenti quantitativi di prodotto petrolifero, formalmente riportato sui documenti come “gasolio agricolo” e, quindi, soggetto ad imposizione di favore, movimentando in realtà vero e proprio “gasolio per autotrazione”, con consistente fraudolento risparmio di spesa ed elevatissimi margini di guadagno.

Ancora una volta, i sodali perseguivano l’obiettivo di evadere le imposte e, quindi, di lucrare illecitamente su tali commerci, emettendo fatture per operazioni inesistenti, simulando la titolarità/gestione di società “cartiere” in capo terzi, utilizzando documentazione mendace, riciclando/reimpiegando, in attività economiche, denaro provento di attività illecita e così via.

Anche in questo ulteriore canale di contrabbando, peraltro, è risultata coinvolta una compagine catanese, facente capo a soggetti già implicati in precedenti attività investigative, quali imprenditori di riferimento delle famiglie mafiose di Catania dei clan Mazzei e Pillera.

In concreto, negli anni 2018 e 2019, mediante il citato sistema illecito, sono stati movimentati, rispettivamente, oltre 2.400.000 litri e oltre 1.900.000 litri di prodotto petrolifero, con un’evasione di accisa per euro 1.862.669,29 e un’evasione di IVA per euro 618.589,68 per omessa dichiarazione, oltre alla emissione di fatture per operazioni inesistenti per euro 249.826,97.

In tale frangente, inoltre, sarebbe emerso il solido collegamento tra i prevenuti vibonesi e i gestori di un deposito fiscale, sito in Locri, ove i sodali campani e siciliani avevano interesse ad avviare stabili commerci, al fine di sviluppare ulteriori e parimenti remunerative forme di frode.

Nella rete di contrabbando di prodotti petroliferi e conseguente riciclaggio, poi, gravi indizi convergono sul coinvolgimento anche di esponenti di primo piano della cosca Mancuso, quali gestori (seppure per interposta persona) di impianti di distribuzione di carburante.

Ulteriore conferma della diffusività del fenomeno criminale investigato e della capacità di propagazione dello stesso si rinvengono nel segmento investigativo che ha messo in luce il tentativo, sempre ad opera degli imprenditori vibonesi, congiuntamente agli esponenti apicali della famiglia Mancuso, di aprire nuovi canali di importazione di carburante direttamente in Calabria, mediante l’avvio di trattative col rappresentante di un importante gruppo petrolifero internazionale, appositamente giunto in Calabria.

È stato possibile, infatti, monitorare l’incontro, tra tutti i predetti, nel corso del quale si trattava della realizzazione di un ambizioso progetto ingegneristico e commerciale, consistente nella realizzazione di un deposito fiscale-costiero di prodotti petroliferi, nell’area industriale di Portosalvo (VV), da collegare, attraverso una condotta sottomarina, ad una grande cisterna galleggiante, da collocare al largo della costa vibonese.

In ultimo, ma non meno rilevante, l’indagine ha permesso di far luce sugli interessi della criminalità organizzata vibonese nel settore edile, nel quale sono forti gli indizi del totale controllo mafioso, da parte delle maggiori consorterie attive sul territorio (Mancuso, Bonavota, Fiare’-Razionale-Gasparro, Anello), soprattutto nelle forniture di calcestruzzo, per i maggiori cantieri all’opera nel territorio della provincia di Vibo Valentia.

Le indagini sulla ‘ndrangheta: DDA Reggio Calabria.

A Reggio Calabria, infine, sempre oggi, sono giunte a epilogo complesse indagini condotte dal G.I.C.O. del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria di Reggio Calabria e dal Servizio Centrale I.C.O. di Roma, con il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, che hanno riguardato una struttura organizzata, attiva nel commercio di prodotti petroliferi, gravemente indiziata di aver utilizzato sistemi di frode allo scopo principale di evadere le imposte, in modo fraudolento e sistematico, attraverso l’emissione e l’utilizzo (improprio) delle c.d. “Dichiarazioni di Intento”, sotto la direzione strategica di un commercialista e con la compiacenza di soggetti esercenti depositi fiscali e commerciali, con un controllo capillare dell’organizzazione criminale di tutta la filiera della distribuzione del prodotto petrolifero, dal deposito fiscale ai distributori stradali.

Le investigazioni puntavano a far emergere gli interessi della ‘ndrangheta, della mafia siciliana e della camorra, nella gestione del business del commercio di prodotti petroliferi sull’intero territorio nazionale.

Tra i principali membri apicali del sodalizio spiccano diversi imprenditori:

  • 2 contigui alla cosca di ‘ndrangheta “Piromalli” operante nel mandamento tirrenico della provinciale di Reggio Calabria e, segnatamente, nel locale di Gioia Tauro;
  • 2 alla cosca di ‘ndrangheta “Cataldo” operante nel mandamento ionico della provinciale di Reggio Calabria e, segnatamente, nel locale di Locri; gli stessi sono stati, nel tempo, anche al servizio di varie cosche di ‘ndrangheta (Pelle di San Luca, Aquino di Gioiosa Ionica, Cordi’ di Locri e Ficara-Latella di Reggio Calabria);
  • 1 contiguo alla cosca “Labate” dominante nella zona sud di Reggio Calabria.

Le società investigate (“cartiere”), affermando fraudolentemente di possedere tutti i requisiti richiesti al fine di poter beneficiare delle agevolazioni previste dalla normativa di settore, presentavano ad una S.p.A. di Locri – volano della frode – la relativa dichiarazione di intento per l’acquisto di prodotto petrolifero senza l’applicazione dell’IVA; il prodotto così acquistato, a seguito di diversi (e cartolari) passaggi societari, veniva poi ceduto, a prezzi concorrenziali, ad individuati clienti. In sostanza:

  • la frode si innescava attraverso le forniture di prodotto (in regime di non imponibilità) effettuate dal deposito fiscale (nonché deposito IVA), consapevole e promotore del sistema fraudolento; l’acquisto veniva effettuato, senza applicazione dell’IVA, da imprese cartiere che, prive dei requisiti richiesti dalla normativa di settore per assumere la qualifica di esportatore abituale, presentavano false dichiarazioni d’intento; tali operatori, formalmente amministrati da prestanome nullatenenti, erano riconducibili e gestiti direttamente dall’organizzazione criminale;
  • le società “cartiere”, attraverso brokeroperanti sul territorio calabrese, campano e siciliano, vendevano ai clienti finali a prezzi assolutamente concorrenziali, al di sotto del valore di mercato, sfruttando indebitamente il vantaggio economico dell’IVA non versata.

In merito, l’organizzazione investigata, a seguito di un controllo fiscale nei confronti della Società per Azioni, ha adottato una serie di accorgimenti che hanno portato ad un mutamento del sistema fraudolento optando per la drastica soluzione di omettere il versamento dell’imposta sul valore aggiunto e sulle accise e, di conseguenza, mandare il deposito definitivamente in default.

Nel corso delle indagini è stato ricostruito:

  • un giro di false fatturazioni per un ammontare imponibile complessivo pari ad oltre 600 milioni di euro e IVA dovuta pari ad oltre 130 milioni di euro;
  • l’omesso versamento di accise per circa 31 milioni di euro; al riguardo le investigazioni hanno consentito di accertare che i membri del sodalizio, nella fase di default, formavano e trasmettevano all’Agenzia delle Dogane un fittizio (con attestazione falsa di “pagato”) modello F24 attestante il pagamento delle accise dovute dalla S.p.A. per il mese di marzo 2019 – per un importo di circa 11 milioni di euro – col duplice fine di scongiurare eventuali controlli da parte dell’Amministrazione Finanziaria e, di conseguenza, proseguire con il disegno illecito.

Nel mese di maggio del 2019, a riscontro all’attività investigativa, è stata sequestrata la somma contante di 1.086.380,00 di euro, occultata all’interno di un’autovettura appositamente modificata per l’occultamento e il trasporto della valuta.

I proventi illeciti, così ripartiti dai membri dell’organizzazione, sarebbero stati in quota parte, reinvestiti nel medesimo circuito criminale e/o impiegati in altre attività finanziarie/imprenditoriali così determinando un giro di riciclaggio – autoriciclaggio, per un importo complessivo pari ad oltre 173 milioni di euro; quota parte di detto importo (pari ad oltre 41 milioni di euro) veniva riciclato su conti correnti esteri riconducibili a società di comodo bulgare, rumene, croate e ungheresi, per poi rientrare nella disponibilità dell’organizzazione medesima.


Petrolmafie, arrestata Anna Bettozzi: frode e legami con camorra

Operazione nei confronti di una settantina di persone responsabili di associazione di tipo mafioso, riciclaggio e frode fiscale di prodotti petroliferi

C’è anche Anna Bettozzi – cantante, attrice e vedova del petroliere Sergio Di Cesare – fra le persone arrestate nell’operazione nei confronti di una settantina di persone responsabili di associazione di tipo mafioso, riciclaggio e frode fiscale di prodotti petroliferi e sequestri di immobili, società e denaro contante per un valore di circa 1 miliardo di euro.

Nell’ambito dell’operazione coordinata dalle Dda di Roma, Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria sono stati sequestrati gli impianti della società petrolifera della famiglia Bettozzi, Max Petroli, ora Made Petrol Italia Srl. Le indagini in particolare si sono concentrate sui legami fra il clan camorristico Moccia e la Max Petroli Srl.

La Bettozzi, secondo le accuse, trovandosi a gestire una società in grave crisi finanziaria, era riuscita a ottenere forti iniezioni di liquidità da parte di vari clan di camorra, tra cui quelli dei Moccia e dei Casalesi, che le avevano consentito di risollevare le sorti dell’impresa, aumentando in modo esponenziale il volume d’affari, passato da 9 milioni di euro a 370 milioni di euro in tre anni, come ricostruito dal III Gruppo Tutela Entrate della Gdf di Roma su delega della Dda capitolina.

La Bettozzi, avrebbe sfruttato non solo il riciclaggio di denaro della camorra, ma anche i classici sistemi di frode nel settore degli oli minerali, attraverso la costituzione di 20 società “cartiere” per effettuare compravendite puramente cartolari in modo tale eludere con la Made Petrol le pretese erariali, potendo così rifornire i network delle cosiddette ‘pompe bianche’ a prezzi ancor più concorrenziali.

Nel maggio 2019, l’imprenditrice fu fermata a bordo di una Rolls Royce alla frontiera di Ventimiglia mentre andava al Festival di Cannes: venne trovata in possesso di 300mila euro in contanti e in albergo a Milano le furono trovati altri 1,4 milioni di euro, poi sequestrati.

ORDINANZA – “Si tratta del capo indiscusso dell’organizzazione, della persona più di tutti ‘esperta’ della materia anche grazie a quanto imparato dal marito Sergio Di Cesare”. E’ quanto riportato nell’ordinanza del gip Tamara De Amicis su Bettozzi.

“Nulla si muove senza il suo assenso – scrive ancora il gip che ha disposto il carcere per la donna – è lei che intavola il rapporto con Alberto Coppola e, tramite lui, con tutto il gruppo napoletano dal quale riceve cospicui finanziamenti per la propria attività illecita, remunerando adeguatamente gli investimenti fatti da costoro”. Per l’indagata “sembra persino superfluo formulare considerazioni ulteriori rispetto a tutto quanto emerso nel corso dell’indagine” sottolinea il giudice.

Le indagini hanno dimostrato che Bettozzi “dispone di ingentissime provviste di denaro liquido, nascosto nei luoghi più disparati”.

“Dalle indagini sono emerse le cassette di sicurezza di un hotel milanese (dove è stato già effettuato un sequestro) – si legge – la propria abitazione e quella di vari parenti (in una conversazione Filippo Bettozzi, parlando con lei, afferma – parlando dell’allocazione del denaro – di aver “sistemato” la nonna e tale zia Tonia). Si tratta di luoghi ‘sicuri’, posto che – come emerge da un’altra conversazione – la Bettozzi è particolarmente attenta alla collocazione del denaro. In più l’indagata vanta una fitta rete di soggetti pronti ad aiutarla nell’occultamento di tali ingenti risorse”.

Fonte: Adnkronos
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