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Fratelli tutti. Un’enciclica costituzionale?

Tania Groppi il . Chiesa, Giustizia, Società

dipinto fratelli tuttiSommario: 1. Costituzionalismo, cristianesimo, Occidente – 2. Le parole del costituzionalismo – 3. Uno sguardo nuovo – 4. Costituzionalismo trasfigurato – 5. Contro la “tirannia del merito” – 6. Farsi prossimo.  

1. Costituzionalismo, cristianesimo, Occidente

L’Enciclica “Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale” (3 ottobre 2020), non è soltanto una summa degli interventi di Papa Francesco, nel corso del suo pontificato, sulla convivenza nell’ambito delle società umane. Certo, essa raccoglie discorsi e documenti presentati in sedi internazionali, di fronte al corpo diplomatico, ad associazioni di giuristi, ad organizzazioni della società civile, in incontri interreligiosi (a partire dalla fondamentale dichiarazione sottoscritta ad Abu Dhabi nel febbraio del 2019 congiuntamente al Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb), messaggi per la giornata della pace o del migrante e del rifugiato, sistematizzandoli in un testo che si affianca alla precedente Enciclica “Laudato sìsulla cura della casa comune” (24 maggio 2015), venendo a costituire un dittico sociale profondamente “francescano”.

“Fratelli tutti” è anche, almeno se letta con lo sguardo del costituzionalista, una summa del diritto costituzionale della nostra epoca, dei suoi acquis, delle sue contraddizioni, delle sfide alle quali è sottoposto nel XXI secolo. Con perlomeno due peculiarità. Essa non proviene da un giurista, ma dalla massima autorità spirituale di una religione. Non una religione qualunque, ma il cristianesimo, che è strettamente intessuto con il fondamento stesso di quell’Occidente che è stato la culla del costituzionalismo e ne continua a costituire la “patria” culturale. Proprio in tale tradizione spirituale e nella sua teologia l’Enciclica va alla ricerca degli strumenti per affrontare le sfide attuali, per rispondere alla impellente domanda sul “che fare”. Qui sta anche, almeno secondo me, il suo principale apporto, come cercherò di mostrare in questo breve intervento.

2. Le parole del costituzionalismo

Fin dal primo capitolo, dal significativo titolo “Le ombre di un mondo chiuso”, risuonano, più o meno espressamente, le parole del costituzionalismo. Non tanto di quello delle origini, radicato nelle rivoluzioni della fine del Settecento, benché ad esso sia riconducibile la triade “libertà, eguaglianza e fraternità”, alla quale sono dedicati diversi paragrafi [ad es. 103-105].

Ma, soprattutto, quelle del costituzionalismo del Secondo dopoguerra, che ha cercato di rifondare la convivenza umana dopo gli orrori della prima metà del Novecento, andando di pari passo con il rinnovamento del diritto internazionale, nel nome della pace e della tutela dei diritti umani universali. Fin dalle prime pagine si affacciano le speranze sorte in quel momento storico: “per decenni è sembrato che il mondo avesse imparato da tante guerre e fallimenti e si dirigesse lentamente verso varie forme di integrazione”, specialmente sul continente europeo, dove “si è sviluppato il sogno di un’Europa unita” [10].

Dignità, solidarietà, pace, lavoro, ripudio della guerra. Sono le parole dello Stato democratico-pluralista, il cd. “Post-war paradigm” [Weinrib], declinato come Stato sociale e come Stato costituzionale aperto, in particolare nella sua variante “dignitaria” [Glendon]: ovvero, una forma di organizzazione del potere politico incentrata sulla dignità della persona umana, finalizzata ad assicurare la convivenza pacifica nelle società pluralistiche, attraverso una più equa distribuzione della ricchezza e la limitazione della sovranità esterna degli Stati, della quale sono espressioni paradigmatiche la Costituzione italiana del 1948 e quella tedesca del 1949 [Häberle, Cheli, Zagrebelsky].

Questo costituzionalismo è in crisi, ci dice il Papa. “La storia sta dando segni di un ritorno all’indietro” [11], riappare la tentazione di alzare muri [27], “i sentimenti di appartenenza a una medesima umanità si indeboliscono, mentre il sogno di costruire insieme la giustizia e la pace sembra un’utopia di altri tempi” [30], “velocemente dimentichiamo la lezione della storia, ‘maestra di vita’” [35].

Ed è in questa “pars destruens” dell’Enciclica – che prende le mosse nel primo capitolo, per poi svilupparsi anche in quelli successivi – che riecheggiano le parole del costituzionalismo del XXI secolo, in particolare di quegli studiosi che hanno analizzato, utilizzando diverse espressioni (constititutional retrogressiondemocratic decaydemocratic backsliding ecc.), il processo di arretramento della democrazia costituzionale negli ultimi dieci, quindici anni [Tushnet, Ginsburg, Daly].

Ecco così comparire, in prima linea, la “perdita di potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla politica” [172]. È la globalizzazione (“questa” globalizzazione, verrebbe da aggiungere con Stiglitz), una globalizzazione che unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni, perché “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli” [12]. Una globalizzazione di impronta neoliberista, basata sulla fede nel mercato, il cui fallimento è ancor più evidente nella pandemia da Covid-19, che ha messo in luce la fragilità dei sistemi mondiali: “la fine della storia non è stata tale” [168].

Ecco Internet e la comunicazione digitale, “nella quale si generano ‘circuiti chiusi’, che ‘facilitano la diffusione di informazioni e notizie false, fomentando pregiudizi e odio’” [45].

Ecco le migrazioni, che mettono in moto paure ancestrali [27], dalle quali derivano intolleranza, chiusura e razzismo [41].

Ecco il populismo, inteso quale populismo “insano” (da tenere distinto dalla capacità di unificare, interpretando il sentire del popolo in modo “aperto”), definito come “l’abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere. Altre volte mira ad accumulare popolarità fomentando le inclinazioni più basse ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. Ciò si aggrava quando diventa, in forme grossolane o sottili, un assoggettamento delle istituzioni e della legalità” [159].

3. Uno sguardo nuovo

Le parole del costituzionalismo del Secondo dopoguerra ritornano anche nella pars construens – specialmente nel capitolo terzo “Pensare e generare un mondo aperto”, e nel capitolo quarto, “Un cuore aperto al mondo intero” – laddove si delineano le linee di azione per costruire un mondo che non sia basato su “cerchie di soci” ma sia fondato sulla fraternità tra tutti gli esseri umani.

Ed ecco ricomparire la solidarietà come “virtù morale e atteggiamento sociale” [114], i “diritti sociali e i diritti dei popoli” [126], la cittadinanza come “eguaglianza dei diritti e dei doveri” [131], la “rinuncia all’uso discriminatorio del termine minoranze” [131], la richiesta di un “ordinamento mondiale giuridico, politico ed economico” [138], la necessità di assicurare “la sovranità del diritto” [173], il rigetto della guerra, della pena di morte e dell’ergastolo [268], la discussione pubblica come metodo di dialogo [203].

Tuttavia, se per qualche verso il costituzionalismo del Secondo dopoguerra è evocato, in diversi passaggi, come una sorta di eden perduto, da recuperare, anche attraverso la memoria storica [13, 36], mi sento di poter dire che il punto qualificante dell’Enciclica consiste nello svelare il “tarlo” che è venuto allo scoperto nel sistema che su tali solenni principi è stato costruito. Infatti, proprio muovendo da questa constatazione si giunge a ribadire – come già in “Laudato sì” riguardo alla “casa comune” – che occorre un radicale cambio di paradigma, questa volta nei rapporti tra le persone e i popoli, rispetto al mondo così com’è.

Il “tarlo” è l’individualismo radicale, che “non ci rende più liberi, più eguali, più fratelli. La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità. Neppure può preservarci da tanti mali che diventano sempre più globali. Ma l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere. Inganna. Ci fa credere che tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene comune” [105].

Se la leggiamo in una dimensione puramente “costituzionale”, “Fratelli tutti” lascia aperta la questione sull’origine del “tarlo”, nel senso che non chiarisce se si tratta di una degenerazione del modello venutasi a determinare a seguito dell’affermazione, a partire dagli anni Ottanta, del paradigma neoliberista, oppure se già nel modello originario fossero insite le contraddizioni che hanno aperto la strada a tali deleteri sviluppi.

Si dice infatti che “osservando con attenzione le nostre società contemporanee, si riscontrano numerose contraddizioni che inducono a chiederci se davvero l’eguale dignità di tutti gli esseri umani, solennemente proclamata 70 anni or sono, sia riconosciuta, rispettata, protetta e promossa in ogni circostanza. Persistono oggi nel mondo numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a sfruttare, a scartare e perfino ad uccidere l’uomo. Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati” [22].

È intorno alla determinazione delle cause dell’individualismo radicale che si colloca, a mio avviso, lo snodo centrale dell’Enciclica, ed è qui che si mostra la necessità di una lettura in chiave teologica, pena la incomprensione e finanche il travisamento dei suoi contenuti.

Infatti essa, pur riprendendo l’impostazione e il lessico del costituzionalismo del Secondo dopoguerra, trova la sua forza e la sua suggestione laddove fa parlare più direttamente la sua sorgente, ovvero quando lascia suonare “la musica del Vangelo”, che consente di “trasfigurare” e in qualche modo “fare nuovo” il retaggio del costituzionalismo: “Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna. Altri bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo” [277].

In questa prospettiva, si possono richiamare perlomeno due passaggi cruciali.

Innanzitutto, quello in cui si rintraccia nella concupiscenza il fondamento dell’individualismo: in sostanza, benché questa parola non compaia mai nell’Enciclica, nel peccato. Si afferma che la “critica al paradigma tecnocratico non significa che solo cercando di controllare i suoi eccessi potremo stare sicuri, perché il pericolo maggiore non sta nelle cose, nelle realtà materiali, nelle organizzazioni, ma nel modo in cui le persone le utilizzano. La questione è la fragilità umana, la tendenza umana costante all’egoismo, che fa parte di ciò che la tradizione cristiana chiama ‘concupiscenza’: l’inclinazione dell’essere umano a chiudersi nell’immanenza del proprio io, del proprio gruppo, dei propri interessi meschini. Questa concupiscenza non è un difetto della nostra epoca. Esiste da che l’uomo è uomo e semplicemente si trasforma, acquisisce diverse modalità nel corso dei secoli, utilizzando gli strumenti che il momento storico mette a sua disposizione. Però è possibile dominarla con l’aiuto di Dio” [166].

Inoltre, laddove si rinviene il fondamento della fraternità nell’essere figli di uno stesso Padre, richiamando l’Enciclica “Caritas in veritate”, di Benedetto XVI. “Come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. Siamo convinti che «soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi». Perché «la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’eguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità»” [272].

Soltanto attingendo a questa dimensione “altra”, che collega la sfera sociale all’annuncio della salvezza, possiamo beneficiare pienamente, tutti, credenti e non credenti, dell’apporto della tradizione spirituale cristiana ed entrare in un’altra logica, che ci dia occhi nuovi e ci renda capaci di “sognare e pensare un’altra umanità” [127]. Riportandoci, come costituzionalisti, alle nostre stesse origini, a quei tempi lunghi dei diritti umani [Bobbio], a quello sguardo profetico verso l’avvenire che ha contrassegnato i nostri costituenti, a quella speranza che continua a nutrire la vita delle costituzioni democratiche.

4. Costituzionalismo trasfigurato

Il punto di partenza per questa trasformazione dello sguardo è la conversione del cuore, che implica una uscita da sé, una vera e propria “estasi”: “Siamo fatti per l’amore e c’è in ognuno di noi una specie di legge di ‘estasi’: uscire da se stessi per trovare negli altri un accrescimento di essere. Perciò in ogni caso l’uomo deve pure decidersi una volta ad uscire d’un balzo da se stesso” [88].

Soltanto in tal modo si riesce ad avere uno sguardo che riesca a vedere gli altri, anche gli ultimi, come fratelli: “Solo con uno sguardo il cui orizzonte sia trasformato dalla carità, che lo porta a cogliere la dignità dell’altro, i poveri sono riconosciuti e apprezzati nella loro immensa dignità, rispettati nel loro stile proprio e nella loro cultura, e pertanto veramente integrati nella società. Tale sguardo è il nucleo dell’autentico spirito della politica. A partire da lì, le vie che si aprono sono diverse da quelle di un pragmatismo senz’anima” [187].

A partire da qui sono riletti e vivificati molteplici aspetti chiave del costituzionalismo, cominciando dai principi supremi, quelle “clausolas petreas” o “eternity clauses” che pretendono di sottrarre alle revisioni costituzionali i principi-chiave del vivere comune: “Che cos’è la legge senza la convinzione, raggiunta attraverso un lungo cammino di riflessione e di sapienza, che ogni essere umano è sacro e inviolabile? Affinché una società abbia futuro, è necessario che abbia maturato un sentito rispetto verso la verità della dignità umana, alla quale ci sottomettiamo” [207-209].

La stessa rielaborazione si ha per un altro dei concetti chiave del costituzionalismo contemporaneo, nella sua versione di “transformative constitutionalism”, le norme programmatiche, che divengono direttive per “avviare processi i cui frutti saranno raccolti da altri” [196], in un rapporto con il tempo che abbandoni la tirannia del presente.

Per la stessa nozione di pluralismo, in cui la convivenza pacifica deve essere coltivata attraverso la “carità politica”, chiamata a propiziare l’incontro e il dialogo: “Specialmente chi ha la responsabilità di governare, è chiamato a rinunce che rendano possibile l’incontro, e cerca la convergenza almeno su alcuni temi. Sa ascoltare il punto di vista dell’altro consentendo che tutti abbiano un loro spazio. Con rinunce e pazienza un governante può favorire la creazione di quel bel poliedro dove tutti trovano un posto. In questo ambito non funzionano le trattative di tipo economico. È qualcosa di più, è un interscambio di offerte in favore del bene comune. Sembra un’utopia ingenua, ma non possiamo rinunciare a questo altissimo obiettivo” [190].

Fino ad arrivare alla politica, alla quale sono dedicati molti paragrafi, partendo dalla domanda “può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica?” [176]. Una politica che si trasfigura in tenerezza, cioè in una “amore che si fa vicino e concreto” [194], e che “è sempre un amore preferenziale verso gli ultimi” [187].

5. Contro la “tirannia del merito”

Se fin qui ho passato in rassegna alcuni punti trattati esplicitamente nell’Enciclica, mi sembra che lo sguardo nuovo, “trasformato dalla carità”, al quale ci chiama, possa esserci di aiuto anche per affrontare, come costituzionalisti, altri aspetti chiave della nostra epoca, che non sempre riusciamo a vedere, assuefatti come siamo ad un certo senso comune.

È quel che accade col paradigma meritocratico, basato sull’affermazione “a ciascuno secondo il suo merito”. Apparentemente un principio sacrosanto, ma basato su una premessa scivolosa. Che cos’è il merito? Da dove vengono questi supposti “talenti” che andrebbero premiati? Quello che a prima vista consideriamo un “merito” non è invece il frutto di condizioni economico-sociali, proprie o dei propri antenati, che condizionano lo sviluppo psicofisico e culturale della persona umana?

Un paradigma “trasversale”, al punto che si è parlato di una “tirannia del merito”, che non è riconducibile solo all’ideologia neoliberista, a Ronald Reagan o Margaret Thatcher, per intendersi, ma costella i discorsi di Bill Clinton e Barack Obama, che esaltano un sistema nel quale i migliori possono eccellere ed emergere [Sandel]. E che sta avvelenando la convivenza umana, contribuendo ad allontanare le persone l’una dall’altra, riproducendo una divisione in caste (basata sulla “meritevolezza”) che porta in definitiva al mantenimento di una concezione gerarchica della società con al vertice le “élites del merito”, una nuova oligarchia come ebbe a dire a suo tempo Hannah Arendt. L’abbondanza di metafore spaziali di tipo verticale che caratterizza il nostro linguaggio ogni volta che viene in rilievo l’eguaglianza lo testimonia, a partire dalla eguaglianza dei punti di partenza, per proseguire con l’ascensore sociale, la gara della vita, il paracadute sociale. Quante volte si è letta, e non soltanto sulla base dell’“American Dream”, ma anche in Europa, l’eguaglianza come “pari opportunità”, da dare a tutti, in modo tale da premiare, come recita anche la Costituzione italiana, i più “capaci e meritevoli”, mettendo in moto processi “ascensionali” di mobilità sociale.

Senza che ci si renda conto che con tali espressioni si sta inoculando un veleno nella società: si introduce infatti un elemento di giudizio, di disvalore, verso tutti coloro che non ce la fanno, che debbono sì essere aiutati, ma che restano marchiati da uno stigma, o perché non si sono impegnati abbastanza, o non sono stati abbastanza meritevoli, oppure perché non sono abbastanza capaci. Quel che è certo è che manca loro qualcosa, nel senso che sono, in qualche modo, manchevoli e perciò peggiori.

Da lì la sensazione di superiorità di chi sta in alto, che pensa di aver “meritato” la propria posizione, e, invece, quella di inferiorità (e di frustrazione) di chi sta in basso. L’allargarsi della distanza tra le persone sta mettendo in crisi la stessa sopravvivenza della democrazia: come è possibile mantenere un patto di convivenza tra soggetti che sono ormai così lontani al punto da vivere vite separate, in spazi separati, senza incontrarsi mai?

Rispetto a questa nuova forma di divisione, di distanza, invocare la fraternità e l’amicizia sociale, ovvero una “vicinanza”, sostituire alla metafora gerarchica verticale della scala quella orizzontale del poliedro, costituisce un approccio rivoluzionario, che interpella la coscienza di ciascuno di noi, invitandoci a una umiltà che può derivare soltanto dal riconoscerci, tutti, indipendentemente dai propri successi e doti, come creature. Fratelli tutti.

6. Farsi prossimo

Mi pare però che, più di ogni altro aspetto dell’Enciclica, sia la parabola del buon samaritano, narrata nel Vangelo di Luca (Lc 10, 25-37) – alla quale è dedicato, come una apparente parentesi, il capitolo secondo, “Un estraneo sulla strada” – che guida a comprenderne il senso profondo e illumina la prospettiva di azione che essa costantemente sollecita.

Una parabola la cui narrazione “è semplice e lineare, ma contiene tutta la dinamica della lotta interiore che avviene nell’elaborazione della nostra identità, in ogni esistenza proiettata sulla via per realizzare la fraternità umana. Una volta incamminati, ci scontriamo, immancabilmente, con l’uomo ferito. Oggi, e sempre di più, ci sono persone ferite. L’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi. Ogni giorno ci troviamo davanti alla scelta di essere buoni samaritani oppure viandanti indifferenti che passano a distanza” [69].

Che fare, dunque? Come costituzionalisti e come persone di questa epoca?

Occorre prima di tutto prendere posizione, scegliere da che parte stare: “Che altri continuino a pensare alla politica o all’economia per i loro giochi di potere. Alimentiamo ciò che è buono e mettiamoci al servizio del bene” [77]. Un richiamo forte, o almeno io lo leggo così, a ricordarci, come giuristi, che il fine del diritto è quello di contrapporsi alla forza, al privilegio, all’ingiustizia, e di contribuire a ridurre il dolore e la sofferenza umani.

E, quindi, farsi parte attiva nella società. “È possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano” [78].

Mi tornano in mente qui le parole pronunciate da Eleanor Roosevelt in uno dei suoi ultimi discorsi alle Nazioni Unite, il 27 marzo 1953, messe in evidenza in un bellissimo libro di Mary Ann Glendon, dal suggestivo titolo “Verso un mondo nuovo. Eleanor Roosevelt e la dichiarazione universale dei diritti umani”. “Dopo tutto, dove iniziano i diritti umani? Nei piccoli luoghi vicino casa – così vicini e così piccoli da non potersi individuare su nessuna mappa del mondo. Eppure, essi sono il mondo delle singole persone: il quartiere in cui si vive, la scuola che si frequenta, la fabbrica, la fattoria o l’ufficio in cui si lavora”.

In altri termini, siamo chiamati a farci presenti “alla persona bisognosa di aiuto, senza guardare se fa parte della propria cerchia di appartenenza” [81]. Per i credenti, ma mi sentirei di dire, per ogni persona di buona volontà, risuonano le parole di Gesù a conclusione della parabola: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37).

Fonte: Giustizia Insieme

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Opere citate:

H. Arendt, La crisi dell’istruzione (1958) ora in Id., Tra passato e futuro, Garzanti, Milano, 2017

E. Cheli, Lo Stato costituzionale. Radici e prospettive, Editoriale scientifica, Napoli, 2006

T. Ginsburg, A. Z. Huq, How to Save a Constitutional Democracy, The University of Chicago Press, Chicago, 2018

M. A. Glendon, Verso un mondo nuovo. Eleanor Roosevelt e la dichiarazione universale dei diritti umani (2001), Liberilibri, Macerata, 2009,

M. A. Graber, S. Levinson, M. Tushnet (eds), Constitutional Democracy in Crisis?, Oxford University Press, Oxford, 2018

P. Häberle, Lo Stato costituzionale, Carocci, Roma, 2005

M. J. Sandel, The Tyranny of Merit: What’s Become of the Common Good?, Allen Lane, London, 2020

J. E. Stiglitz, Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino, 2013

L. Weinrib, The Postwar Paradigm and American Exceptionalism, in S. Choudrhy (ed.) The Migration of Constitutional Ideas: Rights, Constitutionalism and the Limits of Convergence, Cambridge University Press, Cambridge, 2006

G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1992      

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