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‘Ndrangheta, Gotha: arrivano in dibattimento le testimonianze da “uno, nessuno e centomila”

Francesco Donnici il . Calabria, Giustizia, Mafie

“Incontrerai tante maschere, pochi volti”. L’inciso della celebre opera di Pirandello riassume quanto emerso nell’aula bunker di Reggio Calabria nelle ultime udienze del processo Gotha.

Compito di giudici ed inquirenti è quello di ricostruire legami, giochi di potere e commistioni che porteranno a rendere l’identikit della “nuova” ‘ndrangheta della quale i professionisti parrebbero non più essere concorrenti esterni ma soggetti organici e di vertice.

Lo ha sottolineato chi quel processo lo ha istruito negli anni. Il procuratore aggiunto della procura distrettuale, Giuseppe Lombardo, intervenuto lo scorso 20 marzo all’incontro organizzato da Libera “Etica della responsabilità sociale contro mafie e corruzione”, ha raccontato la necessità di “superare un approccio arcaico di lettura e contrasto di fenomeni che sono diventati complessi”. Errore, quello di banalizzare le componenti e il modus operandi della ‘ndrangheta, compiuto troppo spesso nel corso del tempo. E così, mentre le stragi degli anni 90 spostavano i riflettori sulla Sicilia, la mafia calabrese “in accordo con Cosa Nostra acquisiva il controllo del narcotraffico internazionale” quindi, a cascata, “di una grossa fetta dei mercati globali, contaminando anche l’economia legale”.

Insieme al pm Lombardo, nell’aula di Gotha c’erano anche i sostituti procuratori Stefano Musolino e Walter Ignazitto. Le prossime udienze condurranno alla chiusura della fase istruttoria e inizieranno le loro requisitorie che renderanno il conto di anni di indagini, testimonianze e udienze.

Dal finire dello scorso anno c’è un nuovo collaboratore di giustizia, uomo che forse più di altri incarna il senso della citazione pirandelliana. Seby Vecchio è un ex consigliere comunale ed assessore, ma anche un ex poliziotto. Ruoli che rivendica, insieme a quello di “massone, ‘ndranghetista” ed ai suoi “contatti coi servizi segreti” che gli avrebbero permesso di conoscere in anticipo l’esecuzione di operazioni di polizia come ad esempio “Pedigree”, nella quale fu arrestato.

Nell’aula è collegato da remoto e il monitor ne proietta l’immagine di spalle. Nessun volto dunque, ma molteplici sono le “maschere” che emergono dal suo racconto.

‘Ndrangheta, politica, massoneria, servizi deviati “ormai sono un tutt’uno, bisognerebbe trovare un nuovo nome per associarle”. Mentre risponde alle domande del procuratore Lombardo, Vecchio tira in ballo nomi di politici influenti della città, ripercorre vicende note e meno note. “Ogni politico favorisce le ‘proprie’ cosche e di questi legami ci vantavamo quando parlavamo tra di noi”.

Lui dice di essere uomo dei Serraino, egemoni nel quartiere di San Sperato, dov’è cresciuto. La sua presenza serviva “a chiudere il cerchio” su un giro di affari e interessi che avrebbe coinvolto l’intera città. Tira in ballo l’ex sindaco di Reggio e governatore della Regione, Giuseppe Scopelliti, definendo il suo “atteggiamento sbilanciato in favore della cosca De Stefano”, potente “famiglia” che estende il suo controllo sul “mandamento Centro”. Vecchio rivendica la conoscenza di queste informazioni in quanto ex assessore proprio della giunta Scopelliti (suo testimone di nozze). La risposta dell’ex sindaco non si fa attendere e bolla come “menzogne” le esternazioni del collaboratore di giustizia. Starà agli inquirenti valutarne l’attendibilità.

E mentre va in scena il controesame, il pentito, sottoposto alle domande degli avvocati difensori, torna anche su un presunto attentato al Comune risalente allo scorso 2004. Per sentito dire, ci sarebbe dietro la regia del Sismi, e l’“interesse dell’ex capo, Nicolò Pollari”, ma anche l’aiuto della ‘ndrangheta, proprio per accrescere la popolarità dell’allora sindaco, che subito dopo quel fatto ottenne la scorta.

Il collaboratore di giustizia si definisce poi un “massone in sonno”, ovvero uomo iscritto alla massoneria “regolare” (nella fattispecie, al “Grande Oriente d’Italia”) ma impossibilitato a partecipare alle riunioni. “Dopo lo scandalo della pubblicazione delle foto che mi ritraevano al funerale del boss Domenico Serraino mi fu consigliato di ‘mettermi in sonno’. Non partecipai alle riunioni ma rimanevo massone come lo sono tutt’oggi”. Esisterebbe, sempre stando al suo racconto, anche un’altra massoneria “irregolare” o “deviata”, che si riuniva a Messina. Una componente parallela della loggia che avrebbe annoverato pezzi da 90 tra politici, magistrati e professionisti. “Non partecipai alle riunioni, ma mi consigliarono di farlo”.

Le “camere decisionali” erano tutt’altre rispetto ai palazzi della politica. E nella stanza dei bottoni, secondo quelle che sono le accuse mossegli dagli inquirenti di “Gotha” si sarebbe celato Paolo Romeo. Il pentito Vecchio dice di averlo incontrato. “Lui era il Dio di ‘ndrangheta e politica, per me incontrarlo era come se mio fratello incontrasse Ronaldo”.

E subito dopo il collaboratore di giustizia, sulla scena sale proprio lui: l’imputato principale del processo alla “cupola”.

Paolo Romeo è un ex deputato e componente del Psdi. È accusato di essere la “mente pensante” delle cosche, di averne orientato le scelte e favorito l’ascesa nelle stanze che contano. Le sue dichiarazioni spontanee, durate in prima battuta circa 9 ore, sono atte a dimostrare come lui non sia mai stato “un eversivo di destra, un massone e soprattutto una persona di potere”.

Secondo Romeo, la ‘ndrangheta non richiede avere una mente pensante perché “è un’organizzazione che non ha un’ideologia”. Quella dell’unitarietà della ‘ndrangheta, reggina e non solo, è la principale tesi proposta dagli inquirenti, e Romeo cerca di affondare i denti su questo aspetto: “Ogni cosca ha la sua azienda e i suoi interessi. Quando si tratta di investire fuori provincia costituiscono delle associazioni temporanee di impresa che durano soltanto il tempo dell’affare”. La sua storia politica e processuale è nota in città. Già condannato per concorso esterno nel processo “Olimpia”, Romeo viene spesso accostato ai movimenti eversivi di destra che, nella miscellanea con la criminalità, orientarono i violenti moti del 1970.

Anche in questo caso rinnega un suo eventuale coinvolgimento. “Non ero a Reggio nel luglio del 1970” così come “non ho mai fatto parte di Avanguardia Nazionale”. La prima stagione della sua vita Romeo la indica invece come quella della “militanza nel Movimento sociale italiano”.

Tra le contestazioni mossegli nel processo “Olimpia” spiccava quella di aver favorito la latitanza del terrorista nero Franco Freda in collaborazione coi De Stefano. Ed è proprio nell’ultimo atto del processo “Gotha”, a distanza di 42 anni da quel 1979, che Romeo ammette il suo coinvolgimento “insieme all’ex senatore Renato Meduri”.

Franco Freda era a processo (e ricercato) per la Strage di Piazza Fontana. Così, alcuni militanti dell’Msi avrebbero chiesto a Romeo e Meduri di ospitarlo a Reggio Calabria dove sarebbe stato scortato da Roma. “Per noi fu un atto politico e di solidarietà. Sapevamo che poteva essere illegale, ma accoglievamo Freda come perseguitato da quel sistema che voleva punirlo”.

Romeo racconta aneddoti dove descrive il loro “spirito goliardico” che “non era quello di dare asilo a un latitante”, tanto da portarlo in giro sul corso principale della città. “Un giorno gli presentai anche il capo della Digos”. La richiesta era di tenerlo per 15 giorni, che poi diventarono mesi. A quel punto Romeo, in accordo con altri, avrebbe organizzato il suo espatrio in Costarica, dove Freda verrà arrestato il 23 agosto 1979.

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