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Magistratura, questione morale o questione democratica?

Nello Rossi * il . Giustizia, Istituzioni, Società

Che cosa si è alterato nelle dinamiche dell’associazionismo giudiziario, determinando la riduzione o lo svilimento della vita associativa e la contemporanea creazione di canali decisionali paralleli a quelli istituzionali? A volte si è trattato del dominio incontrastato – o poco efficacemente contrastato – di un leader; altre volte dello stabilizzarsi di un governo dei notabili, con il corredo di apparati soggetti e di ferree sfere di influenza territoriale; in altri casi, infine, della costituzione di oligarchie divenute via via meno responsabili rispetto alla loro base associativa ed elettorale. La “questione morale” rivela il suo carattere più profondo e strutturale di “questione democratica”, da affrontare con metodi e rimedi diversi dalla prima. 

1. Questione morale? 

Da quando la magistratura italiana è stata investita dal sisma “ondulatorio” dello scandalo degli incontri romani sulle nomine e “sussultorio” della successiva divulgazione delle chat, i giudici italiani si interrogano aspramente sulla crisi, chiamandola quasi sempre “questione morale”.

Ma davvero questo nome – questione morale – è appropriato ed esauriente per il grumo di problemi sollevato da quanto è accaduto a singoli magistrati ed alle loro associazioni?

L’espressione, così ricorrente, individua effettivamente i tratti essenziali e il nucleo centrale del fenomeno emerso a seguito delle indagini della Procura di Perugia?

La domanda non nasce da un mero puntiglio terminologico o dall’ansia formale di trovare ed usare la parola giusta.

Dal nome che si dà ad un insieme di fatti derivano conseguenze significative sul piano della ricerca delle loro cause e della latitudine dei rimedi da porre in atto.

2. O questione democratica? 

Non v’è dubbio che, dal maggio 2019 in poi, sia venuta alla luce una lunga catena di violazioni – di diversa gradazione e intensità – dell’etica professionale propria dei magistrati.

Nell’ampia messe delle “scoperte” figurano violazioni del codice etico, condotte contrastanti con le norme del codice disciplinare, comportamenti tali da generare situazioni di incompatibilità con determinate funzioni e/o con la permanenza in determinate sedi.

Etica e disciplina sono state di volta ignorate, contraddette, violate e questo giustifica ampiamente il richiamo, nella descrizione dell’accaduto, a canoni etici e precetti disciplinari.

Eppure la dimensione etica e disciplinare è ben lontana dal riassumere ed esaurire in sé l’intera sostanza e portata delle vicende disvelate.

Salvo l’isolata posizione di Luca Palamara – che dovrà affrontare a Perugia un processo per un’accusa di corruzione, peraltro diversa da quella originariamente ipotizzata nella fase iniziale delle indagini – e i procedimenti in corso per rivelazione di segreti d’ufficio, tutti gli altri “fatti” di cui si parla non sono ipotetiche condotte criminose incidenti sull’esercizio della giurisdizione né solo comportamenti eticamente riprovevoli o disciplinarmente rilevanti.

Si è invece di fronte a occasionali o sistematiche alterazioni e torsioni dei poteri istituzionali del CSM (essenzialmente riguardanti le nomine) poste in essere grazie ad un uso sotterraneo e strumentale della trama di rapporti e collegamenti personali nati in seno alle associazioni dei magistrati o coltivati in impropri rapporti con politici.

Scaturiscono cioè da modalità di azione che – senza influire direttamente sull’esercizio delle funzioni giudiziarie – si sono appuntate pressoché esclusivamente sulla “amministrazione della giurisdizione” e sulle dinamiche della vita associativa che a tale amministrazione offrono il naturale alimento e supporto.

Sul piano dell’analisi sociologica e politica, dunque, insistere esclusivamente sui profili di etica professionale o di responsabilità disciplinare – pure indiscutibilmente presenti nella vicenda – rischia di oscurare e far passare in secondo piano un altro e non meno rilevante interrogativo: che cosa si è alterato nell’associazionismo dei magistrati che ha finito con il ridurlo a docile strumento di maneggi per le nomine, degradandolo a lobby di pressione e di più o meno sistematica distorsione delle logiche  del governo autonomo della magistratura?

Se si adotta questo angolo visuale la c.d. questione morale rivela il suo carattere più profondo e strutturale di “questione democratica”, che riguarda il deficit e la caduta di democrazia che si è determinato nella vita delle associazioni di magistrati che compongono il mosaico costituito dall’ANM e influenzano, con la loro complessiva attività, il Consiglio superiore.

Se la previsione, in Costituzione, di un Consiglio superiore della magistratura per i due terzi “elettivo” è un esperimento di democratizzazione della “amministrazione della giurisdizione”, è nel funzionamento di questa peculiare “democrazia” che risiedono e vanno ricercati i valori e le miserie, i pregi ed i difetti, i fattori di forza e di debolezza del sistema.

All’esito, quale che sarà, delle diverse procedure sanzionatorie in atto – nell’ANM e dinanzi al CSM – si potrà forse immaginare che la questione morale sia risolta con la sanzione dei reprobi.

Ma questo lavacro, anche se attuato con rigore ed imparzialità, lascerà certamente irrisolta la “questione democratica” – drammaticamente affiorata nella forma dello scandalo ma esistente prima e a prescindere da esso – concernente le forme di esistenza ed il modus operandi dei diversi gruppi associativi e la proiezione della loro azione nel circuito del governo autonomo della magistratura.

A questa prima, del tutto naturale considerazione, se ne accompagna un’altra assai meno scontata.

Il deficit di democrazia dei gruppi – con il suo corredo di modestie etiche e disinvolture politiche – ha assunto forme notevolmente differenti nelle diverse associazioni, in ragione della loro storia, della loro cultura e, soprattutto, delle loro strutture organizzative e dei loro collegamenti esterni, culturali e sociali.

Così che, senza distinguere tra storie, percorsi e “macchine” organizzative delle diverse correnti, si rischia di capire poco o nulla di quanto è accaduto e di ripetere luoghi comuni largamente diffusi ma inadatti a far comprendere i fenomeni osservati e il loro grado di effettiva nocività

3. Che cosa c’è di più e di diverso rispetto al passato nella crisi attuale? 

Occorrerà dunque che l’attenzione dei magistrati e degli osservatori esterni si concentri sui diversi aspetti della democrazia del giudiziario.

“Democrazia” nella vita delle singole associazioni che raggruppano i magistrati e nell’associazione unitaria che tutti li rappresenta e “democraticità” dell’amministrazione della giurisdizione che tramite i rappresentanti eletti ha l’ambizione di trasformare i governati in amministratori, secondo lo schema tipico della democrazia rappresentativa.

Diciamolo subito: le formule passe-partout che deprecano in toto le degenerazioni correntizie del presente e lamentano il regresso delle correnti rispetto ad un passato di genuine tensioni ideali e di scontri vivaci sui massimi problemi non sono aderenti alla storia e non spiegano nulla del presente a causa della loro intollerabile genericità.

Non c’è mai stata un’età dell’oro nella quale le correnti, misurandosi sul terreno delle divergenze ideali e culturali, erano universalmente accettate e legittimate.

Al contrario gli scontri interni, spesso veementi, si svolgevano all’insegna della reciproca delegittimazione tra innovatori, bollati come eversori, e conservatori dello status quo, ai quali si addebitava l’arroccamento su posizioni retrive ed antistoriche.

E ciò mentre, fuori della magistratura, le polemiche, i clamori erano, se possibile, ancora più alti. Senza farsi mancare (anche allora) uno stuolo di pettegolezzi.

Né, oggi, il parziale superamento di alcuni degli antichi e furibondi conflitti (ad es. sulla libertà di critica dei provvedimenti giudiziari, sui temi dell’indipendenza interna, sulla libertà di espressione dei magistrati) vale a far dire che vi è stato un allineamento ed un processo di osmosi tra le diverse culture presenti nel corpo della magistratura.

Nelle fasi storiche in cui si allenta, anche solo di poco, la pressione di una politica ostile sui valori essenziali dell’indipendenza e della autonomia, riaffiora nella magistratura il paesaggio frastagliato e ricco di asperità delle diverse vedute, dei differenti orientamenti, delle divergenze difficili da comporre.

Immigrazione, carcere, lettura dei diritti di libertà e dei diritti sociali, garanzie nel processo penale interpretazione del ruolo del magistrato nella società: questi e molti altri temi continuano a dividere i magistrati non come meri epifenomeni destinati a coprire omertà e solidarietà corporative ma come linee di faglia reali nella cultura di giudici e pubblici ministeri e nel taglio di molti dei loro provvedimenti.

Dunque, passato e presente della magistratura sono entrambi segnati da un’aspra e incessante dialettica interna tra visioni differenti.

Ed allo stesso modo passato e presente del corpo giudiziario testimoniano di condotte criminose, cadute, collusioni, connivenze. Comportamenti, questi, esaustivamente riconducibili alla “questione morale” e meritoriamente portati alla luce e sanzionati dall’iniziativa di altri magistrati.

Ciò che il presente ci mostra di più e di diverso rispetto alla storia recente della magistratura è la penetrazione della crisi nel cuore dei meccanismi della democrazia associativa e della democrazia consiliare, cioè nelle strutture sociali ed istituzionali che dovrebbero costituire i naturali antidoti all’affermarsi di prassi deteriori nel governo della magistratura.

4. L’esigenza di guardare all’interno dei singoli gruppi 

Come si è già accennato l’opinione di chi scrive è che in ciascuno dei gruppi associativi si siano prodotti fenomeni di riduzione o di svilimento della democrazia interna e di compromissione delle dinamiche democratiche. Fino al punto estremo della creazione di canali decisionali nascosti, operanti in parallelo a quelli ufficiali e in grado di bypassarli.

Per trovare le tracce delle distorsioni e delle cattive pratiche è perciò del tutto insufficiente – è appena il caso di dirlo – spulciare gli Statuti delle associazioni e studiare le regole della loro democrazia interna.

Serve invece dirigere lo sguardo sulle macchine organizzative delle correnti e sui processi decisionali effettivi perché è lì che si sono annidati i congegni che hanno abbassato il tasso di democraticità delle diverse compagini.

In alcuni casi si è trattato del dominio incontrastato – o poco efficacemente contrastato – di un leader.

In altri casi dello stabilizzarsi di un governo di notabili, con il corredo di apparati soggetti e di ferree sfere di influenza territoriale.

In altri casi ancora, della costituzione di oligarchie che nel quadro fluido di avvicinamenti e fusioni tra entità associative diverse hanno acquisito un ruolo autonomo e di minore responsabilità nei confronti degli associati.

Certo bisognerà andare molto al di là di questi primi schizzi impressionistici.

E a farlo dovranno essere in primo luogo i magistrati dei diversi gruppi, interessati a ripristinare una piena vita democratica nelle associazioni di appartenenza.

4.1. Dovrà fare i conti con i fasti ed i guasti del “leaderismo” la corrente di Magistratura indipendente la cui storia recente è stata interamente scandita dal confronto e dai conflitti tra quanti hanno accettato di buon grado l’egemonia, prima interna e poi esterna, di Cosimo Ferri e coloro che ad essa si sono opposti in varie forme e con varia intensità. Sino alla traumatica separazione dal tronco di Magistratura Indipendente dei magistrati confluiti nel nuovo raggruppamento di Autonomia & Indipendenza capeggiato da Piercamillo Davigo.

Per un arco di tempo assai lungo solo una minoranza degli iscritti e dei votanti per MI ha avvertito la contraddizione tra la proclamata natura della corrente – a parole la più lontana ed avulsa dalla politica – e l’ingombrante onnipresenza di un leader sempre molto manovriero sul versante politico e poi transitato direttamente al governo ed al parlamento.

La vera novità del fenomeno Ferri, comunque, non sta tanto nel radicale divario tra apoliticità dichiarata e prassi di più o meno stretto connubio con la politica (giacché tale divario in MI era emerso con la massima ampiezza nella vicenda della P2 che portò alla destituzione di Domenico Pone, Presidente di MI, per il finanziamento della Rivista della corrente) quanto nella straordinaria capacità di attrazione, tra i magistrati, del suo modo di fare politica associativa, sempre sospeso tra mondanità e assistenza, tra convivialità e sostegno.

4.2. Parimenti il gruppo di Unità per la Costituzione dovrà interrogarsi sulla validità e riproponibilità, nel prossimo futuro, del suo modello organizzativo, per tanti anni rivelatosi vincente.

Un modello imperniato sulle figure di “notabili” operanti come plenipotenziari in ambiti territoriali o in particolari uffici.

Su di una programmazione, rigida, anticipata e pluriennale delle candidature al Consiglio superiore.

Sulla creazione di catene di comando, informali ma estremamente incisive, in particolari aree geografiche o professionali, tra il consigliere superiore in carica, il suo predecessore e il futuro candidato alle elezioni consiliari, vero e proprio consigliere in pectore.

Sull’impegno ad occupare – in forza della posizione di gruppo centrale e maggioritario di Unità per la Costituzione – posizioni chiave nella gerarchia degli uffici.

4.3. Un impegno serio di riflessione sul terreno di una verifica democratica attende anche Magistratura democratica e Movimento per la giustizia e la loro creatura Area democratica per la Giustizia.

In luogo di una rapida fusione in un unico gruppo – che pure in teoria sarebbe stata possibile sfruttando lo slancio unitario iniziale – si è scelta la via di un processo di progressivo avvicinamento, estremamente cauto e scandito da una complicata architettura organizzativa di strutture “terze” di coordinamento dell’azione comune, destinate a coesistere con le dirigenze dei gruppi fondatori.

Sino ad una dichiarata “cessione di sovranità” dei gruppi promotori alla nuova entità di Area DG per tutto quanto attiene alla presenza nelle istituzioni (in particolare: candidature al CSM e nei Consigli giudiziari).

Se questo “percorso” non ha attenuato la vitalità culturale della magistratura progressista – come segnala la sua presenza sui temi della giustizia e della democrazia – esso ha contribuito a ridurre, per effetto dei meccanismi di delega agli organi di coordinamento, il numero e la qualità delle decisioni di natura istituzionale spettanti agli associati.

Così che è difficile negare che l’intero processo abbia finito con il dar vita, sul versante istituzionale e dell’autogoverno, a sedi decisionali più distanti e meno direttamente responsabili che in passato rispetto ai componenti delle associazioni promotrici e a scelte spesso percepite come di natura sostanzialmente oligarchica.

4.4. Il tema, indubbiamente complicato, della democraticità della vita associativa sembra poi più bypassato che risolto dalle due nuove compagini emerse nel panorama associativo.

La nascita del gruppo di Autonomia & Indipendenza sulla base della iniziativa di un leader carismatico ha fatto sì che il tema della democrazia interna all’associazione non sia stato – almeno nella fase nascente – né posto né affrontato. O almeno è questa l’impressione che legittimamente ricava l’osservatore esterno.

Il tratto caratteristico del gruppo denominato “Articolo 101” è poi il rifiuto del meccanismo elettorale e l’opzione per il sorteggio per la formazione dell’organo di autogoverno.

E da questa impostazione per così dire “ademocratica” discende anche l’irrilevanza dei suoi interna corporis, democratici o meno che siano, ai fini dei loro riflessi sul funzionamento democratico dell’istituzione consiliare.

Come è ovvio queste primissime rapsodiche notazioni mirano a mettere in evidenza solo alcuni aspetti della deriva che ha coinvolto i gruppi associativi, deriva che richiederà, per essere adeguatamente compresa, analisi approfondite e accurate ricostruzioni degli avvenimenti.

Ma questo necessario compito dovrà essere, almeno in prima battuta, affidato alla “critica di se stessi” che i singoli gruppi hanno il dovere di compiere se vogliono uscire dall’impasse nella quale versano e ad una matura e corale riflessione di tutti i magistrati sui problemi aperti dell’associazionismo giudiziario.

Solo da una tale ricerca possono derivare non solo nuovi modi di vivere l’associazionismo ma anche nuove regole sui rapporti tra le associazioni e le istituzioni dell’autogoverno.

5. Alla rigenerazione dei gruppi non ci sono alternative

All’itinerario di rigenerazione dei gruppi non ci sono credibili alternative almeno se si vuole inverare il modello di “amministrazione della giurisdizione” imperniato sui canoni della democrazia rappresentativa: libertà di associazione, elezioni, pluralismo delle rappresentanze.

Le opzioni antitetiche a questo modello emerse negli ultimi due decenni si si riducono a due, entrambe foriere di risultati negativi e dissonanti con la scelta del Costituente.

La prima è la negazione della democrazia in ciò che più profondamente la caratterizza e cioè il suo essere campo di aggregazioni collettive, di liberi raggruppamenti intorno ad idee e visioni diverse (che tutt’oggi esistono) della giustizia e del lavoro del magistrato.

E’ la strada imboccata dalla legge elettorale atomistica del CSM, varata nel 2002 come anticipazione della riforma Castelli ed ancor oggi in vigore, nella quale non compaiono “mai” le associazioni di magistrati ma solo singoli candidati – presentati da un esiguo numero di colleghi – destinati a ricevere voti di carattere esclusivamente personale che sono cancellati e persi in caso di mancata elezione del candidato.

Il dichiarato atomismo del sistema elettorale si è infranto – come oggi quasi tutti sono costretti ad ammettere – contro gli scogli della realtà e della logica istituzionale, rivelandosi presto come un terribile boomerang, capace solo di potenziare gli aspetti deteriori del c.d. correntismo.

Facendo leva sulla razionalità dell’elettore che non desidera dare un voto inutile ad un candidato che ha poche o nulle possibilità di essere eletto, i gruppi hanno avuto vita facile nell’orientare le preferenze dei magistrati su di una rosa ristretta di candidati preventivamente indicati come quelli aventi chances di successo perché sorretti dal nucleo duro degli associati.

E quando il sistema elettorale non è stato neppure temperato e corretto da più libere e sciolte elezioni primarie per l’individuazione dei candidati, anche esse gestite dai gruppi, la scelta è rimasta nelle mani dei gruppi dirigenti delle correnti.

Un punto a favore delle oligarchie piuttosto che la liberazione di energie esterne ai gruppi consolidati di cui vagheggiavano in maniera inconsulta     i sostenitori della legge elettorale del 2002.

Alla negazione della democrazia “come essa è” si è poi affiancata un’altra proposta: la negazione, questa volta in termini di principio, della democrazia ed il suo ripudio in favore del metodo del sorteggio per l’elezione dei membri togati del CSM.

Una totale ed assoluta abdicazione alla democrazia rappresentativa delineata dal Costituente, giuridicamente impraticabile per il suo contrasto con il dettato costituzionale e istituzionalmente umiliante per la magistratura considerata incapace di scelte elettorali serie e meditate.

Di più: un’escogitazione disperata alla quale si è dedicata perfino troppo attenzione data la sua pochezza sul piano intellettuale e giuridico.

Dunque, dal tema della democrazia dell’associazionismo e del governo autonomo non si può evadere imboccando vie traverse e impraticabili scorciatoie.

Non foss’altro che per questo vale la pena di misurarsi con la “questione democratica”.

Tenendola, almeno parzialmente, distinta dalla questione morale.

* Direttore di Questione Giustizia

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