Il senso del 21 marzo: contro ogni violenza, “cambiare è possibile”
Il 21 marzo è una giornata speciale, che da tanti anni Libera rende piena di memorie, di affetti, di ricordi, di storie e di desiderio di giustizia. In tanti gliene siamo profondamente grati.
Ma ogni 21 marzo è anche il momento di una sempre più profonda e ampia responsabilità che Libera assume nei confronti delle vittime, di coloro che le hanno perse, e nei confronti di questo Paese e di tutti noi. La responsabilità riconfermata ogni 21 marzo è quella di alzare una bandiera – “cambiare è possibile” – invitandoci ad essere o a seguitare ad essere il motore di questo cambiamento.
Ovviamente, come tutte le cose umane, anche Libera non è perfetta. Ma ha una caratteristica credo unica. Non penso tanto al fatto che è un grande movimento nazionale, che può vantare tante vittorie, o al fatto che coinvolge nelle sue fila così tante persone esemplari e gode della fiducia di così tanti giovani.
Tutto questo è ovviamente importantissimo, ma penso essenzialmente alla sua capacità di credere nell’improbabile, di saper per questo risvegliare le nostre coscienze un po’ intorpidite, farci desiderare il meglio e non la mediocrità, e soprattutto di saper accompagnare il cambiamento dei cuori, anche lì dove non ci si aspetta che questo sia possibile.
Cosa che dimostra chiaramente il bellissimo progetto “Liberi di scegliere” che sostiene quelle famiglie cresciute nella ‘ndrangheta – soprattutto madri e figli – che vogliono avere una vita diversa. Il presupposto culturale e umano è che tutti possono cambiare, che la nostra umanità non va mai perduta, che può essere risvegliata, sostenuta, accompagnata e custodita. E che meritano di ricevere questo aiuto e questa attenzione proprio tutti, per il semplice fatto – come afferma la nostra Costituzione – che sono delle persone.
Questo semplice principio, che dal 1948 nutre la nostra Repubblica, rappresenta il massimo antidoto a qualunque forma di fascismo e di totalitarismo, per cui le persone non sono niente, e contrasta radicalmente quella che è la radice di ogni violenza, grande o piccola che sia, ovvero pensare che – per le “ragioni” più varie – un altro essere umano non sia umano come noi, o non lo sia affatto. Non è come noi perché è di un altro colore, di un’altra religione, sesso, provenienza, posizione sociale, doti fisiche, impostazione culturale, dirittura morale; perché è “cattivo”.
Appena si nega l’umanità di qualcuno, quel qualcuno diventa una cosa; gli si fa assumere un nome generico, offensivo e spersonalizzante (negro, ebreo, puttana…), o viene pensato come fosse solo una “funzione” o un “simbolo”.
Essendo una cosa può essere tranquillamente ferito o annientato, come è successo già negli anni ’70 e ’80 a tante brave persone (tra cui mio padre) ferite o uccise perché considerate dai militanti della lotta armata, appunto, semplici funzioni o simboli; o come è successo e seguita a succedere ai tanti che si oppongono a violenze e soprusi le cui vite per questo vengono in mille modi avvelenate o distrutte. Senza questa terribile premessa – “tu non sei come me” – ci può, e ci deve, essere rimprovero, conflitto, lite, discordia, ma non c’è violenza, perché si tratta di confronti tra persone che reciprocamente si riconoscono tali, e si rispettano.
Il principio che regge la violenza – “tu non sei come me” – si sconfigge solo se cambia lo sguardo con cui guardiamo l’altro, se desideriamo andare al di là di apparenze che possono farci sentire lontani, se crediamo che in tutti, ma proprio in tutti – anche i più cattivi – c’è un’umanità che può essere risvegliata. Per farlo occorre un cambiamento dei cuori.
Credo che nelle tante e belle attività di Libera possa essere trovato un posto per lavorare anche a questo particolare aspetto del contrasto quotidiano alla violenza, qualsiasi dimensione e manifestazione possa assumere.
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