In difesa di Renato Cortese
Renato Cortese è probabilmente il miglior poliziotto su cui questo Paese possa far affidamento.
Non solo per i molti boss di cosa nostra e della ‘ndrangheta che ha catturato (da Bernardo Provenzano a Pietro Aglieri, da Giovanni Brusca a Gioacchino Piromalli, per capirci) ma per lo scrupolo e il rigore con cui ha fatto del proprio mestiere quanto di più distante ci sia dalle facili mitologie degli sceriffi antimafiosi.
Bene: il tribunale di Perugia lo ha condannato a cinque anni di reclusione (cinque!) per sequestro di persona, per aver disposto nel 2013 il rimpatrio di Alma Shalabayeva, moglie di un dissidente Kazako, all’epoca rifugiata in Italia.
La stessa sentenza ci dice che restano ignoti i mandanti (cioè coloro che fornirono all’allora capo della mobile di Roma informazioni errate sulla donna): insomma, non si procede contro i funzionari dell’ambasciata kazaka (immunità diplomatica) e si tengono al riparo da ogni sospetto l’allora ministro dell’interno Alfano e i collaboratori del suo gabinetto. Gli unici colpevoli sono loro, Cortese e altri sei poliziotti.
Una sentenza di imbarazzante e manifesta ingiustizia: chi volle quell’espulsione, fornendo informazioni false, la fa franca; chi si trovò a dover applicare la legge, in galera (pena sospesa, c’è l’appello…). Fa pensare alle stesse algide e ipocriti forzature giudiziarie che fecero condannare per tradimento a vent’anni di colonia penale il capitano Dreyfuss, ufficiale ebreo nella Francia sospettosa e antisemita di fine ottocento, riabilitato solo dopo cinque anni ai ceppi nell’Isola del Diavolo.
Qui non ci sono ceppi, ne colonie penali (e purtroppo non c’è nemmeno Émile Zola con il suo “J’accuse!”): ma l’umiliazione resta intatta. Per Cortese, per gli altri condannati e per questo Paese in cui, sul palcoscenico dell’antimafia da operetta, si esibiscono ogni giorno eserciti di narcisi petulanti e inoffensivi.
Ci sarà un processo d’appello, è vero. Ma, pur rispettosi di ogni sentenza, penso che occorra far sentire lo stupore e l’imbarazzo per la condanna di chi applicò le disposizioni ricevute e per la graziosa immunità riconosciuta a chi quelle disposizioni le impartì.
Chi volesse saperne di più, può risentirsi su Radio Radicale tutte le udienze del processo. Ne vale la pena.
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