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Omicidio Mauro Rostagno, la Cassazione condanna Virga e assolve Mazzara

Rino Giacalone il . Giustizia, Mafie, Memoria, Sicilia

Mauro Rostagno a RtcCondannato il mandante mafioso assolto il killer. La Cassazione ha così chiuso il caso, ma si spera che la società civile riesca a colmare il buco nella verità consegnata dai giudici

Un altro giornalista ammazzato dalla mafia ma non si sa da chi. Mauro Rostagno fu vittima della potente mafia trapanese, il suo omicidio risale al 26 settembre 1988, e oggi pomeriggio la Cassazione ha messo il sigillo finale.

Condannato all’ergastolo il capo della “famiglia” di Trapani Vincenzo Virga. Colpevole! Per lui un altro ergastolo dopo quello per la strage mafiosa di Pizzolungo del 2 aprile 1985.

Cosa nostra volle fortemente quel delitto, Rostagno era certamente un “giornalista-giornalista”, schiena dritta, era per questo una “camurria”, una seccatura, per don Ciccio Messina Denaro, il padrino del Belìce, alleato con il corleonese Totò Riina già da prima che questi divenisse il capo dei capi. E don Ciccio diede l’ordine di ucciderlo passeggiando con i suoi fidati passeggiando nel mezzo di un suo agrumeto. Il volere del padrino di Castelvetrano arrivò così al capo della mafia trapanese Vincenzo Virga, il boss, che all’epoca era sconosciuto in quanto tale a chi investigava, lo fece eseguire.

Per i magistrati e gli investigatori il killer fu il “sicario” di fiducia di Cosa nostra trapanese, Vito Mazzara, uno che all’epoca era componente della squadra di tiro a volo della nazionale italiana. Girava in auto portandosi il fucile, “se mi fermano – riferì un pentito che era solito stare con lui – dico che sto andando ad esercitarmi”, ma lui provava la sua bravura e scaltrezza nell’uso del fucile andando ad “ammazzare cristiani (persone)”. Anche i giudici di primo grado ritennero Mazzara colpevole, come avevano sostenuto i pm Gaetano Paci e Francesco Del Bene. Contro Mazzara anche le impronte lasciate dal suo Dna sulla canna del fucile trovato sul luogo del delitto, una perizia che i giudici fecero fare quasi alla fine del processo.

Mazzara non si sottrasse, ma sollecitato non ha mai risposto alle domande. Come Virga, il silenzio per i mafiosi è la prima cosa, non aprire bocca nemmeno per negare. I giudici ebbero anche tra le mani i verbali dei pentiti e certe intercettazioni dove i mafiosi dicevano di lui che “era un pezzo di storia e andava protetto e aiutato ora che si trovava in carcere”. Proteggerlo per non farlo pentire, sarebbe stata una devastazione per Cosa nostra che addirittura pensava di organizzare la sua evasione dal carcere utilizzando un elicottero.

Giudizio di colpevolezza però ribaltato in appello. Virga condannato ma Mazzara assolto, prove balistiche e Dna vennero ritenute insufficienti a provare l’accusa.

Oggi in Cassazione il sostituto della Procura Generale Gianluigi Pratola ha chiesto la conferma della condanna per Virga e l’annullamento dell’assoluzione per Mazzara, chiedendo per questi un nuovo processo di appello. Stessa cosa sostenuta dalle parti civili, tra queste, assieme ai familiari di Rostagno, l’Ordine dei Giornalisti, l’Associazione siciliana della Stampa e l’associazione Libera. Ma i giudici della massima corte hanno ritenuto di non dare loro ascolto. Sentenza di appello confermata di netto. Mazzara resta in carcere a scontare altri ergastoli, ma per i giudici lui non sparò a Mauro Rostagno.

La monumentale sentenza scritta dai giudici di primo grado, presidente giudice Angelo Pellino, a latere giudice Samuele Corso, tremila pagine, non ha retto sulla responsabilità dell’imputato Mazzara, ma dal giudizio finale esce confermata nel suo vasto contenuto. resta la “Treccani” che racconta la storia della mafia trapanese. Quella che da decenni governa l’economia, che ha creato la cultura mafiosa, che ha trasformato in legale il sistema illegale. Rostagno fu ucciso dalla mafia, Cosa nostra capace poi di far mischiare le carte, intorbidire ogni cosa, per anni e anni mandanti e killer vennero cercati in ambienti lontani e distinti da Cosa nostra.

La mafia era già quasi riuscita a mandare in archivio l’indagine, facendo restare il delitto senza colpevoli. Nel 2009 però l’inchiesta dai carabinieri passò alla Polizia, alla Squadra Mobile allora diretta dall’attuale direttore del Sca (Servizio centrale anticrimine del Viminale) Giuseppe Linares. E lui la riprese sa dove l’aveva dovuta lasciare nel 1988 il suo predecessore, Rino Germanà. E così si trovarono i riscontri balistici, mai cercati prima, si tornarono a sentire i collaboratori di giustizia che fino ad allora nessuno aveva interpellato, e si scoprì che Rostagno aveva messo la sua attenzione giornalistica sugli affari della nuova mafia.

Da poco tempo Mauro Rostagno era arrivato a Trapani, conosceva la Sicilia per essere stato negli anni ’70 il leader di Lotta Continua a Palermo e lì fu tra i primi ad avere l’intuizione su chi fosse per esempio l’avvocato Vito Guarrasi, originario di Alcamo. Guarrasi, l’eminenza grigia della mafia siciliana. A Trapani Mauro Rostagno, arrivato per occuparsi della comunità di recupero anche da lui fondata, la Saman, assieme alla sua nuova compagna Chicca Roveri (finita poi addirittura sotto inchiesta per la morte del suo compagno, arrestata e poi prosciolta), riscoprì l’amore per il giornalismo, lui uno di quelli ai quali il tesserino dell’Ordine è stato consegnato dopo la morte. Si occupò di una tv, Rtc, il notiziario con lui divenne quello di punta della provincia. Partì dai territori maltrattati, dai politici corrotti, dai ragazzi morti per droga e dallo spaccio nei rioni, per alzare ogni giorno di più l’attenzione sul perché nella terra trapanese non cambiava nulla, arrivando a Cosa nostra e alla massoneria. La gente lo ascoltava, e lo apprezzava, ma qualcuno diceva anche “a questo un giorno l’ammazzano”.

A Trapani prima di quel 1988 avevano già ucciso un magistrato, Ciaccio Montalto nel 1983, tentarono di ucciderne un altro, Carlo Palermo nel 1985, ma l’autobomba preparata per lui fece strazio di una mamma, Barbara Rizzo, 30 anni, mentre accompagnava a scuola i suoi gemellini, Salvatore e Giuseppe Asta, di sei anni.

C’erano e continuavano guerre e faide, ma i sindaci negavano l’esistenza della mafia. Rostagno no. Anzi era andato avanti, aveva capito chi era a comandare, era giunto a un punto dove nemmeno chi indagava era giunto. E aveva messo gli occhi sulla massoneria, quella più segreta che faceva inciuci e intrecci con Cosa nostra e giorno dopo giorno faceva crescere quella che ancora oggi esiste e che si indica come l’“area grigia” di Cosa nostra. Era andato troppo avanti ed era troppo solo, perché chi lo ascoltava poi uscito da casa continuava a favorire l’andazzo di sempre, ai trapanesi è sempre piaciuto sopravvivere, Rostagno cercava invece di insegnare loro il piacere di vivere. “Mio padre – disse la figlia Maddalena sentita nel processo a Trapani, cominciato 23 anni dopo il delitto – voleva fare il terapeuta di questa città”, ma la città consegnò il terapeuta ai killer di mafia.

Lo ammazzarono la sera del 26 settembre 1988 mentre rientrava nella sua casa, dentro la Saman, lo aspettarono i killer in una stradina di campagna, a Lenzi, in territorio di Valderice, a un tiro di schioppo dalla casa del mandante Virga e del sicario Mazzara…assolto ora dalla Cassazione però.

A Trapani in quel 1988 Cosa nostra si trasformava in impresa, metteva suoi uomini a sedere nei palazzi della politica e delle istituzioni, usava bene le banche per riciclare denaro, ma in particolare Cosa nostra per ordine di Riina era diventata un’unica cosa con la massoneria. Trapani era territorio fertile per i servizi segreti, per i traffici proibiti finanziati dai Governi, c’era presente Gladio. Ma non c’erano comparti separati, mafia e poteri forti e occulti ieri come oggi restano una cosa sola. Rostagno per i mafiosi era un avversario da abbattere, perché era in grado di scoperchiare certe pentole. Oggi si parla parecchio di “massomafia”, nelle pagine della sentenza scritta dai giudici della Corte di Assise di Trapani c’è un ricco compendio di riscontri. Solo che tutto quello che Rostagno aveva avuto certa percezione, ufficialmente nelle aule di giustizia l’esistenza di questo scenario verrà provata quasi dieci anni dopo quel delitto.

E oggi lo scenario non è diverso. Solo che in pochi lo raccontano, chi indaga trova sempre un ostacolo da aggirare e spesso non è cosa facile, ma tra chi indaga e giudica spesso si cela chi sta dall’altra parte. O se non sta dall’altra parte, sostiene il quieto vivere. Proprio come accadeva in quel 1988. Potente è la mafia a Trapani, ma non tanto perché a comandare è il latitante Matteo Messina Denaro, ma perché ancora qui si annidano intrecci e connessioni, c’è una minoranza che riesce a condizionare la vita della maggioranza. C’è chi detiene le chiavi di certe casseforti che frattanto sono finite nelle più importanti city finanziarie d’Europa, lontano dai cacciatori dei patrimoni mafiosi e al riparo dalle norme su riciclaggio e antiriciclaggio.

Il movente del delitto Rostagno è rimasto per oltre 20 anni a disposizione di chi indagava, bastava leggere i suoi editoriali o cercare tra le sue carte spuntate all’improvviso durante il processo di primo grado. E invece si è cercato altrove, sempre lontano dalla verità. I magistrati sono stati anche traditi da chi indagava. Certi carabinieri nascosero anche alcuni verbali dove era possibile leggere quello che Rostagno incontrando alcuni massoni aveva scoperto.

Per non parlare poi di noi giornalisti, sempre qualcuno pronto a dire che in fin dei conti Rostagno non faceva qualcosa di diverso dagli altri giornalisti. Insomma ucciso per altro, non perché informava, ed è venuto fuori di tutto, anche la storia di dollari che i carabinieri la sera del delitto trovarono, così dissero, nella sua borsa. Bugia, con tante altre bugie. La storia di Rostagno sembra essere una storia di morte come tante altre. Ma scriviamo così non per banalizzare ma semmai per evidenziare che si può scrivere Rostagno, leggendo pure altre nomi, Spampinato, Francese, De Mauro, Siani. La strategia è stata sempre uguale. Impedire di far raccontare la verità. Ieri, possiamo dire nel secolo scorso, i giornalisti li ammazzavano, oggi scatta la delegittimazione, le querele temerarie, le denunce penali, così per caricare il giornalista di altri pensieri, quelli per potersi difendere e non attaccare.

Le più recenti indagini su Trapani dimostrano come Cosa nostra mantiene vitalità avendo gli uomini giusti al posto giusto, ci raccontano di politici che continuano a non rispettare la distanza di sicurezza dai mafiosi, ci indicano la massoneria come via da seguirsi per vedere risolti certi problemi, come anche il potere ottenere una pensione da invalido civile, ci dicono che mafia e corruzione sono faccia della stessa medaglia e che droga e usura sono gli affari quotidiani, quasi quelli più spicci, dei boss.

Ma la realtà è quella che le generazioni che sono state protagoniste di quegli anni ’80, quelle che dicevano e si sentivano dire “la mafia non esiste”, oramai sono state sostituite da altre generazioni verso le quali è passato il messaggio che la mafia è stata sconfitta. E quindi sono indotti a non conoscere il passato. I giovani di oggi non conoscono le storie delle vittime delle mafie, provate a chiedere di Rostagno nelle scuole trapanesi se non anche in altre scuole d’Italia. I giovani sanno di Falcone e Borsellino ma è solo una conoscenza percepita per quello che compare sui social. L’anno è diverso, addirittura è diverso il secolo, ma a Trapani la mafia resiste, si è perfezionata, può festeggiare una assoluzione, può entrare ed uscire dai Tribunali non per essere condannata ma semmai per discutere o spiare un magistrato o un giudice, nelle fondamenta resta tale e quale a quella che era negli anni ’80, una mafia che sa votare bene quando è ora di votare e che sa sparare bene quando è ora di sparare.

Per questo la sentenza della Cassazione non ci piace, perché è una sentenza a metà. Ma non ci si deve scoraggiare. C’è un buco in questa verità che la società civile può colmare. La Giustizia ci ha consegnato il mandante, mafioso, ma non il killer e se non abbiamo il sicario non abbiamo gli addentellati, ancora una volta è accaduto quello che accade sempre.

Per avere la verità in questo Paese dobbiamo come scipparla, sottrarla, e quando ci riusciamo succede sempre che c’è una verità che non possiamo avere per intero. Ma almeno da oggi pomeriggio nessuno potrà dire che Rostagno non fu ucciso dalla mafia e che a Trapani la mafia non esiste. E che si può ripartire, da quello che intanto di certo finalmente c’è stato detto.

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Rostagno, una sentenza a metà

E’ di poco fa la pronuncia della Cassazione che chiude definitivamente il processo per il delitto di Mauro Rostagno. Respingendo la richiesta del pg che aveva chiesto di rimandare al giudizio di appello il conclamato killer della mafia trapanese Vito Mazzara, annullando quindi l’assoluzione, i giudici hanno confermato per intero la sentenza di secondo grado.

Un solo condannato quindi, il già riconosciuto capo della mafia trapanese Vincenzo Virga. Per lui un altro ergastolo che si aggiunge ad altri, come quello inflitto per la strage mafiosa di Pizzolungo del 2 aprile 1985.

Assolto Mazzara che è in carcere e ci resta per altri ergastoli, come quello per l’omicidio del poliziotto penitenziario Giuseppe Montalto.

(Ultim’ora in aggionamento)

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Mauro Rostagno e quel nome del boss depennato

Rino Giacalone . in GiustiziaMafieMemoriaSicilia

Quando si ricorda il nome di Mauro Rostagno, e spesso lo si fa, purtroppo, solo nel giorno del triste anniversario della sua uccisione, 26 settembre, lo si presenta ai lettori, a chi ascolta, come sociologo e giornalista.

Quasi nel volere insistere, ma non chi scrive, nel fare ricercare il movente del suo omicidio non solo nell’attività giornalistica, che lui aveva ripreso arrivando a Trapani, era stato direttore del giornale Lotta Continua, ma anche in altri contesti, in altri ambienti. L’impegno da sociologo nella comunità di recupero per tossicodipendenti Saman per esempio. Ma la verità è quella che Mauro Rostagno usando la sua professionalità, di sociologo e giornalista, per quello che emerge dalla mole di documentazione giudiziaria raccolta sul suo omicidio, nella terra trapanese aveva raccolto tutte le sue forze per colpire l’associazione mafiosa, da sociologo e da giornalista, assieme.

Lo dico sempre, io non ho conosciuto Mauro Rostagno, solo un paio di incontri veloci, di pochi istanti, dentro le stanze di Rtc, la tv privata che dirigeva senza tessera, e quindi mi tiro fuori dalla fiera delle vanità che puntualmente, ad ogni 26 settembre, sorge da più parti. Rostagno l’ho conosciuto attraverso gli atti d’inchiesta, taluni contraddittori, sulla sua morte, gli atti processuali. Così come allo stesso modo ho conosciuto altre vittime della strategia mafiosa di attacco alle istituzioni e contro chi poteva costituire per essa stessa un pericolo. Leggendo pagine e pagine di rapporti, resoconti, testimonianze.

La storia del delitto mafioso di Mauro Rostagno è una storia di morte come tante altre. Ci sono trame color rosso sangue che attraversano moltissimi omicidi. Ma non scrivo questo per banalizzare, “una storia come tante altre” non è banalizzare ma semmai il contrario, evidenziare cioè come Cosa nostra negli anni, dal secolo scorso ad oggi, quel 1988 appartiene al secolo passato, ha sempre usato identico comportamento. Dapprima isola le sue vittime, poi le ammazza e poi “mascaria”, sporca il ricordo dell’ucciso e infine depista. Certamente tutto questo non l’ha mai fatto da sola, ma con complicità anche di persone dello Stato che amano stare dall’altra parte della barricata.

Sono trascorsi 32 anni, a cavallo tra due secoli, da quando Cosa nostra uccise Mauro Rostagno. Era sera quel 26 settembre quando lui alla guida della sua auto, una Fiat Duna di colore bianco, era quasi giunto a Lenzi, nelle campagne di Valderice, dove aveva sede la comunità Saman. Lì lui abitava. Tornava dalla sede di Rtc. Con lui c’era una ragazza, Monica Serra, era una ospite della comunità, una ragazza che faceva parte della squadra di giovani cronisti che Rostagno aveva messo in piedi e che ogni giorno giravano le città, portando in tv tutto quello che serviva per confezionare una edizione del telegiornale. I sicari lo aspettavano fermi nel punto più buio di quella stretta strada di campagna, Rostagno deve averli visti, certo non vide che erano armati, rallentò a tal punto di ingranare la prima pronto a riprendere il cammino. Non ne ebbe il tempo perché le armi cominciarono a sparare. Disse a Monica, così lei stessa ha ricordato, di abbassarsi nel fondo dell’auto, per ripararla dai colpi, e Monica che sedeva sul sedile del passeggero si rannicchiò, per poi uscire fuori e chiedere aiuto quando non sentì più le armi sparare e vedere il capo di Rostagno chino su di un lato. Ecco questa la scena dell’omicidio.

E sembra essere la scena di altri omicidi. La stretta stradina, lo si può vedere ancora oggi, non attraversa una zona di campagna disabitata, ai lati della strada ci sono abitazioni, nessuno di coloro i quali quella sera era nelle propria casa ha sentito quegli spari.

La stessa cosa che il 25 gennaio del 1983 accadde quando a Valderice, a notte fonda, fu ammazzato dalla mafia il magistrato Gian Giacomo Ciaccio Montalto.

La stessa cosa che avvenne il 2 aprile 1985 quando Cosa nostra con un’autobomba tentò di uccidere il pm Carlo Palermo e il tritolo fece strazio di una mamma, Barbara Rizzo, e dei suoi figli gemelli di sei anni, Salvatore e Giuseppe Asta.

Nessuno ha visto e o sentito. Nessuno per Ciaccio Montalto e Rostagno ha udito i colpi di mitraglietta e di lupara, nessuno ha visto scappare via dalla strada sventrata dal tritolo l’auto con il commando che aveva agito. L’ho fatta breve, perché gli esempi potrebbero continuare, ecco cosa significa “una stessa storia di morte”.

Ciaccio Montalto, Rostagno, Pizzolungo, Giacomelli, un altro giudice ucciso da Cosa nostra, come altri morti vittime di Cosa nostra siciliana, non solo hanno analogie tipiche nei delitti di mafia, ma anche nell’evolversi processuale. Anni e anni di indagini, arresti, condanne e poi assoluzioni, quando non arrivano subito i proscioglimenti, e poi i processi lunghi, lunghissimi, avviati anche a 10 e più anni di distanza dai fatti. E ancora depistaggi, falsi pentiti e falsi testimoni. False piste.

La morte violenta e barbara di Mauro Rostagno non è sfuggita a questo scenario, terribile quanto lo stesso omicidio. Puntuale in tutti i delitti la stessa domanda, fatta circolare da subito, senza nemmeno aspettare il funerale della vittima: siamo sicuri che è stata la mafia? Domande sollevate ad arte, e non solo da parte dei responsabili ma anche da parte di chi per un motivo o per un altro si era ritrovato in vita la vittima come proprio oppositore.

Nel delitto Rostagno a insinuare dubbi fu certo Cosa nostra ma anche certa politica, quella contro la quale Rostagno si poneva, da giornalista, denunciando i mali della città di Trapani. La sera che Rostagno fu ucciso a Trapani era riunito il Consiglio comunale, la notizia dell’omicidio arrivò in aula, ma la seduta non fu sospesa.

Cosa c’entrava, questo il sentire di certuni, quell’uomo di 46 anni, che parlava alla gente con la tipica inflessione dialettale del nord, che era solito vestire di bianco ed occuparsi di tossicodipendenti, con la terra trapanese. Cosa c’entrava la mafia col suo delitto se poi dentro la sua borsa erano stati ritrovati dei dollari, cosa c’entrava la mafia con quel delitto se l’amante che Rostagno aveva era la compagna di un generale dei servizi segreti. Cosa c’entrava quel delitto con il giornalismo se altri giornalisti, più di lui, ogni giorno erano impegnati a scrivere le malefatte della mafia, e mai erano stati toccati o minacciati. Bugie, invidie, depistaggi.

La foto più vera di Mauro Rostagno l’ha indicata la figlia Maddalena, giovanissima quando le uccisero il padre: “mio padre – ha detto durante il processo in Corte di Assise a Trapani – voleva fare il terapeuta di questa città”. Fare il terapeuta significava far prendere coscienza ai trapanesi che non abitavano in un oasi di pace, che la politica era animata dalle corruzioni, che l’incertezza non poteva essere la caratteristica del loro vivere quotidiano, che stare in mezzo alla munnizza non era una cosa normale, e che non erano morti inevitabili quelle di alcuni giovani uccisi dalle overdose di eroina. Faceva il terapeuta per far prendere coscienza che con la mafia non bisognava convivere, ma bisognava semmai isolarla, per farla colpire giudiziariamente.

Anni dopo quel delitto, altre indagini, racconteranno che in quel 1988 Cosa nostra trapanese cambiava pelle, diventava ciò che sarebbe stato maggiormente negli anni ’90, una associazione imprenditoriale, che investiva nelle speculazioni edilizie i soldi guadagnati con i traffici di droga, capace di controllare i grandi appalti.

Cosa nostra è riuscita oggi a gestire grandi liquidità nei tempi di crisi, oggi, diciamolo chiaramente, è pronta a intercettare i fondi europei che arriveranno per far ripartire il Paese dopo la grave crisi epidemiologica. Non sarebbe stato tutto questo oggi Cosa nostra se le sue vittime fossero rimaste in vita, se bravi investigatori non fossero stati disarmati prima e trasferiti dopo.

Il processo per l’omicidio di Mauro Rostagno oggi è fermo in Cassazione. In primo grado gli unici due imputati, i conclamati mafiosi Vincenzo Virga, capo della famiglia e del mandamento di Trapani, e Vito Mazzara, il killer di fiducia di Cosa nostra trapanese, sono stati condannati all’ergastolo. In appello condanna confermata solo per Virga, assoluzione per Mazzara. Il 27 novembre prossimo in Cassazione è prevista la discussione sui due distinti appelli presentati dalla Procura generale di Palermo, contro l’assoluzione di Mazzara, e dalla difesa di Virga, contro la condanna all’ergastolo.

Oltre 20 anni sono serviti per arrivare al processo di primo grado. Quando il movente di quel delitto era a portata di mano. Mauro Rostagno fu ucciso per avere attaccato frontalmente il boss di Mazara, Mariano Agate, che dall’aula di un Tribunale quasi pubblicamente lo invitò a tacere, per i suoi servizi giornalistici e di approfondimento sul fenomeno mafioso. Fu ucciso per quello si stava preparando a dire. Agli atti del processo di primo grado è entrato un faldone di documenti, alcuni appunti vergati a mano da Rostagno, il menabò di una trasmissione che stava allestendo, c’era già la sigla pronta, “Avana” il titolo, la colonna sonora quella di una canzone di Paolo Conte,

“Anni”. Anni per scoprire la verità. Così forse questo voleva scrivere Rostagno, per scrollare la società civile trapanese, ci vogliono anni per scoprire le cose. Non immaginava certo che questa sarebbe stata la sorte che avrebbe riguardato la sua morte.

Ecco in quelle carte c’è un foglio con scritti tanti nomi, anche di mafiosi. Uno di questi nomi però una volta scritto è stato depennato. Quello del capo mafia di Trapani, Totò Minore. Nel 1988 era considerato il capo della mafia trapanese, latitante. Le indagini sulla mafia trapanese che all’epoca erano in corso, portavano sempre al suo nome. Ma solo nel 1993 si saprà, dai primi collaboratori di giustizia, che Totò Minore era stato ucciso nel novembre del 1982, strangolato dopo aver cenato con Totò Riina.

Se Rostagno fosse riuscito a dire in diretta tv in quel 1988 che colui il quale era considerato il capo della mafia trapanese in verità era morto da sei anni, non sarebbe stata una cosa indolore per Cosa nostra. Significava indicare l’esistenza di un successore, Vincenzo Virga, che all’epoca entrava ed usciva dai salotti della politica, significava far scoprire anche nel mondo della giustizia e delle indagini, certe connivenze, insomma uno scoop giornalistico in grado di mettere a nudo quella che era la nuova essenza della mafia trapanese, il dominio dei clan vicino ai Corleone, da quelli trapanesi controllati da Virga, a quelli di Castelvetrano capeggiati da don Ciccio Messina Denaro.

In quegli appunti scritti da Rostagno ricorre più volte Castelvetrano, è segnata la presenza di un ministro dell’epoca, Vittorino Colombo, c’è un appunto sulla presenza a Trapani dei cavalieri del lavoro di Catania, e la protezione mafiosa garantita per i lavori di una diga, quella realizzata nelle campagne di Trapani, il cosiddetto lago Bajata.

Bastava andare a leggere questi appunti per capire, invece di inseguire altra fantomatiche piste o far passare per mostro la sua compagna, arrestata perché accusata di aver fatto da complice agli assassini, assassini che furono dipinti come dei balordi.

La mafia iniziò la sua opera di depistaggio già mentre faceva uccidere Mauro Rostagno. Usando un fucile che esplode durante il delitto. Quasi a voler rappresentare che ad agire non erano stati dei killer professionisti. E durante il processo di primo grado, durato poco più di tre anni, ci furono dei carabinieri che vennero a dire che questa poteva essere la realtà, perpetuando il tentativo di contraddire le indagini che avevano portato alla sbarra due mafiosi importanti di Cosa nostra trapanese. Carabinieri che avevano perduto dei verbali dove Rostagno riferiva sulle sue ricerche giornalistiche attorno alla massoneria trapanese e che avevano dimenticato di confrontare le tracce balistiche di quel delitto contro altri omicidi.

Quando i giudici di primo grado pronunziarono nel maggio 2014 la sentenza di condanna, indicarono alla Procura una decina di falsi testimoni. All’epoca il nostro codice penale non comprendeva il reato di depistaggio, intervenuto successivamente, una modifica sostenuta dal deputato Pd Davide Mattiello che quel processo aveva seguito da molto vicino. Se ci fosse stato il reato di depistaggio, per qualcuno dei testi bugiardi l’accusa sarebbe stata questa.

Oggi questo processo “per false testimonianze” è in corso, la prescrizione per i depistatori è a portata di mano.

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