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41 bis. Una pena ancora necessaria. Il problema sono le strutture

Luca Tescaroli * il . Giustizia, Mafie, SIcurezza, Società

41bisIl dibattito sul 41-bis prosegue dalle colonne de Il Fatto Quotidiano, dopo gli interventi di Woodcock e Caselli. Il fine del carcere duro non è spingere alla collaborazione ma tutelare la collettività impedendo le comunicazioni con l’esterno. Il controllo del territorio per le mafie è ancora il punto.

La risposta al quesito se il regime del 41 bis – sia pur ammorbidito nel suo rigore – sia ancora necessario, esige una verifica proiettata a comprendere se lo scopo dello strumento detentivo rimanga attuale, se la realtà e la pericolosità delle mafie sia mutata, tenendo presente che la mafia è criminalità e cultura, il cui dilagare deve essere contrastato anche attraverso il trattamento penitenziario.

L’intento che ha portato all’impiego dello strumento non è di spingere i carcerati alla collaborazione – tant’è vero che la più parte dei cd pentimenti è maturata nella prima fase della detenzione – ma quello di tutelare la collettività, privando i sodalizi dell’apporto dei loro capi, impedendo le comunicazioni dei boss con l’esterno e gli altri affiliati, in modo da annichilire il loro potere, la loro carica criminale e il carisma che deriva loro dalla perpetuazione del potere dal carcere.

Più sentenze passate in giudicato, soprattutto quelle inerenti alle stragi del continente, hanno accertato che i vertici di Cosa Nostra hanno eseguito gli eccidi con l’obiettivo di ottenere, fra l’altro, proprio la revoca del regime di cui all’art. 41 bis.

Nessuno dal 1994 ha raccolto il testimone dei corleonesi – nemmeno l’ultimo della loro genia ancora libero, Matteo Messina Denaro, che pure vi aveva fattivamente contribuito – e ha più riproposto l’esecuzione di stragi al fine di contendere il potere allo Stato, terrorizzare la popolazione, condizionare la politica giudiziaria del governo e influenzare nomine delle più alte istituzioni, ricattare o piegare i detentori del potere.

Cosa Nostra (meno pericolosa rispetto agli Anni Novanta) e le altre organizzazioni mafiose tradizionali e di nuovo conio si muovono verso un obiettivo di convivenza con il potere costituito per coltivare i loro affari, continuando a esercitare il potere sul territorio, con l’uso dell’omicidio prevalentemente nel quadro di contese interne. Le inchieste di questi anni hanno dimostrato che, nonostante l’incessante contrasto e i risultati ottenuti, sono tutte vitali e che alcune di loro hanno esteso o consolidato i loro insediamenti in più parti del Paese.

Le collaborazioni delle vittime dei reati e di coloro che sono a conoscenza di rapporti tra mafiosi e loro garanti nel proprio mondo professionale o economico, continuano a essere estremamente rare. Le realtà imprenditoriali importanti hanno preferito accordarsi con i boss, ritenendo il pizzo una sorta di costo di impresa.

L’esperienza giudiziaria che ha caratterizzato il periodo di applicazione del regime rivela che la regola per cui il mafioso non può essere rieducato non è venuta meno, perché lo stesso non può uscire dall’organizzazione se non con la morte o il tradimento (regola imperante in Cosa Nostra). Le dissociazioni sono risultate funzionali esclusivamente a ottenere benefici e non a recidere realmente i rapporti con l’organizzazione di appartenenza, e la buona condotta del mafioso rappresenta un fattore costante funzionale a fruire della liberazione anticipata: una riduzione di pena di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata.

Anche la sentenza della Corte Costituzionale n. 253 del 23 ottobre 2019, nel dichiarare illegittima la preclusione assoluta all’accesso ai permessi premio per i condannati per reati di mafia che non collaborano con la giustizia, ha espressamente riconosciuto una presunzione (relativa) di pericolosità dei boss.

Ne deriva che il regime del 41 bis in tale contesto continua a essere indispensabile e le avanguardie culturali sempre utili ad analizzare meglio il contesto in cui viviamo rischiano di indebolire il contrasto al crimine mafioso.

Il reale problema da affrontare è, invero, quello della carenza di strutture adeguate e di risorse specializzate per assicurare l’effettività dei controlli nei confronti dei sottoposti al regime del 41 bis, che non è una ulteriore pena afflittiva, e ambienti adeguati idonei ad assicurare dignitosi alloggi, rispondenti a esigenze di umanità, idonei ad assicurare l’isolamento effettivo, che al tempo della pandemia da Covid-19 ha il pregio di tutelare la salute dei detenuti.

I casi recenti di mafiosi al 41 bis ai quali viene permesso di recarsi con adeguata scorta a casa corrono il rischio di svuotare il senso del provvedimento. Occorre una seria politica per costruire nuove carceri e per progetti di assunzione e formazione di personale con adeguata professionalità per assicurare il controllo e impedire le comunicazioni anche indirette con il resto del clan.

* Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Firenze

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 13/11/2020

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