Il “pensare corrente” sul carcere e i suoi antidoti
La recensione a “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia”, (Marcello Bortolato, Edoardo Vigna, Laterza, 2020), diventa occasione per un’analisi a tutto tondo delle ideologie e delle visioni della penalità
1. Una rincorsa profonda può agevolare un salto lungo. Il libro di cui discorriamo si propone un salto in avanti di grande impegno, l’approdo ad una penalità non più (soltanto) retributiva, ma essenzialmente riparativa. Una terra promessa. Mi sento giustificato se compio qualche passo indietro per prendere la rincorsa, insieme agli Autori.
Ritorno al 1971, anno ancora vivo nella memoria di molti di noi. In quell’anno, a tacere del resto, comparvero le prime rivolte carcerarie con i detenuti sui tetti delle prigioni, ed apparve, per i tipi di Einaudi-Nuovo Politecnico, un libro che segnò un nuovo stile di approccio alla materia del carcere: si intitolava, appunto, Il carcere in Italia; erano autori due giovani, Aldo Ricci di 28 anni, laureato in sociologia a Trento, e Giulio Salierno di anni 36, arrestato nel 1954 e condannato a trent’anni di reclusione per omicidio e rapina, scarcerato nel 1968 (da una giustizia non poi troppo spietata, a quanto si ricava da queste date).
L’opera divenne un testo di culto per quella generazione, e forse anche per altre. Aveva gli entusiasmi talora radicali di quella stagione (ma non dimentichiamo che nel 1971 era ancora vigente il famigerato regolamento penitenziario del 1931, che giustificava il rifiuto più severo), e si distingueva dalla letteratura precedente per essere il primo documento sulle prigioni di impronta non solo memorialistica, né soltanto impressiva o autobiografica, poiché accanto alla descrizione puntuale della vita dei reclusi compariva una densa esposizione di dati, tabelle, statistiche, informazioni su origine, istruzione e condizione sociale dei detenuti: in sintesi, non illustrava solo il consueto “come si sta” in carcere, ma si domandava anche “chi ci va”, e soprattutto “perché ci va”.
Beninteso, quel libro non era e non pretendeva di essere letteratura sul carcere: quella aveva già i suoi monumenti (da Charles Dickens a Victor Hugo a Alexandre Dumas e altri); né aspirava alle analisi filosofiche sulla giustificazione della pena, od a quelle socio-politiche sui sistemi repressivi, di cui il carcere è l’architrave (basilari, tra i molti, Asylums di E. Goffman, di soli tre anni prima, e Surveiller et punir di M. Foucault, di poco posteriore.
No, Il carcere in Italia si discostava sia dalla memorialistica dolente di impronta classica (si può ricordare, per tutti, Silvio Pellico con Le mie prigioni; e, volendo, un libretto di poca fortuna ma di forte intensità umana, quale La traduzione di Silvano Ceccherini, Feltrinelli Ed., uscito nel 1963, quando i tempi non erano ancora maturi); sia dalle riflessioni socio-filosofiche di ampio respiro che costituirono l’ossatura delle annate de La questione criminale, fondata anch’essa nel 1975 da Baratta e Bricola.
Ma soprattutto quel libro apriva la via a due filoni di pensiero. Del primo si è detto: da allora non si poté più parlare di carcere senza coltivare anche il metodo dell’inchiesta, della documentazione, dell’attenzione alle “quantità” dei fenomeni, alla vita empirica e concreta delle realtà giuridiche, presupposto per leggere meglio la qualità politica delle istituzioni.
Il secondo, meno immediatamente percepibile ma ancora più “fondativo”, era la combinazione di due immagini destinate a nutrire il sentire collettivo. Una ruotava intorno alla qualità dei carcerati (“in carcere ci vanno solo i poveracci”); l’altra intorno al limitato danno sociale dei “reati dei poveracci”, che in larga prevalenza cagionano poco guasto, salvi casi particolari, legati a fatti di sangue. Dunque: “in carcere ci vanno i poveracci, e per cose da poco”.
E gli altri? Tutti galantuomini? Certamente no. Ma il codice ed il processo penale colpivano da una parte sola, perché avevano soprattutto la funzione di tutela rafforzata dell’ordine pubblico, che dall’altra componente sociale non riceve gran nocumento. C’erano, non si nega, anche i reati dei c.d. colletti bianchi (“White collar crimes”, espressione coniata da E. Sutherland nel 1949) che il carcere ignorano del tutto; ma quelli procuravano un danno, tutto sommato, modesto e circoscritto: qualche duello, qualche corruttela, qualche traffico di notizie riservate, poca cosa, insomma: quel mondo rappresentava un’area di impunità ingiusta ma modesta, fonte più di riprovazione morale che di vero allarme sociale.
Il 1968, di cui Ricci e Salierno sono un’innegabile espressione, investì frontalmente le istituzioni, e fra esse il carcere: se la prigione è uno strumento di classe, se costituisce la risposta ad una deprivazione, ad un mancato inserimento sociale, allora la politica penale non deve più avere come unica risposta la pena detentiva (se non in via eccezionale, e limitata ai casi gravi) ma azioni a monte del reato per prevenirlo, e forme di risocializzazione a valle quando il reato è stato tuttavia commesso.
Pur con tutte le dovute riserve, questo richiamo alla realtà ebbe un effetto benefico immediato. Non parlo della riforma dell’ordinamento penitenziario, che seguirà a breve (1975): intendo la percezione dei nessi profondi tra processo e pena. Valga per tutti, ma in misura clamorosa, la c.d. “legge Vassalli”, cioè il d.l. 11 aprile 1974, n. 99, convertito nella legge 7 giugno 1974, n. 220). Quando uscì il libro essa non era ancora in vigore, e pertanto le circostanze attenuanti non potevano bilanciare le aggravanti speciali; il furto, quasi sempre pluri-aggravato, comportava l’irrogazione di una pena che, pur con due attenuanti, quasi mai poteva essere inferiore ad un anno e quattro mesi; la sospensione condizionale poteva essere concessa solo una volta e copriva solamente le pene fino ad un anno di reclusione; e le misure alternative alla detenzione erano ovviamente tutte di là da venire. Il totale era presto fatto: qualsiasi reato, anche se causa di un modestissimo danno sociale, produceva galera effettiva, consumazione immediata di ogni beneficio o mitigazione, recidiva a breve scadenza e inevitabili carriere criminali e detentive, con interi pezzi di esistenza trascorsi dietro le sbarre per cose da poco.
Questi pensieri, sia pure espressi con ben maggiore accuratezza, hanno lasciato un’impronta profonda sulla cultura penalistica e persino sull’azione concreta dei decenni successivi. Non casualmente il 1971-’72 è il biennio delle rivolte carcerarie, in particolare a Torino, Genova, Catania, Trapani, Brescia, Napoli e Roma-Rebibbia; ed è ancora nell’ottobre del 1972 che viene ripresentato il disegno di legge Gonella che sarà posto all’esame del Senato e diventerà il testo base della riforma dell’ordinamento penitenziario del luglio 1975.
Dal 1971 in avanti la letteratura sul carcere è diventata torrenziale e le citazioni sarebbero sterminate: ma in larga prevalenza si è distribuita nei filoni del racconto auto-biografico (con autore detenuto o ex detenuto); delle storie significative di un qualche recluso, raccontate da qualcuno che ha loro dato forma pubblica e capacità di commozione; dell’inchiesta di tipo giornalistico ad opera di un autore politicamente “impegnato”, cioè mosso da una tesi, e quindi da una sensibilità che nel carcere trova conferme di quello che intende dimostrare.
Accanto a questa attività, che possiamo denominare di indagine o di descrizione, si è sviluppata anche una meritoria revisione legislativa “di sistema”, guidata dal faro della risocializzazione: la legge Gozzini (1986); la normativa sull’AIDS e la salute nel carcere; poi gli interventi imposti dal sovraffollamento carcerario; le modifiche e le dilatazioni delle misure alternative, e tante altre riforme, delle quali dobbiamo riconoscere il valore e l’utilità.
Ben presto, tuttavia ci si rese conto che la realtà non era e non è mai mono-cromatica. E nacque la stagione che potremmo chiamare (con sintesi giornalistica: e Vigna mi perdonerà) “degli articoli bis”. Non tutto il mondo della devianza è fatto di “poveracci”, non tutti i reati sono furti di motorini. Subentrarono gli anni ipnotizzati dal terrorismo e dalla criminalità organizzata (anni ’70 e ’80 il primo, anni ’80 e ’90 la seconda); e ci si rese conto che i c.d. colletti bianchi non sono solo i danarosi altolocati, e non si limitano a qualche sporadica apparizione nella pubblica amministrazione, ma hanno infestato progressivamente tutto il vivere civile.
Un certo articolo bis fu varato in gran fretta (l’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario: legge 12 luglio 1991, n. 203) ancora nella direzione dei “poveracci”, ma poveracci con la lupara; e produsse alcuni frutti positivi e molta sofferenza. Altri articoli bis costellarono via via il codice penale rivelando una presa di coscienza sui modi nuovi di delinquere di una società molto liquida e molto disinvolta (tra i tanti, e solo con riferimento a condotte che hanno come normali protagonisti soggetti di quella tipologia sociale, e un’apprezzabile presenza nelle indagini e nell’allarme sociale): gli articoli bis apposti a 322, 346, 423, 452, 501, 513, 517, 640, e tutta una variegata moltitudine di leggi speciali; ma tutti o quasi furono sostanzialmente lettera morta, o almeno inefficace.
Il pensiero dominante rimase, seppure un po’ mutilato. Un altro, contrapposto e sghembo, gli si oppose via via, ed è la deformazione contro la quale si battono gli Autori, quella di una giustizia penale molle e impotente. Quale nesso si può intravedere tra questa sintetica retrospettiva e il libro di Bortolato e Vigna?
2. Inizio dalla caratteristica più evidente e meritoria, cioè dalla constatazione che il lavoro si riallaccia a quel capostipite ormai remoto per quanto concerne il metodo dell’indagine: non si accoda al costume gridato della nostra epoca, ma riprende la vecchia massima del “conoscere per giudicare” e la raccomanda come metodo. Non è poco merito.
Dunque, né letteratura né pamphlet. Ma un antagonista da combattere c’è ed è evidente. Non è più l’istituzione carceraria, la pena inumana, le lamentele sulla “carne da galera”. E’ il pensare corrente sul carcere nella sua versione populista: un parlare gonfio di risentimento verso la sua blandizie, verso l’illusorietà della punizione, contro il venir meno della “certezza della pena” secondo l’accezione anni 2000.
Lo si vede sin dalla lettura dell’indice del libro. I titoli della maggior parte dei capitoli, infatti, illustrano nitidamente che esiste un pensiero corrente travisatore della realtà, ed è questa mistificazione che gli Autori vogliono sbugiardare: «Alla fine in carcere non ci va nessuno», «Dentro si vive meglio che fuori», «Bella vita: vitto e alloggio gratis e tutto il giorno davanti alla tv», «Ci vorrebbero i lavori forzati», «Condannato per omicidio, gode di permessi premio». Queste sono le tappe della catena di smontaggio apprestata dal populismo penale, prese di peso da un linguaggio diffuso; e contro ciascuna di esse si esercita la pazienza degli Autori, impegnati a dimostrarne l’infondatezza e la dannosità.
C’è da essere increduli, tanto questo è un ribaltamento del pensiero dal quale abbiamo preso le mosse, il riflettere su “chi va in carcere” e soprattutto sul “perché ci va”: eppure è tutto vero, oggi il pensiero dominante in materia è la ribellione contro il lassismo, il perdonismo, il buonismo; è il nuovo vocabolario che non reclama più l’umanizzazione della pena, ma la penalizzazione dell’umano, visto come sentina di nequizia diffusa, contagiosa e soprattutto impunita
Il nucleo del libro è, dunque, la presa di coscienza – e l’invito a noi affinché facciamo altrettanto – che oggi esiste un atteggiamento di fondo antagonista (non chiamiamolo cultura!) che trasuda Far West e pugni sul tavolo, un alfabeto di odio sedimentato, rinfrescato ogni giorno da un linguaggio politico virulento, che rende difficile un’effettiva politica criminale, la quale invece sarebbe l’unica capace di contrastare efficacemente la devianza che purtroppo attossica la nostra convivenza.
E’ questo, dunque, il più percepibile messaggio del lavoro: essere consapevoli che ormai occorre fare i conti con un atteggiamento anti-umanitario à la page, molto più agguerrito dell’umanitarismo riflessivo che aspira a rendere la prigione rispettosa della dignità umana. A questo “populismo penale” si deve opporre la puntigliosa pazienza della ricerca e della documentazione; la conoscenza degli istituti giuridici nella loro realtà concreta; insomma, la concretezza del buon artigiano e del buon tecnico che ha fiducia nell’ultimo colpo di lima per dare solidità al suo prodotto.
Sia chiaro: non è una semplice operazione di pulizia tecnica. Si capisce benissimo da che parte stanno gli Autori, riflettendo sul primo dei capitoli che enuncia il loro «Ritorno ai fondamentali», cioè ad una «pena secondo la Costituzione». Ma lo specifico del lavoro risiede nel fatto che gli Autori non si mettono sulla linea di partenza dalla quale sono già scattati in avanti quelli che “dentro si vive meglio che fuori”, ma si avvicinano alla poltrona sulla quale si è assiso il pensiero della “ggente” e, stando in piedi e scomodi, cioè scrutando e comparando, cercano di condurre il lettore a capire da solo quanto siano falsi e illusori certi luoghi comuni (quelli che Flaiano non a caso definiva come “i più frequentati”) i quali, spinti da tergo dalle frustrazioni dei loro propalatori, hanno a poco a poco costruito l’immagine becera di una giustizia penale imbelle, arrendevole e perdonista.
Pertanto il lavoro si raccomanda, per intanto, per la presenza di numerosi dati, alcuni già noti ma qui molto aggiornati, altri per lo più ignorati ma anch’essi eloquenti: mi riferisco ai numeri sulle presenze e sulla capienza complessiva degli istituti; alla percentuale dei detenuti in attesa di giudizio in rapporto al totale, più confortante di quella di non molti anni addietro; al numero degli stranieri e dei tossico-dipendenti; alla crescente ampiezza dei fruitori di misure alternative o extra-murali, che costituiscono una popolazione ormai prossima a quella dei detenuti intra-murali; al costo di ogni giorno di detenzione per le finanze dello Stato; alla quantità dei lavoranti interni ed alla loro tutela giuridica; al numero impressionante dei suicidi in carcere; alla percentuale di coloro che stanno scontando pene di breve o media durata; e altre informazioni importanti.
Utili ed eloquenti, fra le molte, le pagine sull’impegno dei detenuti che lavorano all’interno degli istituti, la risposta alle domande spontanee del lettore su “quanti sono, cosa fanno, quanto sono pagati”; la ricostruzione concreta della giornata-tipo del recluso, così diversa dall’ozio sbandierato dalla propaganda; l’analisi dedicate alla fisionomia concreta delle diverse misure alternative, al tipo di persona sulla quale sono ritagliate, alla specificità e alla non fungibilità delle stesse.
Si percepisce pertanto che il monolite “carcere”, pur restando il perno del sistema, si è sfrangiato in un’articolazione di forme e in una pluralità di azioni e di interventi, che è affatto diversa dalla brutale invocazione a “gettare via la chiave”, la quale dovrebbe risolvere la complessità attraverso la sua negazione.
3. Fin qui, tuttavia, siamo ancora nel territorio della buona informazione e della confutazione ragionata, tutte virtù che costituiscono una sorta di premessa di metodo. Ma quello che costituisce il vero cardine del lavoro è la presenza costante di alcune linee-guida che fungono da capitale assiologico, cioè i princìpi e i valori che riemergono qua e là, come gli indicatori stradali in prossimità dei bivii.
Il primo per importanza è l’invito a ricordare che la pena carceraria è costituzionalmente legittima nella misura in cui toglie al condannato la libertà di movimento, e solamente quella: non in quanto lo privi anche di altri beni, sia pure come accessorio “inevitabile” del primo effetto. Può sembrare una ovvietà, ma subito il memento ci spiazza quando, ad esempio, ci si interroga sul diritto all’affettività nel carcere, intorno al quale si dibatte da tempo e sulla cui soluzione agisce da freno non tanto un certo sarcasmo sboccato sui penitenziari-garconnière, quanto il cumulo di difficoltà di ordine logistico (e di spese) che si devono affrontare se si vuole davvero assicurare la conservazione dei legami affettivi e la loro intimità.
Piaccia o non piaccia, rispondono gli Autori, il diritto all’affettività è una componente insopprimibile della vita umana e sociale, e non può essere negato con spiegazioni di tipo organizzativo, proprio perché la sua negazione non è un corollario “inevitabile” della privazione della libertà personale: questo, oltre tutto, è stato ricordato dalla sentenza n. 301/2012 della Corte costituzionale, la quale non ne ha tratto le conclusioni necessarie solo perché la realizzazione di quel diritto esige interventi articolati e complessi, di competenza del legislatore.
Ancora: il principio in discorso (in forza del quale è legittimo limitare la libertà di movimento, non altro) vale anche per il lavoro in carcere, che può e deve essere considerato un elemento importante del trattamento, ma non può diventare lavoro forzato secondo la logica dell’espiazione attraverso la sofferenza.
Persino il diritto al silenzio riceve una più penetrante lettura alla luce di questo fondamento: se il detenuto condannato nega di avere commesso il fatto illecito che la sentenza gli ha attribuito, egli non può, evidentemente, prenderne le distanze e quindi compiere la necessaria revisione critica, premessa necessaria per affermare l’esistenza di un percorso rieducativo. Ma gli Autori non deflettono, suggerendo in questo caso di accontentarsi di “una minima riflessione sul mondo di valori toccato dal reato, su ciò che emerge dalla vita vissuta, sul contesto dal quale il carcerato proviene”.
Tanto è importante la premessa in discorso che ne viene illuminata anche una diversa e speciale accezione del diritto al silenzio (inteso non solo come nemo tenetur se detegere, ma anche come diritto a non collaborare con la giustizia accusando altri) poiché se si fa dipendere l’acquisizione di determinati benefici da atteggiamenti collaborativi, e solo da quelli, si costringe di fatto il detenuto ad un certo comportamento, e quindi si limita la sua libertà oltre quello spazio in cui la legittimazione è giustificata: anche questa tesi è alla base della nota sentenza n. 253/2019 in tema di ergastolo ostativo.
Il filo rosso anzidetto guida gli Autori anche dove non ne fanno espresso richiamo: discorrendo del trattamento penitenziario, essi individuano (secondo un’acquisizione comunemente accettata) la revisione critica del proprio comportamento passato quale punto di partenza di un efficace percorso rieducativo. Tutto vero, essi affermano, ma la modificazione dei comportamenti non può mai essere imposta, e se la stessa è rifiutata dal detenuto, il principio in esame vieta di sanzionare un atteggiamento che non sia di per sé illecito: perciò la deduzione corretta non sarà il rifiuto categorico di ogni beneficio, ma il tenace «indagare sulle cause, sul perché, e vedere se c’è ancora da lavorare» (p. 89): umiltà senza enfasi, questa, che fa ancor più risaltare la rozzezza delle terapie contrapposte.
Questa combinazione tra fede nel trattamento e rispetto della personalità è un tema non banale che il libro affronta senza particolare sottolineatura, ma che evidenzia la direttrice “costituzionalmente orientata” che illumina l’opera.
4. Fatta chiarezza sulla pretestuosità delle affermazioni correnti, il libro non può non affrontare la domanda che ognuno si pone se accetta di prendere conoscenza autentica di quella realtà: siamo davvero in presenza di una macchina che produce solo sofferenza a cerchi concentrici (cioè non solo a carico dei detenuti, ma anche dei loro familiari e, in qualche misura, dei loro custodi)?; e , soprattutto, è davvero necessaria questa sofferenza? è essa sostituibile da qualche altra realtà?
La risposta degli Autori è quella che oggi viene avanzata con sempre maggior frequenza, sia pure con varie modulazioni interne: la giustizia retributiva – si afferma – ha ampiamente dimostrato la sua inefficacia e la sua dannosità; il malum passionis propter malum actionis significa raddoppiare il dolore senza elidere, o almeno ridurre, quello cagionato dal reato; la carcerazione bruta produce un alto tasso di recidiva, non offre alcun risarcimento utile alla vittima, e non risponde nemmeno alla finalità di deterrente verso i consociati.
In sintesi: le finalità classiche assegnate alla pena hanno evidenziato il loro fallimento. Non resta che puntare su una giustizia penale non retributiva, ma riparativa: il bonum actionis propter malum actionis non fa più perno sul malum ma sull’actio; non richiede al condannato una sterile sofferenza ma un’utile attivazione, e in esito a questo tipo di pena la vittima (quando è individuabile) o la comunità (sempre) ricevono qualche cosa di positivo e di benefico: dunque una pena che non sia, come dice il titolo, una mera «Vendetta pubblica».
5. Tutto vero, e lo condivido pienamente. Ma a questo punto si ripropone con forza la domanda dalla quale ho preso le mosse, ricordando la fondazione di un certo pensiero che oggi si è capovolto in quello combattuto dal libro. Come mai per lungo tempo si è stati umanitari e soccorrevoli, mentre oggi si è formato quell’atteggiamento diffuso che gli Autori contrastano? come è potuto accadere che ieri si deplorasse l’inumanità della repressione penale e oggi se ne lamenta rozzamente la mancanza?
Il libro non affronta questi interrogativi, perché circoscrive la sua indagine alla dimensione sopra illustrata, ed è una scelta necessaria se si vuole circoscrivere l’oggetto da esaminare. Però queste domande meritano di essere poste, se si vuole trovare un consenso politico alle speranze finali di una nuova penalità, quale quella auspicata dagli Autori.
L’attuale popolazione carceraria non è oggi molto diversa da quella del “Carcere in Italia” del 1971, dal quale abbiamo preso le mosse: stranieri e tossico-dipendenti ne rappresentano una quota imponente, gli impossidenti con modesta estrazione e con poverissimo patrimonio culturale e sociale coprono gran parte del resto. Certo, una quota significativa è data anche dalla criminalità organizzata, che in gran parte ha ancora la stessa estrazione. Ma se rispetto ad allora non è dato vedere un grande mutamento a proposito del “chi va in carcere e perché ci va”, molto è cambiato sul “chi delinque, oggi”, e sul “perché tutti questi in carcere non ci vanno”.
Gli Autori si limitano ad accennare che i c.d. colletti bianchi sono «una tipologia di criminali più frequente che in passato» (p. 100); ed osservano che «con l’esplodere delle inchieste di Mani pulite e con tutto il filone dei reati finanziari in Italia, si è rilevato che a violare la legge non [sono] solo persone prive di mezzi culturali ed economici, ma al contrario iper-individui integrati socialmente, ricchi, per lo più laureati».
Ma questo accenno ad una diversa composizione della devianza attuale si ferma sulla soglia: oggi è molto più folto il numero di quel tipo di “criminali”, ma ad esso non corrisponde se non in minima parte la presenza di quella tipologia fra le mura del carcere. Perché?
D’accordo che non è questo il terreno sul quale il libro ha scelto di impegnarsi, ma forse è (anche) questo il germe di un pensiero che si deve contrastare per ridare forza ad un vero pensiero politico. La realtà ci dice che oggi la devianza non è più (solamente) un fenomeno di marginalità, legato ad una mancata integrazione sociale di cui i deprivati sono incolpevoli; ma è un fenomeno di massa largamente diffuso anche in quello che siamo soliti considerare “ceto medio allargato”; ed è ingigantito dalle profonde trasformazioni del mondo del lavoro, spostatosi in gran parte dalla produzione ai servizi, dai reati di strada ai reati da scrivania, dai colletti blu o bianchi all’assenza di identificativi di classe. Oggi è deliberatamente “deviante” un’intera area sfrangiata tipica della società liquida, un impasto di senza lavoro e di lavori nuovi, un labirinto di meccanismi e di giunture, di servizi diversi e di pieghe tra le quali muoversi, di furberie e di invenzioni, di malizie e di slalom fra le normative.
Questa nuova devianza sociale è individuata, come si è anticipato, dai tanti articoli “bis” oggi presenti nel nostro codice penale e dalle numerose leggi speciali (v. supra il par. 1) che descrivono quel che non si deve fare oggi, e quindi a rovescio quel che si fa nel concreto, e su dimensioni molto ampie. Reati fiscali, ambientali, urbanistici; frodi alimentari, valutarie, finanziarie; aggiotaggio, corruzione tra privati, faccendieri e facilitatori; turbative, voti di scambio, concorso esterno: un intero universo di illeciti penali compiuti dal tipico cittadino medio all’insegna del così fan tutti.
La minoranza deviante è diventata talmente numerosa da fare ormai da calamita verso una consistenza sempre maggiore, sino al probabile collasso ed al conseguente trionfo di una diversa legalità (non è temerario affermare che la “mancata crescita”, oggetto di quotidiano lamento, è almeno in buona parte dovuta alla zavorra dell’illegalità diffusa; e che la criminalità organizzata non solo è presente in una larga parte del territorio, ma coinvolge ormai interi strati sociali per nulla appartenenti alla marginalità sociale).
Certo, l’incultura del “gettare via la chiave” si manifesta soprattutto quando evade o non rientra o viene scarcerato un malavitoso: ma è il sintomo di un’insofferenza verso un “farla franca” che non riguarda i “poveracci” ma gli altri, quelli che, appunto, in carcere non ci vanno o sgusciano attraverso le maglie di un sistema troppo ineguale per suscitare adesione e benevolenza.
Perciò accanto al libro in discorso, del quale rimane prezioso il contributo, si raccomanda la lettura di un altro volumetto, già presentato in questa Rivista[1] che, con il suo titolo provocatorio, documenta una realtà ben presente da tempo nell’immaginario collettivo (quello, per intenderci, del “solo gli stracci volano”) ma oggi dilatata a devianza di massa.
La sistematica impotenza del processo a incidere su fenomeni ormai estesi, quali le speculazioni edilizie, i giochi finanziari, l’aggiotaggio, le frodi alimentari, la causazione di malattie professionali a largo raggio, i fenomeni di inquinamento, le concussioni “ambientali”, gli scambi elettorali e i mille fenomeni lumeggiati in quel libro, portano ad appoggiare la tensione di Bortolato e Vigna verso una nuova penalità, anche per un altro motivo, che è paradossalmente antitetico a quello da loro perseguito: se gli Autori hanno come antagonista un certo modo rozzo e sbrigativo di pensare, questo accade perché è realmente frustrato (anche in noi, diciamocelo!) il bisogno di contrastare anche l’impunita tracotanza dei “furbi”. In fondo, se alla fine «In carcere non ci va nessuno» (così recita il mantra del capitolo 2) non è perché le carceri siano vuote, e questo lo sanno anche i recitanti, ma perché in carcere non c’è nessuno di quelli che vorremmo vederci accanto agli altri.
Allora se – come si augurano gli Autori – la penalità del XXI secolo sarà di tipo non solo carcerario, ma anche di tipo riparativo, l’impegno riformatore dovrà investire non solo l’ordinamento penitenziario, ma anche, e in modo profondo, il nostro processo penale, per curarne almeno in parte l’impotenza declamatoria, cui ha finito per condannarlo l’iperbole garantista. Essa può avere una giustificazione finché nel processo penale è in campo il possibile sacrificio del bene più importante dopo la vita, e cioè la libertà personale; ma così non è più quando, essendo in gioco sanzioni di minore incidenza, lo strumento processuale finisce con il celebrare principalmente la sua impotenza.
Ricordiamo per un attimo la legge Vassalli del 1974: pochi articoli cambiarono profondamente la popolazione carceraria. Oggi è opportuno pensare a qualcosa di simmetrico toccando qualche snodo altrettanto strategico, ad esempio la prescrizione dei reati, principale artefice del “chi non ci va” (in carcere), e alimento non ultimo del populismo penale combattuto da Bortolato e Vigna.
Il metodo empirico che essi usano ci racconta, ad esempio, che esistono i reati di strada e, ormai, i reati di scrivania, che hanno ampiezza e odiosità non minore. Ebbene, traiamo una conseguenza importante dalla loro ordinaria realizzazione: i primi vengono di solito a conoscenza dell’autorità giudiziaria in tempi brevissimi, quasi immediati; i reati di scrivania, invece, se ne stanno acquattati e silenti per anni, e quando accidentalmente emergono, il tempo entro il quale il reato si prescrive è già in gran parte decorso, e inutilmente la giurisdizione si affanna, e vanamente la sensibilità comune solidarizza con lei. Allora ogni buon villico, inclusi anche coloro contro i quali polemizzano gli Autori, è in grado di offrire una valida ricetta capace di raddrizzare almeno quella stortura: si faccia decorrere per tutti la prescrizione non dal momento del fatto (salvo il decorso di un ragionevole “tempo dell’oblio”) ma dal momento in cui il reato approda sulla scrivania di chi lo deve perseguire; e non assisteremo più al mesto non liquet che conclude la stragrande parte dei processi riguardanti coloro che in carcere non ci vanno mai o quasi mai.
E cento altre cose cui si dovrà prima o poi pervenire. Non solo di prescrizione si può morire: anche di nullità assolute, di udienza preliminare, di impugnazioni inutili, di affidamento in prova quando esso si riduce a qualche pomeriggio a raccontar facezie agli ospiti di una RSA. Anzi, si sta già morendo. Il libro di Bortolato e Vigna si raccomanda anche per questa onda lunga di pensiero che scaturisce dalla sua lettura.
[1] Mi riferisco al lavoro della Collega E. Pazè, Anche i ricchi rubano, Ed. Gruppo Abele, 2020, recensito su Questione Giustizia.
* Già magistrato, consigliere CSM, senatore
Fonte: Questione Giustizia
*****
Marcello Bortolato, Edoardo Vigna
Vendetta pubblica
Il carcere in Italia
Laterza, Saggi tascabili, 2020
Pagg. 176, € 14,00
Trackback dal tuo sito.