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Il sommerso della Repubblica

Gian Carlo Caselli * il . Giustizia, Istituzioni, Mafie, Società

La redazione de “La Fionda” mi ha chiesto un articolo sul Deep state. “Vasto programma”, avrebbe detto il generale De GaulleTanto vasto che insieme a Guido Lo Forte (mio collega a Palermo) ho scritto un libro pubblicato da Laterza nel 2020, intitolato “Lo  stato illegale”. Ad esso rinvio per una più articolata risposta ai problemi posti dal Deep state. Qui mi limito a riprodurre alcuni passaggi del libro.

1 – La mafia nemico invisibile? Quasi trent’anni ormai ci separano dalle stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992. Questo duplice attacco al cuore della democrazia – che Andrea Camilleri ha paragonato in quanto a potenza simbo­lica all’abbattimento delle Twin Towers – aveva naturalmente come obiettivo l’uccisione di due pilastri dell’antimafia come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Fu tuttavia chiaro fin da subito (in un caso e nell’altro) che la ferocia criminale rispondeva anche a un disegno politico di Cosa nostra. Dise­gno che trovò ancora più evidente realizzazione con le stragi che seguirono nel 1993 a Firenze, Milano e Roma.

Nel giro di pochi mesi si consumò una tragedia nazionale che sembrò scuotere irreversibilmente le coscienze e che pro­vocò una reazione finalmente determinata dello Stato contro la mafia. Con risultati – è bene ricordarlo – straordinari. La mafia siciliana è stata indubbiamente indebolita e destrut­turata da indagini e condanne. Ma altre organizzazioni cri­minali sono cresciute in rilevanza e potere, occupando vaste aree prima estranee a una radicata presenza mafiosa. E la questione della criminalità organizzata resta ancora oggi – purtroppo – in primo piano.

Dispiace, per contro, dover rilevare che l’attuale politica antimafia è inadeguata, così come difettosa è la rappresenta­zione mediatica del fenomeno, oscillante tra il diffuso silenzio informativo e il noir delle mattanze napoletane e foggiane o il folclore sulla latitanza (e peggio… sulle camicie) di Matteo Messina Denaro.

Di fatto, la mafia continua a essere considerata un proble­ma di ordine pubblico, la cui pericolosità si coglie soltanto in situazioni di emergenza, quando cioè mette in atto strategie sanguinarie. Non è (solo) così: sfugge, non casualmente, che la mafia è un vero e proprio “sistema di potere criminale”, funzionale a sempre nuove rapacità e nuovi interessi. Perché c’è una “richiesta di mafia” [così lo storico Salvatore Lupo in uno scritto del 2002] in ambito politico, economico e imprenditoriale; vale a dire che la forza della mafia risiede non solo nella sua organizzazione interna, ma anche e soprat­tutto nelle “relazioni esterne”, cioè nelle laide connivenze o complicità e nelle vili coperture di cui essa gode – struttural­mente – in pezzi consistenti del mondo legale.

Possiamo anzi dire che Cosa nostra è stata (e può continuare a essere) com­ponente e strumento di un sistema criminale più ampio. Un sistema criminale raffigurabile come un complesso edificio, in cui l’associazione ha rappresentato – per le sue tradizioni criminali e per la sua potenza storica – una pietra angolare; ma che, come tutti gli edifici, ha anche altri piani e altri abi­tanti variamente comunicanti fra loro.

2 – Un problema di democrazia –  Quanto fin qui ricostruito [con riferimento ai processi “politici” istruiti dalla Procura di Palermo del dopo stragi] consente di percepire in filigrana un problema di qualità della democrazia. Negare o distorcere la verità, cancellare o igno­rare i gravissimi fatti concreti posti a fondamento dei processi sopra esaminati, era – ed è – come svuotare di significato l’intreccio di rapporti tra mafia e politica che dai processi chiaramente emerge, determinando di fatto una legittimazio­ne di tali rapporti (non solo per il passato, ma anche per il presente e il futuro).

Una legittimazione estremamente peri­colosa per la buona salute della nostra democrazia. Dunque, gli ostacoli e le ostilità disseminati sul percorso dei processi politici non sono altro che il tentativo (in gran parte riuscito) di far passare una rilettura surreale e improponibile in chiave di “riduzionismo/negazionismo” dei rapporti mafia-politica. Tali rapporti sarebbero in pratica inventati da indagini crea­tive e quindi inquinate.

La mafia rimarrebbe un fenomeno localistico, articolatosi quasi soltanto sul terreno degli appalti pubblici per moti­vazioni di tipo meramente economico, addebitabili agli ap­petiti di singoli esponenti del ceto politico-amministrativo. Una “mala-politica” locale che non avrebbe mai contaminato quella nazionale.

Per contro, la lettura degli atti e delle sentenze dei proces­si politici (Andreotti e Dell’Utri in particolare) non sancisce affatto la cronaca di una modesta e arretrata realtà periferica, ma i tempi – appunto – della storia nazionale: spesso con i connotati di una tragedia incombente, che sembra quasi destinata a ripetersi ciclicamente anche con orride cadenze di morte.

* Fonte: La Fionda

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La palude mafiosa nello “Stato illegale”

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