Ancora oggi in troppi girano la prua di fronte ai disperati e allontanano e loro luci
Giornalisti, non smettete di raccontare la nostra storia, usate la vostra penna per dire la Verità sul nostro dolore!
Non è un grido accorato quello del rifugiato davanti ai pochi studenti delle scuole arrivati a Lampedusa per la commemorazione del 3 Ottobre. È un siriano sopravvissuto ad uno dei terribili naufragi di cui sono vittime ieri come oggi i migranti. È un appello dignitoso e perentorio di chi sa che smettere di raccontare queste storie, o raccontarle deformate ad uso e consumo di chi ci specula sopra, uccide due volte chi è annegato tra i flutti.
Era l’11 ottobre del 2013 , una settimana dopo il naufragio considerato lo spartitraffico tra l’indifferenza e la coscienza. Ma proprio quando sembrava che il mondo avesse capito il dramma dei profughi, a pochi giorni dai 368 morti davanti Lampedusa, un’ altra barca piena di uomini, donne e bambini è affondata tra Malta e l’isola delle Pelagie, in un rimpallo di responsabilità tra le autorità competenti che non volevano farsi carico dello sbarco di centinaia di siriani in fuga dalla guerra. In quel naufragio intere famiglie furono distrutte: c’è chi ha perso mogli, mariti, fratelli, amici. Tra i 268 morti del’11 ottobre, 60 erano bambini.
Le storie raccontate dai superstiti fanno scendere le lacrime agli studenti armati di mascherine chirurgiche e rigorosamente seduti a distanza di sicurezza. Non c’è pietismo nelle parole di queste persone, non c’è desiderio di essere compatiti quanto piuttosto di essere capiti e ascoltati.
Kebrat racconta di come prima di finire a mare insieme ai suoi compagni di viaggio all’alba del 3 ottobre di sette anni fa, aveva visto le luci di due grandi imbarcazioni. “Speravo venissero a prenderci ma quelle luci poi si sono allontanate. E allora abbiamo urlato per farci vedere, qualcuno ha bruciato le magliette e il barcone si è incendiato. Poi sono finita in acqua e non ricordo più nulla. Mi sono svegliata in ospedale”.
Kebrat viene recuperata ancora viva dentro ad un sacco, tra i morti accatastati sul molo Favaloro. È il medico Pietro Bartolo, che ne doveva constatare il decesso, ad accorgersi che il suo cuore batte ancora riconsegnandola così alla vita. Lei e il marito sono ora rifugiati Eritrei in Svezia dove sono nati i loro tre figli e insieme ad altri sopravvissuti sono tornati sull’isola per la prima volta dal 2013 nella settimana dedicata alla Giornata della Memoria delle vittime migranti istituita su ispirazione del Comitato tre Ottobre dal nostro parlamento nel 2016.
“Perché quelle navi se ne sono andate via, perché ci hanno lasciati morire?” si chiede da quel giorno Kebrat. A questa e ad altre domande il giornalista con la penna “pulita” deve rispondere.
Ancora oggi le vittime migranti sono troppe. È la rotta del Mediterraneo Centrale la più pericolosa al mondo. Ancora oggi in troppi girano la prua di fronte ai disperati e allontanano e loro luci. A noi il dovere di tenerle sempre accese.
* Inviata di Rainews
Fonte: Articolo 21
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