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Dalla salute alla scuola un piano per i “bambini invisibili”

Geppino Fiorenza * il . Campania, Chiesa, Giovani, Società

È accorato il richiamo di Gennaro Pagano, Cappellano del carcere minorile di Nisida, dalle pagine del Mattino.

Pone giustamente al centro l’attenzione dovuta a quello che lui chiama “il bambino invisibile” o il ragazzo cresciuto senza saldi riferimenti sociali, morali, culturali che diventa preda e vittima lui stesso di una subcultura della violenza e della sopraffazione che lo porterà in carcere o alla morte.

Guardo con grande rispetto ed interesse alla preoccupazione ed all’intervento della Chiesa contro la povertà educativa, che spero sarà potenziato da nuova linfa. Ma sarebbe sbagliato non riconoscere la ricchezza di una rete di realtà sociali, culturali, educative impegnate nella stessa direzione. Altra cosa sacrosanta è vigilare sui fenomeni distorsivi che don Gennaro denuncia, per evitare l’insorgere di preferenze e monopoli nella gestione di risorse.

Ma il punto è proprio questo. Io credo sia proprio sbagliato pensare che le risorse che si rendessero disponibili per un piano nazionale che abbia al centro bambini o ragazzi possano essere elargite a pioggia per sostenere questo o quel progetto, quant’anche valido.

Sono convinto che sia necessaria una “visione strategica” ed un governo centralizzato dei processi, che devono determinare innanzitutto radicali trasformazioni anche di tipo istituzionale, intendo in primo luogo delle istituzioni sociali, sanitarie, educative.

Se non si affronta, per esempio, la qualità dell’intervento sociosanitario nella primissima infanzia, che permetta di monitorare ed accompagnare bambini e genitori più in difficoltà per ragioni sociali ed economiche, ma anche culturali ed ambientali, non affronteremo “alla radice” il problema. Una serie di indicatori, se prontamente raccolti, analizzati ed utilizzati permettono di intercettare “precocemente” un disagio che rischia di proiettarsi nel futuro, consolidandosi in una prospettiva di emarginazione e di devianza, fino a conseguenze più estreme.

L’esperienza, ad esempio, del programma di “Adozione sociale”, sperimentato dal compianto Peppe Cirillo, Paolo Siani e loro colleghi è altamente illuminante. Dall’osservazione e raccolta dati nei “punti nascita”, con intervento conseguente di accompagnamento e monitoraggio, per tutto il tempo necessario, nei primi anni di vita di bambini con famiglie in difficoltà.

Ma significa formazione, personale medico ed assistenti sociali qualificati “in gran numero”. Non può essere un progetto di volontariato, ma un intervento strategico istituzionalizzato.

Così come pure le esperienze di lettura precoce per bambini e le loro mamme, supportate dalla validazione scientifica internazionale per gli esiti di un sano sviluppo emotivo, cognitivo e relazionale, che andrebbero promosse istituzionalmente, anche regione per regione, come in Campania già avviene e sono in corso di potenziamento, grazie ad una Legge approvata in Consiglio regionale. E che dire degli Asili Nido, con la loro funzione fondamentale per la salute mentale e l’esperienza di socialità positiva per i bambini ed il loro e nostro futuro? Ma sono intollerabili le diseguaglianze tra Nord e Sud, già tante volte denunciate proprio da questo giornale.

Ma siamo ad un fondamentale livello di tipo “primario”.

Poi naturalmente andrebbe strutturata la strategia per un livello di tipo “secondario”, che chiama in causa il mondo della scuola, le sue istituzioni centrali e periferiche, sul piano della formazione di docenti ed operatori, includendo anche in varia forma i genitori, ma anche sul piano delle opportunità umane e materiali, oltre che tecnologiche. Avete memoria del Tempo pieno, del Tempo prolungato, della scuola con la mensa? E per combattere l’evasione scolastica, basta solo raccogliere statistiche oppure affidarsi alle denunce verso i genitori inadempienti? O forse bisognerebbe guardare ai “Maestri di strada”? Non singoli progetti, ma “sistema”, su cui esiste un’attenzione scientifica internazionale?

Poi vengono i ragazzi “cattivi”, che lo sono innanzitutto nel senso etimologico di “captivi”, prigionieri cioè delle loro deprivazioni, come spiega bene Winnicott, del loro ambiente più intimo o sociale, delle loro stesse scelte sbagliate che li fanno prede e vittime.

Ma qui concordo con quanti sono già intervenuti nel dibattito, da Lepore, a Maria de Luzenberger, agli operatori di Jonathan e di “un carcere possibile”, riconoscendo il gran lavoro che si fa già dentro le carceri minorili. Ma liberare quei “prigionieri” deve essere compito di una strategia di sistema. E qui certo andrebbe capitalizzata, raccolta, messa a confronto l’esperienza sul territorio di tantissime importanti esperienze dal centro alle periferie delle città.

Ma anche in questo caso torna l’ipotesi generale. Non si tratta solo di sostenere o accompagnare questa o quella “buona pratica”. Si tratta di “mettere a sistema”, con una visione strategica generale, senza nulla togliere alla ricchezza degli interventi già esistenti.

Un lavoro tutto da fare, ma il cui tempo è venuto.

* AsCenDeR, Ass. Centro di Documentazione e Ricerca

Fonte: Il Mattino, 09/02/2021

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