Elogio degli avvocati e della difesa da parte di un PM
“Ma come fai a difendere un criminale?”
Questa è la classica domanda che spesso viene rivolta ad un avvocato o anche soltanto ad uno studente che desidera diventarlo.
Faccio il magistrato, sono un pubblico ministero e quindi sono il responsabile delle indagini e il titolare dell’azione penale; forse pensereste che anche io me lo chiedo…e invece vi sbagliate.
Questa domanda è figlia di un grave e diffuso pregiudizio che vede il mestiere del difensore come almeno potenzialmente ambiguo dal punto di vista etico, se non peggio. Il dubbio, anzi, il sospetto nasce da almeno due gravi errori e fraintendimenti di partenza.
Prima di tutto si sta presumendo sin dall’inizio la colpevolezza di colui che viene difeso. Niente di più sbagliato, illiberale e pericoloso. E lo dice la nostra Costituzione: “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” (art. 27).
Il giudizio di colpevolezza è l’approdo possibile ed eventuale del processo, non il presupposto o l’esito scontato. Le regole per la raccolta e la valutazione della prova non sono cavilli da Azzeccagarbugli, ma presidi fondamentali delle libertà fondamentali che fanno la differenza tra lo Stato liberale di diritto e i regimi (guardate la vicenda del ricercatore Patrick Zaki in Egitto se avete qualche dubbio su quale sia il sistema migliore in cui vivere).
Tutto il processo penale moderno nasce con l’obiettivo principale proprio di garantire i diritti di difesa dell’individuo di fronte alla forza del potere pubblico e di evitare di condannare persone che non siano responsabili al di là di ogni ragionevole dubbio (non una certezza scientifica, ma uno standard molto alto che non viene richiesto in nessun altro ambito del diritto).
Il secondo pregiudizio che fonda quel sospetto verso gli avvocati dipende invece dal fatto che si tende a identificarli con l’imputato (ingiustamente presunto colpevole, visto che giudicare ci fa sentire più sicuri e forti e invece comprendere e dubitare è attività sempre faticosa e scomoda).
L’avvocato non difende la presunta condotta illecita, bensì garantisce il rispetto delle regole e dei diritti del suo assistito (e d’altronde i magistrati non giudicano la persona in quanto tale ma solo le sue azioni).
Vi garantisco che, anche se il mio mestiere spesso si traduce spesso nel sostenere un’accusa (anche se prima viene l’obbligo di cercare le prove anche a favore e più in generale la ricerca della verità processuale), io spero sempre di trovarmi di fronte degli avvocati professionali e attenti: so che il processo avrà uno sviluppo migliore, sarà più approfondito e il su o esito sarà più vicino a quell’ideale così irraggiungibile di giustizia che dovremmo cercare di inseguire nelle aule dei tribunali.
Chi vuole un difensore debole o intimidito non ha a cuore l’accertamento della verità e cerca solo mani libere per un comodo (e quindi spesso sbagliato) esercizio del potere di giurisdizione.
In questo periodo sto scoprendo un testo ribalta il sentire giustizialista oggi molto diffuso: “La Resurrezione”, di Lev Tolstoj. Il grande romanziere russo dipinge un affresco in cui in prigione finiscono soprattutto le vittime di un sistema ingiusto e diseguale, mentre chi esercita il potere è spesso privo di sensibilità e di pietà.
Questo il paradosso finale: “….attualmente l’unico posto che si convenga a un uomo onesto in Russia è la prigione!”
Questa frase può essere in parte una provocazione, tuttavia mi ha fatto riflettere molto e credo che sia un monito che da Pubblico Ministero mi porterò dentro: un esercizio cieco e burocrate del potere rischia di tradursi in una perpetuazione di ingiustizia se non sono garantiti i diritti di difesa e se non siamo davvero tutti uguali davanti alla legge.
L’Italia e l’Europa del 2020 non sono la Russia di fine Ottocento: siamo pur sempre la patria di Beccaria e Calamandrei e le regole della Costituzione e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo sono, tra gli altri, baluardi dei diritti fondamentali, inclusi quelli di difesa.
Quello però che si rischia è uno scollamento tra il sentimento popolare diffuso e le regole del diritto: quando i principi non vengono più compresi e condivisi si crea una pericolosa frattura che produce un approccio non equilibrato verso i temi della giustizia e semina sfiducia verso le istituzioni e la legalità.
Occorre un dibattito pubblico che cerchi di fare appello alla ragione e non ai peggiori sentimenti che ci abitano (e che ci agitano tanto di più in tempi così precari e difficili come quelli che stiamo vivendo).
Occorre vigilare e contribuire affinché anche sui media e soprattutto sui social la giustizia non sia oggetto di tifo e provocazioni, ma di approfondimento e confronto. Spesso la cronaca e il chiacchiericcio da bar cercano solo capri espiatori, mentre abbiamo bisogno di comprensione per contrastare davvero i fenomeni criminali che guastano la convivenza sociale.
Occorre infine anche che avvocatura e magistratura non siano percepite e non si percepiscano come nemici di cui diffidare. Certamente l’autorità giudiziaria ha un ruolo e delle responsabilità diverse da quelle dei difensori, ma gli avvocati incarnano le garanzie di difesa e indebolirli o attaccarli vorrebbe dire indebolire e attaccare lo stato di diritto. Un Paese con degli avvocati meno liberi è un Paese in cui rischiamo di essere meno liberi tutti.
* Sostituto Procuratore della Repubblica di Bologna
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