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Blitz a Calatafimi (TP), terra dei Messina Denaro

Rino Giacalone il . Mafie, Sicilia

operazione-Ruina-1280x720La Procura di Palermo fa scattare 13 arresti, Cosa nostra trapanese resta viva e usa i “colletti bianchi”

Arresti nel feudo del latitante Matteo Messina Denaro. A Calatafimi Segesta, dove si racconta iniziò nella sacrestia di una chiesa la latitanza del vecchio don Ciccio Messina Denaro, il patriarca del Belice morto nel 1998. Don Ciccio aveva un prete amico a Calatafimi, da latitante si affacciava al balcone della sacrestia per seguire le processioni e che l’uomo affacciato era un capo mafia pare lo sapevano alcuni dei processanti, che per deferenza sostavano e salutavano.

E a Calatafimi sarebbe anche iniziata la latitanza di Matteo Messina Denaro, sempre assieme al padre nei suoi spostamenti, fino alla morte dell’anziano genitore. Boss ricercato dal 1993, capo incontrastato della mafia trapanese, Matteo Messina Denaro ha impiantato il suo sistema, dapprima violento, segnato da stragi e omicidi, poi inabissatosi, ma di fatto diventato ancora più presente sopratutto da quando gli uomini con le coppole e le lupare hanno saputo intrecciarsi con insospettabili professionisti, “colletti bianchi”. Controllo del territorio, affari, compravendita di voti.

C’è questo nell’operazione “Ruina” scattata nella notte di martedì nel trapanese, portata a termine dallo Sco, Servizio Centrale Operativo, e dalle Squadre Mobili di Trapani e Palermo. Non è una fotografia antica quella che viene fuori dalle indagini, il clan sgominato è stato operativo sino a poche ore dagli arresti. Alcuni erano pronti pure a darsi alla latitanza. da qui la decisione dei pm palermitani, Guido, Padova e Dessì, di fare eseguire i fermi.

Indagato è il sindaco Antonino Accardo, per corruzione elettorale con l’aggravante della mafia, un altro colletto bianco è stato invece arrestato, Salvatore Barone, dirigente nel ramo dei pubblici trasporti, da ultimo al vertice dell’ATM, azienda di trasporto urbano a Trapani, dapprima come direttore e poi da presidente del Consiglio di Amministrazione.

Lo scenario è quello dei nuovi boss che reggono il “sistema” Messina Denaro, c’è pure un agente della polizia penitenziaria in servizio nel carcere palermitano di Pagliarelli: Vincenzo Ruggirello, è indagato per  rivelazione di notizie riservate. In manette è finito il nuovo capo della famiglia mafiosa, Nicolò Pidone, 57 anni, ex operaio stagionale della Forestale che era stato già arrestato nel 2012, dopo avere scontato la condanna era tornato in sella. Era il punto di riferimento per chiunque avesse un problema da risolvere.

Le intercettazioni della polizia hanno svelato incontri e contatti. “Abbiamo disarticolato un’organizzazione mafiosa potente e stabile sul territorio – dice il prefetto Francesco Messina, il direttore centrale anticrimine della Polizia di Stato – un’organizzazione che operava sotto ogni punto di vista, anche politico amministrativo ed economico imprenditoriale. E’ il “metodo” Messina Denaro – dice ancora il capo dell’anticrimine del Viminale – quello di una mafia tornata ad essere mediazione e affari. Cosa nostra trapanese è l’humus di sostentamento del latitante, che sfrutta le intrinseche caratteristiche dell’organizzazione”.

I tredici fermati sono accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione, incendio, furto, favoreggiamento personale e corruzione elettorale, aggravati dal metodo mafioso o comunque per essere stati finalizzati a favorire Cosa Nostra. Le indagini hanno permesso agli investigatori della Squadra Mobile di Trapani, diretta dal vice questore Emanuele Fattori di ricostruire una fitta rete di affiliati e fiancheggiatori della compagine mafiosa facente parte del mandamento alcamese, operante principalmente  nel comune di Calatafimi – Segesta.

Un clan capace di controllare le dinamiche criminali locali, presidiando in maniera costante la comunità rurale del piccolo paese.  Tra gli indagati spiccano infatti i nomi di personaggi già condannati per mafia, esperti nella veicolazione dei “pizzini”, finiti indagati e condannati perché postini del latitante Matteo Messina Denaro. Cosa questa che ha permesso loro, una volta tornati liberi, di scalare i vertici del potere mafioso locale. Uomini di rispetto. Pubblicamente riconosciuti come tali.

Nelle maglie dell’indagine e tra gli arrestati c’è Salvatore Barone, colletto bianco a disposizione dei boss, ex direttore della Municipalizzata Sau, l’azienda di trasporto urbano a Trapani e fino alla trascorsa estate presidente del Consiglio di Amministrazione pro tempore dell’azienda per i trasporti Atm succeduta alla Sau. Il suo nome è ricorrente nelle intercettazioni, bastava una convocazione di Pidone per farlo arrivare nella sua masseria. Barone quale presidente della cantina sociale Kaggera di Calatafimi si è svelato assoggettato ai voleri del clan per gestire l’organigramma della compagine direttiva societaria, le policy di governo assoggettate alle indicazioni della famiglia mafiosa che imponeva anche assunzioni di figli di boss in carcere.

Ma l’indagine potrebbe avere presto altri sviluppi, c’è indagato il sindaco di Calatafimi, Antonino Accardo, per  i reati di tentata estorsione e corruzione elettorale, aggravati dal metodo mafioso. E’ stato convocato a Palermo, in Procura, a poche ore dal blitz, ha scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere. Alle elezioni del 2019 ha ricevuto il sostegno di Cosa nostra, 50 euro al voto, ridottosi però a 30 a elezione acquisita. A tradire Accardo, la reazione di uno degli elettori che ha venduto il suo voto e che si è sentito maltrattare da Accardo quando gli ha chiesto di risolvere gli schiamazzi notturni nel suo rione. Una discussione tra i due infuocata conclusa dal racconto di quei voti comprati. Sono state documentate inoltre frequentazioni del primo cittadino con esponenti di Cosa Nostra ed un tentativo di recuperare somme di denaro, nei confronti di un imprenditore di Petrosino.

Le indagini hanno dimostrato la consueta capacità del sodalizio criminale di “controllare il territorio”. Cosa nostra trapanese continua a essere più che dinamica (contando su un numero sempre più elevato di componenti, compresi coloro che man mano sono tornati in libertà per avere espiato le rispettive pene) e, di conseguenza prosegue nel capillare controllo del territorio in ogni suo aspetto considerato e a far valere i suoi invasivi e oppressivi condizionamenti.

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