Non solo l’8 marzo
Alcune riflessioni oltre la ricorrenza
Ritorna la Festa della donna pur in questo scenario pandemico, che rende ancora più pressante la domanda a proposito di cosa veramente si stia festeggiando. Il genere femminile ha pagato un prezzo altissimo in questa lunga sospensione della normalità che ancora perdura, e la sua condizione sembra peggiorata sotto qualsiasi lente la si voglia esaminare.
Sono le donne soprattutto ad avere perso il lavoro in questo ultimo anno (i dati ISTAT svelano che nel solo mese di dicembre, il numero degli occupati è calato di 101 mila unità, di cui 99 mila sono donne: dei 444 mila occupati in meno registrati in Italia in tutto il 2020, il 70% è costituito da donne); è il genere femminile ad essere stato colpito in maggior proporzione dall’aumento della povertà che è conseguito all’epidemia (il rapporto CARITAS 2020 rivela come una netta maggioranza dei richiedenti aiuto alle loro strutture sia composta da donne).
Non rallenta la violenza contro le donne, che anzi secondo alcuni studi il protrarsi del lockdown ha contribuito ad accrescere, in particolare essendo aumentati i femminicidi nei confronti delle conviventi. Nemmeno le mura domestiche (anzi si potrebbe dire, men che meno quelle) offrono alle donne la sicurezza per la loro condizione.
Non meno preoccupante è il contesto europeo. I dati pubblicati sul sito del Parlamento Europeo evidenziano con chiarezza l’effetto della pandemia sulla discriminazione di genere. Dei 49 milioni di persone impiegate nel settore sanitario, uno dei più esposti al virus, ben il 76% di esse sono donne (in Lettonia si registra la punta dell’88% di presenza femminile nel settore sanitario). Le donne sono sovra rappresentate nei servizi essenziali rimasti aperti durante la pandemia, che vanno dalla vendita all’assistenza all’infanzia. Nell’UE, le donne rappresentano l’82% di tutte le persone addette alle casse e il 95% delle persone impiegate nei lavori domestici e assistenziali. Circa l’84% delle donne lavoratrici tra i 15 e i 64 anni sono impiegate nei servizi che stanno affrontando perdite di posti di lavoro, per non parlare dell’occupazione femminile nell’economia informale, dove alberga l’assenza di assistenza sanitaria, di congedo per malattia e indennità di disoccupazione.
Anche nell’unione Europea si assiste ad un’escalation di violenza contro le donne, ogni settimana circa 50 donne perdono la vita e l’uso di internet, in questo tragico contesto di chiusura, ha aumentato anche la violenza di genere on line e il numero di abusi sessuali sulle bambine.
L’11.2.2021, 25 anni dopo la dichiarazione e la piattaforma d’azione di Pechino, è stata approvata la Risoluzione del Parlamento europeo sulle sfide future in relazione ai diritti delle donne in Europa, una risoluzione che affronta i temi delle donne e della povertà, delle donne e dell’economia, delle donne e della loro presenza nei processi decisionali, delle donne e della violenza di genere, delle donne e del diritto alla salute.
L’8 marzo segna dunque una ricorrenza che deve soprattutto servire a rimettere al centro la questione femminile, diventata in questi mesi ancora più grave ed urgente. Non si può immaginare di uscire dalla crisi senza una serie di interventi mirati a rilanciare l’obbiettivo della parità, che sembra essersi ulteriormente allontanato, così come, più in generale, sono stati travolti dalla pandemia il tema dell’eguaglianza e quello della lotta contro le discriminazioni. Una rivista come Questione giustizia da sempre interpreta il suo ruolo come stimolo necessario ad una riflessione critica che serva a mettere a fuoco lo “stato di salute” dei diritti, e, per ciò di cui si parla, in particolare di quelli delle donne.
Non solo l’8 marzo, dunque: non vogliamo che sia così, perché un rituale e stereotipato omaggio finirebbe solo per suonare come ulteriore indice di emarginazione e di inferiorità.
Tanti sono i temi su cui la rivista si è soffermata con le sue pubblicazioni, a cui in questo giorno serve rinviare il lettore per le sue riflessioni: solo per fare degli esempi, si è parlato di lavoro (Quale lavoro femminile al tempo del Covid-19? Ritorno al passato), di violenza di genere e risposta penale (Femminicidi di Bologna e Genova: perché quelle sentenze potrebbero sbagliare; A margine della sentenza di Cassazione n. 15683/19 che ha annullato con rinvio la sentenza della Corte di appello di Ancona in materia di violenza sessuale del 23 novembre 2017; Gli stereotipi di genere tra prospettiva sociologica e codice rosso; Il Rapporto sulla legge Codice rosso ad un anno dalla sua entrata vigore. Norme, dati, modelli operativi e panorama internazionale), di condizione delle migranti (La tutela processuale delle donne vittime di tratta), e anche di quella di chi si prostituisce (Libere di prostituirsi? Commento alla sentenza n. 141/2019 della Corte costituzionale). Si sono denunciati i tentativi di ridurre i confini della libertà di aborto (La legge e il corpo delle donne: la mozione del consiglio comunale di Verona del 27 settembre 2018).
Abbiamo infine reso omaggio a grandi donne, a giuriste e ad avvocate che con la loro lotta personale, in alcuni casi sino al sacrificio finale, hanno lanciato al mondo un messaggio potente di eguaglianza e di libertà (Ancora una donna, ancora una avvocata. Per Nasrin Sotoudeh; La morte di Ebru Timtik e la repressione in Turchia; Ruth Bader Ginsburg, una vita giuridica contro la discriminazione e la violenza di genere; Il prezzo di essere un giudice indipendente (donna) in Guatemala).
Oggi abbiamo però scelto di ripubblicare un articolo a suo tempo particolarmente apprezzato dai lettori di Questione giustizia, la recensione al libro Per gelosia d’amore di Licia Badesi, dove si raccontano le storie, vere, risalenti ma estremamente attuali, di donne vittime di violenza che pur tra enormi difficoltà ed ostacoli hanno saputo dire il loro no, denunciando chi le perseguitava, e che ciononostante in molti casi non sono riuscite a trovare protezione, comprensione, salvezza.
E anche il mondo della giustizia spesso non ha saputo, o non ha voluto, dare loro riparo: «C’è un costante fondo di comprensione per l’uomo che passa all’atto violento, che si esprime lungo tutto il percorso processuale. Inizia spesso con indagini benevole e paternalistiche in cui il punto di vista o anche la dichiarazione puntuale della donna-vittima vengono svalutati o messi in dubbio; e trova compimento in sentenze nelle quali si fa largo uso degli istituti – variamente disciplinati nei diversi codici che l’arco temporale della ricerca incrocia – della provocazione, della reazione ad atto ingiusto altrui (l’atto della donna indocile), dell’incapacità o semi-incapacità di intendere e volere (per passione, per gelosia). E’ l’atto violento che diventa giustificazione di se stesso, attraverso il percorso della ritenuta inevitabilità prodotta dalla passione o della ritenuta necessità di reazione a una inammissibile disobbedienza».
Nonostante il tempo trascorso da quelle vicende, c’è molto di attuale in queste considerazioni, e questo tanto più amareggia: non solo l’8 marzo, dunque, perché non basta, perché occorre impegno, continuo, in tutti i campi, per far crescere una coscienza collettiva in grado di dare le mosse al cambiamento. Questo 8 marzo, per Questione giustizia, si continua dunque nello stesso senso di marcia.
Fonte: Questione Giustizia
Per gelosia d’amore, di Licia Badesi*
di Giuseppe Battarino**
E’ nella prima delle storie tratte dagli atti processuali di corti pre- e postunitarie (l’arco di tempo va dal 1862 al 1928) che si trova l’espressione da cui Licia Badesi ha tratto il titolo del suo nuovo libro, pubblicato nel settembre 2020.
Teodolinda M., detta Linda, viene uccisa da Francesco B. a colpi di falcetto. Ma, si leggerà nella sentenza, quel delitto, premeditato, fu commesso «sotto l’influenza di una passione per gelosia d’amore sì forte da attenuare la sua imputabilità»: la pena irrogata, già «minimale», si riduce, per la riconosciuta parziale incapacità, a dieci anni di reclusione.
In quella, e nelle altre storie, risolte narrativamente in maniera scorrevole ma sempre fedele agli atti di indagine, a quelli dei processi e alle sentenze, si assiste alla ricostruzione di un mondo in cui l’atteggiamento di uomini violenti, infingardi, gonfi della loro esibita superiorità ma pronti alla fuga, alla menzogna e alla dissimulazione quando indagati, si salda con un contesto sociale che dà per acquisita e insuperabile la subordinazione della donna.
Non è tanto la soluzione giuridica data ai singoli casi che rileva: quanto la sensazione che emerge progressivamente nel lettore di un “comune sentire” tra gli autori dei delitti, le famiglie, il vicinato, gli investigatori (sottufficiali di piccole stazioni dei Carabinieri, delegati di Polizia), giudici togati di diversi uffici e giudici popolari delle Assise.
Le pagine del libro sono affollate da questi personaggi, di cui appare, nel corso della lettura, la frequente ostilità o al più l’indifferenza nei confronti delle donne, giovani, giovanissime o mature che siano: soprattutto di quelle “indocili”, perché non si sottomettono all’autorità dell’uomo (padre, marito, fidanzato) o perché rifiutano le “passioni d’amore” di cui sono oggetto.
Oggetto, appunto: sono riportate in più casi, perché acquisite agli atti dei processi, le lettere degli appassionati uomini: piene di luoghi comuni, di prosa da “segretario galante”; e prive di reale empatia.
D’altro canto ci sono donne, anche molto giovani e prive di sostegno, che sanno dire i loro no; costrette spesso a cercare nella fuga la tutela che sindaci, parroci, carabinieri e pretori – di volta in volta sollecitati a intervenire – non riescono a garantire loro. Ma il più delle volte raggiunte dagli uomini a cui hanno cercato di sfuggire, che si trasformano da persecutori in aggressori.
L’uomo che non sopporta di essere respinto o quello che non tollera di non essere obbedito hanno dalla loro l’opinione pubblica, il conformismo dell’assoggettamento femminile e dello scandalo da evitare.
L’applicazione della legge scritta si sintonizza su quelle leggi non scritte. C’è un costante fondo di comprensione per l’uomo che passa all’atto violento, che si esprime lungo tutto il percorso processuale. Inizia spesso con indagini benevole e paternalistiche in cui il punto di vista o anche la dichiarazione puntuale della donna-vittima vengono svalutati o messi in dubbio; e trova compimento in sentenze nelle quali si fa largo uso degli istituti – variamente disciplinati nei diversi codici che l’arco temporale della ricerca incrocia – della provocazione, della reazione ad atto ingiusto altrui (l’atto della donna indocile), dell’incapacità o semi-incapacità di intendere e volere (per passione, per gelosia).
E’ l’atto violento che diventa giustificazione di se stesso, attraverso il percorso della ritenuta inevitabilità prodotta dalla passione o della ritenuta necessità di reazione a una inammissibile disobbedienza.
Il tentativo di autodeterminazione della donna, nell’uno e nell’altro senso, è considerato una stravaganza, a sua volta talora oggetto di valutazioni psichiatriche.
Con scelta opportuna, nella seconda parte del libro sono sintetizzate vicende di reati procedibili a richiesta di parte in cui la querela non viene presentata o viene rimessa: violenze domestiche e violenze sessuali che rimangono prive di sanzione, per le pressioni familiari, i “buoni uffici” di taluni personaggi, o, semplicemente, per una consapevole sfiducia delle vittime nella giustizia.
Le considerazioni sull’evoluzione delle leggi, che aprono e chiudono il libro[1], inducono a riflettere sui tempi lunghi della risposta normativa alla questione di genere e, insieme, sui tempi lunghi e incerti dell’evoluzione culturale che la deve precedere e accompagnare.
Intervista all’autrice, Licia Badesi
Il libro è frutto di una accurata ricerca nell’Archivio di Stato; ed è stato preceduto da studi di analoga impostazione: come nasce l’interesse per questo tipo di ricerca?
Il mio scopo era quello di compiere una ricognizione nella storia della gente comune, che firma i verbali con una croce, che non sa niente di codici e di giustizia, che si adegua alla tradizione senza porsi domande, che lascia traccia di sé solo quando incappa nei rigori del codice.
In particolare volevo approfondire la condizione della donna non attraverso lo studio delle leggi del tempo, ma attraverso il vissuto, il caso per caso, con l’intento di raccogliere impressioni, situazioni, stati d’animo per quanto sia possibile ricavarne da documenti giudiziari.
Anche negli studi precedenti ho interrogato i documenti d’archivio con questo intento. Un dato emergeva con evidenza: i reati per cui le donne erano trascinate davanti alla giustizia riguardavano aborto, infanticidio, abbandono di infante, stupro, seduzione alla libidine, incesto. Insomma la loro sfera sessuale.
Ebbene soltanto negli ultimi decenni sono state approvate leggi che hanno spazzato via delitto d’onore e matrimonio riparatore, riformato il diritto di famiglia, affermato il diritto delle donne ad accedere a tutte le professioni compresa la magistratura, promulgato le norme per la tutela della maternità e l’interruzione volontaria della gravidanza, e contro la violenza sessuale.
L’opinione pubblica, il conformismo, l’applicazione della legge: come si compongono nelle storie di Per gelosia d’amore?
Il conformismo ha radici robuste. I frequenti femminicidi di cui ci parla la stampa sono la prova del fatto che le leggi non bastano. Io amo ricordare due libri che ebbero successo agli inizi degli anni Settanta: Dalla parte delle bambine di Elena Belotti, e Maschio per obbligo, di Carla Ravaioli. Ecco: vi si poneva il problema dell’educazione alla libertà fin dalla prima infanzia.
Quel problema non sembrava urgente quanto il rinnovamento delle leggi. E si capisce. Così il problema di un’educazione non conformista è ancora sul tappeto.
Il clima sociale descritto nel libro è quello dei sessant’anni compresi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento in una provincia lombarda: ma ci sono indici analoghi in altri luoghi e in epoche diverse?
Non sono in grado di dire se in altre regioni italiane si sia verificato lo stesso clima sociale che ho rilevato nei documenti che si riferiscono al territorio comasco. Tuttavia mi sembra interessante la ricerca di una studiosa di Siracusa, Renata Russo Drago (ricerca relativa a un periodo assai ampio che va dal XVI secolo al fascismo), che delinea un quadro inquietante della condizione della donna. Ricordando per esempio che verso la fine del ‘700 le donne incinte nubili erano denunciate e diffamate pubblicamente.
Ma mi sembra più interessante quello che accade ai nostri giorni nei paesi più diversi. Penso a Malala, pakistana, colpita da un’arma da fuoco in pieno volto per aver rivendicato il diritto allo studio; penso a Nawal El Saadawi, una figlia di Iside (come lei si definisce) che si ribella «a una società in cui la nascita di una femmina equivale a una sventura».
Si può dare una valutazione storica complessiva del movimento delle donne?
Il movimento delle donne è stato definito come la sola rivoluzione vincente del Novecento. Una rivoluzione che investe tutti i continenti.
Mi piace immaginare il movimento delle donne come un fiume carsico che non sempre scorre in superficie. Si inabissa qualche volta. Ma non muore. E torna a scorrere impetuoso quando serve.
Ogni 25 novembre celebriamo in tutto il mondo la Giornata per l’eliminazione della violenza sulle donne: buon segno.
Note
[*] Licia Badesi ha partecipato al movimento femminista a Milano negli Anni ’70; è stata deputata del PCI nella IX legislatura dal 1983 al 1987; ha collaborato con le riviste Rinascita e Donne, parlamento e società; è stata dirigente dell’Unione Donne Italiane. Le sue ricerche storiche hanno prodotto i libri Donne davanti alla giustizia nel Lombardo-Veneto, NodoLibri, 2013, in cui si ricostruiscono casi di “stupro, aborto, esposizione di infante” nel periodo 1818-1862; e Separati di letto e di mensa, Elpo, 2017, in cui analizzano gli sviluppi delle separazioni coniugali tra il 1865 e il 1928. Per gelosia d’amore. Dai documenti dell’Archivio di Stato di Como 1862-1928 è stato pubblicato nel settembre 2020 a cura di Soroptimist International Italia al fine di destinare integralmente i ricavi delle vendite a un progetto di sostegno a donne vittime di violenza (è ordinabile su IBS o con mail all’indirizzo segreteria.soroptimist.como@gmail.com ).
[**] magistrato collaboratore della Commissione bicamerale d’inchiesta sulle ecomafie
[1] Viene citata l’utile pubblicazione della Fondazione Iotti, Le leggi delle donne che hanno cambiato l’Italia, 2013
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