Non sappiamo perché la Quinta sezione penale della Cassazione abbia dichiarato “inammissibile” il ricorso contro la restituzione del patrimonio confiscato a Mario Ciancio, il tycoon siciliano sotto processo per la sua vicinanza a esponenti di Cosa Nostra. Questa vicinanza, accertata in sede d’indagine e di sentenze, secondo alcuni giudici (quelli del primo grado) ne fa un elemento pericoloso e da tenere a bada; secondo altri (quelli dell’appello) è un elemento trascurabile e privo di effetti materiali. Il potere da lui esercitato in quanto monopolista dell’informazione è, ancora, un dato allarmante secondo i primi, ma perfettamente normale a parer dei secondi.
Non conoscendo le motivazioni della Cassazione, che in genere vengono pubblicate dopo settimane o mesi, non sappiamo se essa abbia abbracciato questo secondo parere o se l’inammissibilità si riferisca a un qualche aspetto formale, come per i tanti mafiosi scarcerati per un indirizzo impreciso o una data sbagliata in un atto. Da buoni giornalisti, dovremmo riservarci il giudizio alla visione delle “carte” definitive, e dovremmo altresì sottolineare che l’atto della Cassazione non avrebbe comunque rilevanza nel vero e proprio processo – colpevole o innocente – a carico del Ciancio per i suoi acclarati rapporti coi mafiosi.
Purtroppo, però, noi non esercitiamo il giornalismo a Stoccolma bensì a Catania, dove la giustizia non si occupa, o non dovrebbe occuparsi, di semplici e circoscritti reati ma di tutto un sistema durevole, egemonico e articolato, le cui vittime non sono solo i cadaveri raccolti la mattina sui marciapiedi ma gli uomini, le donne e i bambini che vivono innocentemente la loro vita quotidiana, una vita che è più povera, più violata, meno umana di quella che gli sarebbe stata assegnata in una città senza mafia. Nè i giudici esercitano la loro opera a Stoccolma, o nella famosa Berlino del vecchio motto.
La parola “sentenza” qui ha un valore differente: qui a volte bisogna lottare per anni e anni – il professore D’Urso, Pippo Fava, il giudice Scidà – per arrivare non a una sentenza giusta, o almeno ragionevole, ma proprio semplicemente a una sentenza, a portare un potente di fronte a un giudice: che il processo si faccia è già di per sè una vittoria civile; e quello a Mario Ciancio. con tutte le sue traversìe, ostacoli, omertà, mobilitazioni mediatiche di notabili e baroni, ne è un caso esemplare.
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“Giornalismo”, dicevamo. Il giornalismo non è niente di particolarmente elevato, è semplicemente un servizio reso alla comunità, come tanti altri: il medico, il maestro di scuola, il carabiniere, il pompiere, il giornalista. Ognuno di questi servizi ha un contenuto concreto, ben poco eroico, anzio banale. Il medico, per esempio, non è affatto in primo luogo tenuto a guarire la gente (potrebbe sbagliare una diagnosi, non essere al corrente di una cura, o anche quel giorno essere semplicemente stanco. Egli è tenuto semplicemente a non ammazzare volontariamente il suo paziente, a non trarre profitto dalle sue visite e a fare del suo meglio per salvargli, se possibile, la pelle. Questo egli giura solennemente da giovane medico, all’inizio della carriera: si chiama giuramento di Ippocrate, e c’è da tremila anni. Il vecchio internista o il dottorino che in questi giorni vediamo morire come soldati, e che sono per ogni altro verso persone normalissime come me e voi, ubbidiscono a questo giuramento.
Noialtri giornalisti non abbiamo, formalmente, un giuramento del genere. Ma ciascuno di noi sa benissimo, dopo qualche anno di questo mestiere, che cosa può e che cosa non può fare. Può essere vanitoso, sbruffone, può essere – Dio non voglia – superficiale o approssimativo. Ma non può mai, mai, assolutamente, per nessun motivo, ingannare consapevolmente il lettore. Non può dagli notizie false, non può nascondergli – consapevolmente – notizie vere. Non può rimuovere il contesto in cui queste notizie si muovono. Non può neanche rimuovere il contesto in cui egli stesso opera. E’ responsabile della propria firma, ed è anche responsabile del luogo in cui la sua firma è contenuta. Risponde del suo articolo, della sua inchiesta, ed anche del suo giornale: del quale il lettore non è tenuto a conoscere le traversìe, ma lui sì; non può far finta di niente.
La gerarchia dei giornali è rigidissima e il redattore, da solo, ha poco potere. Ma può ritirare la firma, può protestare pubblicamente coi colleghi, può scioperare, può occupare il giornale, può farsi licenziare d’autorità, può dormire la notte su una panchina: non può tradire il lettore, sennò sarà magari un grand’uomo, ma non più un giornalista.
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Nella storia di Ciancio ci sono delle vittime, moralmente, che non sono nè mafiosi e nemmeno malfattori. Sono esseri umani, nè migliori nè peggiori degli altri – alcuni professionalmente capaci, qualcuno addirittura coraggioso – che hanno lasciato correre, come cosa non loro, la sorte del loro giornale. Il giornale di Ciancio, in occasioni diverse, ha appoggiato i mafiosi. Egli stesso, prima per voce pubblica e poi per sentenza di tribunale, se ne è fatto amico. I denari del giornale, per sua stessa ammissione, in questi ultimi anni non provenivano dalle vendite, dall’industria, ma dal suo insondabile patrimonio personale. Ed essi non si sono ribellati, non hanno obiettato, non si sono addirittura peritati di dirsi solidali a un tal padrone. Per ciascuno di loro possiamo umanamente comprendere – il pane, la famiglia, la legittima ambizione di carriera – ma per tutto il complesso no. Sono stati dei redattori, ma non una redazione.
Adesso il giornale agonizza; si rischia di lasciare la città senza un giornale. Tipografi e corrispondenti locali – i più modesti, e i più ligi al dovere – rischiano tutto, e anche i giornalisti meno potenti cominciano a rischiare qualcosa. Si poteva evitare, ci si poteva battere, prima in tutti quegli anni di palude e dopo, nei mesi di amministrazione controllata in cui si poteva ricostruire, adeguare il prodotto, conquistare soprattutto un’immagine, di fronte ai lettori e al grande pubblico, completamente diversa. Si è preferito rimuovere, nascondere la testa sotto la sabbia, far finta di non vedere. “Io ubbidivo agli ordini”. Già. Come sempre.
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Ma c’era un’altra scuola, nella città. Pippo Fava, i carusi, i giornali dei giovani, i Siciliani. Decine di giornalisti giovani, cresciuti in quest’altra scuola, che adesso ritrovi – inviati, capiredattori, giornalisti affermati – nelle migliori testate di mezza Italia. Centinaia di ragazzi, cresciuti qui, che sono, per quant’è lunga l’Italia, italiani esemplari, amanti del bene pubblico, impegnati: “Io ambisco al massimo onore, – diceva Titta Scidà – essere un cittadino”; e questi nostri ragazzi lo sono stati.
In una città che già correva, nella cecità, verso il baratro Pippo Fava, che vedeva il presente, e prevedeva il futuro, seppe scegliere di chi fidarsi, e si fidò dei giovani. Delle due scuole di giornalismo catanesi una, quella ufficiale e potente, finisce nella miseria e nella vergogna; l’altra, quella dei ragazzi e dei poveri, è qui, fra mille traversìe ma viva e sana. Dalle inchieste sui capi della mafia padrona come Montante a quelle sui boss del territorio come a Palagonia o a Gravina, i giovani redattori dei Siciliani fanno il loro dovere, generazione dopo generazione, eredi di un gran mestiere e di un gran cuore.
Fonte: I Siciliani Giovani
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