Omicidio Mauro Rostagno, una sentenza da leggere
Omicidio Rostagno: la Cassazione conferma lo scenario organizzato e diretto da Cosa nostra. Uno scenario di collusioni ancora oggi non debellato
Cominciamo da certi commenti comparsi sui social. Qualcuno ha scritto che dopo la pronuncia della Cassazione che ha confermato lo scorso 27 novembre la condanna all’ergastolo per il conclamato capo mafia di Trapani Vincenzo Virga, quale mandante dell’assassinio del sociologo e giornalista Mauro Rostagno, ucciso nelle campagne trapanesi di Lenzi il 26 settembre del 1988, c’è chi ha festeggiato per la conferma della matrice mafiosa.
A certi leoni o leonesse da tastiera va ricordato che le persone per bene non usano far festa sui morti, ma semmai utilizzano rispetto e rendono onore a chi ha perduto la vita per combattere la mafia. Rispetto che altri non mostrano essere capaci di far uso, negando, come purtroppo certuni continuano a fare, anche l’evidenza dei fatti. Abbiamo visto altri far festa. Capiamo che per qualcuno leggere non è un esercizio facile, ma l’invito che rivolgiamo loro è quello di andare a leggere le tremila pagine della sentenza di primo grado scritta dai giudici della Corte di Assise si Trapani, presidente Pellino, a latere Corso, dove si è approfondito lo scenario trapanese di quel 1988, fatto di rapporti intimi e stretti tra la mafia e certi poteri, politica, banche, massoneria, servizi segreti.
Quando si parla di mafia trapanese non si parla di una Cosa nostra tipicamente violenta, dedita ai traffici di droga, ai commerci e scambi di armi, al riciclaggio di denaro, alle estorsioni, agli appalti pilotati, ma di una organizzazione composita, capace di essere già in quel 1988 quella Cosa nostra 2.0 al cui interno è facile trovare pezzi di istituzioni, servizi segreti deviati, con un filo insanguinato per saper mantenere il controllo sulla vita ne di una città ne di una provincia o di una regione, ma dell’intero Stato. Rostagno fu ucciso dalla mafia perché aveva individuato questa ragnatela, per cui è sbagliato parlare di un omicidio voluto da entità esterne a Cosa nostra ed eseguito dalla mafia. In questa provincia siciliana, quella di Trapani, mafia ed entità esterne da decenni sono un’unica cosa.
Dobbiamo attendere le motivazioni della Cassazione per capire perché è stata confermata l’assoluzione del conclamato killer mafioso Vito Mazzara. Ma leggendo il dispositivo sul quale i giudici della Cassazione hanno scritto la conferma della sentenza di appello, si deduce che anche per la Cassazione per condannare Vito Mazzara non sono stati ritenuti sufficienti i risultati balistici e le tracce del genoma, la perizia del Dna che ha evidenziato la presenza delle tracce genetiche proprie di Mazzara sui resti della canna da fucile trovata sulla scena del delitto.
Alle accuse per i giudici è mancato un preciso elemento, cioè la testimonianza di un collaboratore di giustizia che venisse a dire in aula che a sparare era stato Vito Mazzara. Non è stata sufficiente la testimonianza di quei collaboratori che sul conto di Mazzara hanno indicato la precisa caratteristica di essere stato un fedele esecutore degli ordini di Cosa nostra e dei suoi capi dell’epoca, Virga, Mariano Agate e Francesco Messina Denaro, e che era un killer che non condivideva con altri le sue malefatte.
Un killer importante al quale i Messina Denaro pensarono di affidare il compito di uccidere, con un fucile di precisione, Paolo Borsellino quando era Procuratore della Repubblica a Marsala. Vito Mazzara all’ergastolo per i delitti della faida del Belice degli anni ’80, chiamato proprio dai Messina Denaro e che andrà ad uccidere spalleggiato dall’attuale latitante Matteo Messina Denaro, come è scritto nalla sentenza del maxi processo Omega, celebrato a fine anni ’90 a Trapani. Sarà il killer che il 23 dicembre del 1995 andò a uccidere l’agente della Penitenziaria Giuseppe Montalto, sparandogli mentre questi sedeva in auto con a fianco la moglie, che restò non attinta perché Mazzara, sparando nascosto dal buio della sera, e senza che una sola luce illuminasse la vittima, tenne ferma la mano sparando contro il poliziotto, ammazzato per fare un regalo ai detenuti al 41 bis.
Scrissero così i giudici di primo grado: “L’indagine sul movente dell’omicidio di Mauro Rostagno, che ha impegnato larga parte dell’istruzione dibattimentale, ha consentito di misurare tutta f inconsistenza delle piste alternative a quella mafiosa, che pure sono state esplorate, senza preconcetti, e dando il più ampio spazio alle istanze e agli impulsi delle parti interessate a coltivarle. Di contro, a partire proprio da una ricognizione dei contenuti salienti del lavoro giornalistico della vittima, di talune sue inchieste in particolare, ma del suo stesso modo di concepire e soprattutto di praticare il giornalismo e I’informazione come terreno di elezione di una ritrovata passione per l’impegno civile, profuso anzitutto nel contrasto al fenomeno della droga, nel solco dell’equazione lotta alla droga:lotta alla mafia, è emerso come Cosa Nostra avesse più di un motivo, e uno più valido dell’altro, dal suo punto di vista, per volere la morte di ROSTAGNO. E il bisogno di mettere a tacere per sempre quella voce che come un tarlo insidiava e minava la sicurezza degli affari (illeciti) e le trame collusive delle cosche mafiose con altri ambienti di potere accomunati a quello mafioso dalla pretesa di affrancarsi dal rispetto della legalità e creare un proprio ordine…”.
Mafia potente quella trapanese in virtù di quelle coessenze proprie. I giudici hanno scritto a chiare lettere come nel trapanese era stata forgiata la nuova forza mafiosa, non più solo coppole e lupare: ma mafia infiltrata, attraverso la “torsione” di alcuni apparati dell’intelligence tanto da creare “sordidi legami” tra mafiosi ed esponenti dei servizi segreti, per “intese e scambi di favori e protezioni”.
Quel 1988 fu l’anno in cui la mafia cominciò a trasformarsi, a diventare essa stessa impresa, a mandare propri sodali a sedere nelle aule delle istituzioni, mafia in grado di arrivare fin dentro i Palazzi di Giustizia, attraverso la massoneria e la corruzione. Una realtà sulla quale i giudici ad un certo punto di sono soffermati. Scrivendo che alcune parti della magistratura e delle forze investigative si sono trovate a combattere Cosa nostra, facendo sottendere che c’era chi non lo faceva.
E Mauro Rostagno decise di stare dalla parte di chi combatteva giudiziariamente Cosa nostra, conducendo inchieste giornalistiche “che varcavano certi santuari”. Per questo motivo “dava fastidio e divenne una camurria”. Rostagno fu ucciso dopo tentativi condotti da persone a lui vicine, come il guru Francesco Cardella, o come fece lo stesso editore della tv dove lavorava, Rtc, l’imprenditore Puccio Bulgarella, con gli inviti “ad abbassare i toni.
Tolto di mezzo Mauro Rostagno, altre indagini, ma fatte più di un decennio dopo il delitto, altri processi e altre sentenze, dimostreranno che quella Cosa nostra trapanese, i suoi capi, Virga, Messina Denaro, Agate, e ancora i castellammaresi alleati con la mafia americana, gli alcamesi, che parteciperanno alla fase stragista degli anni ’90, divenne sempre più potente, i capi Totò Riina li mise a sedere al suo fianco.
Morto Rostagno calò anche il sipario su quel modello di informazione che lui aveva applicato nei suoi editoriali, nei suoi interventi televisivi. Rostagno stava disegnando la nuova mappa del potere mafioso, dove non sarebbero comparsi i Gucciardi, i Minore, esponenti delle famiglie mafiose trapanesi, ma altri nomi, perché intanto quei vecchi capi erano già morti e sepolti anni prima di quel 1988, ma che intanto anche i più acuti investigatori continuavano a cercare ritenendoli latitanti e non defunti. La mappa che Rostagno stava tracciando è stata ridisegnata ma ad oltre 20 anni dalla sua morte. Se fosse rimasto in vita poteva anticipare i tempi, era pronto a portare in video le foto di chi faceva parte della “mafia emergente”, così la definiva, la mafia degli Agate, dei Messina Denaro, dei Melodia, dei Calabrò, i volti dei politici collusi, ma non gli fu permesso da un commando di sicari che agì in perfetto stile mafioso, una stile che nemmeno i più abili killer (non mafiosi) sono capaci di imitare.
Rostagno era circondato dai lupi e i lupi lo hanno azzannato. Gli stessi lupi che intanto avevano ucciso Gian Giacomo Ciaccio Montalto, che tentarono di far saltare in aria un altro magistrato, Carlo Palermo, che non esitarono a uccidere un giudice in pensione, Alberto Giacomelli e che dopo aver ucciso Rostagno continuarono a uccidere ed accrescere nel loro sanguinario potere. Lupi grigi viene da chiamarli, ricordando quel lupo grigio turco Alì Agca che si racconta essere passato da Trapani, aiutato da certi massoni locali, nel suo viaggio verso Roma, per andare a sparare a Giovanni Paolo II il 13 maggio 1981.
Già la massoneria. L’interesse preciso di Rostagno, dopo aver trovato non una e nemmeno due tracce, ma oltre di più, degli incontri che il gran maestro della P2 Licio Gelli veniva a fare da queste parti, dove intanto era solito sostare il massone e commercialista di Riina, Giuseppe Mandalari, colui il quale diede i sigilli al professore Gianni Grimaudo per innalzare il suo tempio, la loggia segreta Iside 2.
Rostagno fu ucciso perchè la mafia voleva restituire “normalità” a Trapani, tornare a proteggere quel crocevia di tante cose, mafia, massoneria deviata, servizi segreti italiani e di mezzo mondo, traffici di droga, armi, che oggi restano vivi e non solo per coprire la latitanza di Matteo Messina Denaro, che impersona la barbara violenza assassina e stragista, ma anche la capacità di fare impresa e di tenere i legami con la politica che conta.
Mauro Rostagno, il protagonista di questa storia non è morto, è vivo, vive con noi e con chi vuole vedere la mafia battuta e l’emarginazione sociale sconfitta, le povertà annientate, l’informazione libera e la democrazia e la libertà restare inviolate.
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Omicidio Mauro Rostagno, la Cassazione condanna Virga e assolve Mazzara
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