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Strage del 904. L’Italia scopre che la mafia uccide al nord

Luca Tescaroli il . Mafie, Memoria, Società

rapido36 anni fa tra Firenze e Bologna una bomba sul treno fa 16 morti.

I perché mancano.

Erano le 19.08 del 23 dicembre 1984, quando il treno rapido n. 904 Napoli-Milano giunse all’appuntamento con la morte: un ordigno di notevole potenza veniva fatto esplodere nella nona carrozza di seconda classe, mentre transitava nella Grande Galleria dell’Appennino tosco-emiliano, in località San Benedetto Val di Sambro, con direzione da Firenze verso Bologna, a una velocità  di 128 km orari.

Quindici passeggeri morirono immediatamente, un altro il giorno seguente; duecentosessantasette feriti. Vittime innocenti della ferocia mafiosa, accartocciate dalle lamiere di un convoglio scompaginato, mentre gli italiani si stavano preparando per i festeggiamenti con le loro famiglie.

Da 31 minuti e venti secondi il treno aveva abbandonato la stazione ferroviaria di S.M. Novella, ove un uomo alto m. 1,75, robusto, dell’età fra i 40 e i 50 anni (secondo le descrizioni fornite dalla passeggera Rosaria Gallinaro) sistemava, intorno alle ore 18.30, due borsoni scuri, pieni di esplosivo plastico alla pentrite sulla griglia portapacchi posta in alto del corridoio prima dell’ingresso al terzo scompartimento della nona carrozza.

Sono trascorsi trentasei anni da quella che fu consegnata alla storia come la strage di Natale, che ci ricorda quale sia il pericolo del crimine mafioso e che ci impone di arginare le insidie della sottovalutazione del fenomeno. Un eccidio che deve essere ricordato per rendere omaggio alle numerose vittime, perché fece capire concretamente che la mafia è un problema nazionale, che non può chiudersi nel contesto periferico delle regioni del Sud, e segnò l’esistenza di centinaia di famiglie, impedendo a molti bambini, donne e uomini di gioire per gli anni a venire nel giorno di festa per eccellenza.

A differenza di altre che l’avevano preceduta, la strage non è rimasta impunita, o almeno totalmente impunita. Il 24 novembre 1992 è passata, infatti, in giudicato la sentenza di condanna nei confronti del “cassiere” di cosa nostra, Giuseppe Calò, riconosciuto ideatore e organizzatore, di Guido Cercola, di Franco Di Agostino e del tecnico elettronico tedesco Friedrich Shaudinn. E nel mese di ottobre di quest’anno è stata respinta definitivamente la richiesta di revisione di Pippo Calò, che, come ogni mafioso di rango, non accetta le condanne all’ergastolo, una pena ancora oggi irrinunciabile per il contrasto al crimine mafioso.

È stata accertata, in maniera incontrovertibile, la matrice mafiosa dell’episodio ed è stato riconosciuto che quell’eccidio fu attuato con il proposito di indurre lo Stato ad allentare lo sforzo repressivo sulla mafia in Sicilia, messo in moto dalle collaborazioni di Tommaso Buscetta e di Salvatore Contorno, portato avanti dal pool guidato da Antonino Caponnetto e accresciutosi per effetto degli oltre trecento mandati di cattura emessi poco tempo prima. Un attentato che sarebbe dovuto apparire come ispirato da matrice terrorista e che avrebbe dovuto distogliere l’impegno delle istituzioni e della società civile dal contrasto a cosa nostra, facendo apparire l’esistenza di un pericolo per la Nazione diverso e maggiore da quello costituito dalla mafia.

Si è trattato di un delitto terroristico-eversivo – compiuto a distanza di un anno e 5 mesi dalla strage palermitana di via Pipitone Federico del 29 luglio 1983, ai danni del consigliere istruttore Rocco Chinnici – nel quale è avvenuta la saldatura tra il settore camorristico della Nuova Famiglia, cosa nostra ed appartenenti alla criminalità romana, in virtù del ruolo di frontiera di Pippo Calò.

Se è stata fatta emergere una porzione significativa di verità, rimangono, però, aperti interrogativi e non mancano zone grigie.

Invero, gli accertamenti giudiziari non hanno consentito di individuare chi collocò materialmente l’ordigno sul treno e di decifrare il torbido quadro criminale in cui quella strage si inserì, di capire fino in fondo perché agirono quelle mani assassine, se l’obiettivo di distrarre l’attenzione dalla Sicilia fosse riconducibile solo agli appartenenti alla criminalità organizzata o anche ad altri, se vi sia stata una prospettiva ricattatoria da parte degli ideatori, se e quali rapporti vi siano stati tra la mafia e aree della criminalità del potere nell’ideazione, relazioni che hanno fatto capolino in varie vicende delittuose anteriori al 1984, come nell’uccisione di Aldo Moro, nell’omicidio di Mino Pecorelli, nel caso Sindona, nell’attentato a Roberto Rosone del 24 aprile 1982 e nell’omicidio di Roberto Calvi.

* Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Firenze

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 22/12/2020

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