La straordinaria normalità di Antonino Saetta
Quel maledetto 25 settembre 1988, quando fu assassinato insieme al figlio Stefano sulla statale Agrigento-Caltanissetta, mentre faceva rientro in macchina a Palermo, il Presidente Antonino Saetta era pressocchè sconosciuto al di fuori dell’ambiente della Corte di Assise di Appello di Palermo, ove prestava servizio.
Eppure, ad un mese dal compimento dei sessantasei anni, il Presidente Saetta aveva speso gran parte della sua vita al servizio dello Stato, in Magistratura, nei cui ruoli era entrato nel 1948, all’età di ventisei anni.
Vale la pena perciò rievocarne il percorso professionale per rendersi conto dell’uomo e del magistrato e comprendere le ragioni del duplice barbaro assassinio.
Iniziò in Piemonte come pretore e poi come giudice istruttore del Tribunale di Acqui Terme, ove si trasferì da Canicattì con la sua giovane sposa, la farmacista Luigia Pantano, ed ove nacquero anche i suoi primi due figli, Stefano e Gabriella.
Nel 1955 venne destinato al Tribunale di Caltanissetta e vi rimase sino al 1960, allorché approdò alle sezioni civili del Tribunale di Palermo sino al 1969.
Nominato Procuratore della Repubblica di Sciacca, svolse, unica volta nella sua carriera, le funzioni requirenti sino al 1972, per poi fare ritorno a Palermo, per altri quattro anni, alla Corte di Appello.
Nel 1976 fù trasferito a Genova, su sua domanda per assistere il figlio Stefano presso un centro specialistico di cura, ove alla Corte di Appello si occupò di taluni processi penali di notevole complessità in materia di terrorismo, tra i quali quelli instaurati nei confronti della c.d. colonna genovese delle Brigate rosse, ed altri casi di risonanza nazionale come quello all’incendio doloso della nave Seagull.
Ritornato nel 1979 alla Corte di Appello di Palermo, vi rimase per sei anni durante i quali fù componente della sezione lavoro.
Nominato nel 1985 Presidente di Sezione della Corte di Appello di Caltanissetta, fu destinato ai giudizi di assise e si occupò, per la prima volta nella sua carriera, di un importante processo di mafia, quello relativo alla strage di via Pipitone Federico in cui venne assassinato anche il consigliere istruttore Rocco Chinnici e nel quale erano imputati, tra gli altri, importanti esponenti di vertice dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra, alcuni dei quali, come Michele Greco, ancora all’epoca incensurati.
Quel processo, all’esito del dibattimento condotto dal Presidente Saetta con imparzialità e con rigoroso rispetto delle regole processuali e nonostante un tentativo di condizionamento portato avanti da Peppe Di Caro, noto esponente mafiosi di Canicatti, venne definito con una sentenza con la quale furono aggravate le condanne e le pene pronunziate con la sentenza di I° grado.
Poco meno di un anno dopo la definizione di quel processo la famiglia Saetta subì l’incendio di un villino sito nella località balneare di Carini: inevitabile prezzo pagato al rigore ed alla fermezza.
Il processo Basile
Nel 1986 Antonino Saetta assunse il suo ultimo incarico quale presidente della Prima Sezione della Corte di Assise di Appello di Palermo ed in tale veste si occupò di alcuni importanti processi di mafia, tra i quali quello a carico di Giuseppe Madonia, Armando Bonanno e Vincenzo Puccio, esecutori materiali il 4 maggio 1980 dell’omicidio del capitano Emanuele Basile, brillante e sagace investigatore dell’Arma dei Carabinieri, in servizio presso la Compagnia di Monreale.
La storia di questo processo e del suo tortuoso svolgimento è nota ma vale la pena ripercorrerla in estrema sintesi per comprendere lo scenario in cui maturò l’assassinio del Presidente Saetta e di suo figlio Stefano.
Qualche ora dopo la commissione del fatto, nelle campagne circostanti Monreale, i tre imputati vennero fermati e tratti in arresto sulla base degli elementi probatori ed indiziari acquisiti nell’immediatezza.
Nonostante la linearità e la molteplicità degli elementi di prova acquisiti, già nell’immediatezza del fatto, a carico dei tre imputati, il processo aveva avuto uno svolgimento estremamente tortuoso in conseguenza del quale è divenuto una delle pagine più dolorose e drammatiche della storia giudiziaria dell’Italia repubblicana, al punto da essere considerato l’espressione emblematica della capacità dell’organizzazione mafiosa “Cosa Nostra“ di interferire illecitamente nell’esercizio della funzione giurisdizionale, non risparmiando neppure la Corte di Cassazione.
Le indagini ed i processi svolti nel corso degli anni ’90 hanno consentito di accertare le ragioni per cui il vertice dell’organizzazione mafiosa aveva speso il massimo del proprio potenziale di intimidazione e di morte per condizionare l’esito del processo ed ottenere l’assoluzione degli imputati: evitare che al proprio interno si innescasse una conflittualità devastante che avrebbe potuto determinare l’indebolimento e la scomparsa della leadership della fazione corleonese dell’organizzazione.
L’arresto dei tre imputati aveva determinato le forti lamentele di uno dei principali esponenti dei corleonesi, Francesco Madonia, capo della potente famiglia di Resuttana, il quale aveva minacciato di ritirare il proprio sostegno al vertice dell’organizzazione se questo non si fosse adoperato in tutti i modi per rimediare ad un errore nell’esecuzione del delitto commesso da Giovanni Brusca al momento della fornitura delle armi e della predisposizione del piano di fuga ai tre esecutori materiali.
Francesco Madonia era perfettamente consapevole che occorreva uno sforzo straordinario dell’organizzazione mafiosa per salvare il figlio ed il fidato Armando Bonanno da quello che era universalmente considerato, all’interno di Cosa Nostra, l’epilogo inevitabile del processo: la condanna all’ergastolo!
Cosi come si sarebbe più tardi verificato anche per il primo maxi-processo, il condizionamento dei gradi di merito del processo e dei primi due giudizi di legittimità era conseguente ad una ben precisa strategia di autoconservazione e di rafforzamento strategico della dirigenza dell’organizzazione mafiosa.
Questa causale risulta ampiamente accertata e rigorosamente ricostruita con la sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta del 5 agosto 1998, confermata nei successivi gradi di giudizio e perciò divenuta definitiva, con la quale si è dato conto del tormentato iter processuale del processo Basile, dopo la chiusura dell’istruttoria formale svolta dal giudice Paolo Borsellino con ordinanza del 6 aprile 1981.
La Corte si è fatta carico di delineare il contesto in cui era maturata la prima decisione di merito con la quale il processo era stato rinviato al Giudice Istruttore per effettuare una perizia, decisione definita come “un commodus discessus per sottrarsi al disagio derivante dalle pressioni ricevute e dagli orientamenti espressi dai giudici popolari”.
E neanche la successiva decisione del 31 marzo 1983, con la quale la Corte di Assise, diversamente composta e presieduta, assolveva gli imputati per insufficienza di prove si sottraeva ai forti sospetti di condizionamento per la natura – cito dalla sentenza di annullamento emessa nel successivo grado di appello – “palesemente contraddittoria in numerosi punti …fondata su argomenti paradossali e logicamente assurdi”; tra i quali spicca quello adottato in sede di conclusioni per giustificare l’assoluzione e secondo il quale “bisogna concludere che meno problematico, se non addirittura certo sarebbe stato il convincimento della colpevolezza della Corte in presenza di un più ristretto numero di indizi….”.
In sostanza gli imputati erano stati assolti perché – paradossalmente – erano stati acquisiti troppi elementi probatori ed indiziari a loro carico, sicchè sarebbe stato sufficiente acquisirne di meno per giungere ad una affermazione di condanna….
In seguito al giudizio di appello veniva emessa la sentenza del 24 ottobre 1984 con la quale la Corte condannava Puccio, Bonanno e Madonia alla pena dell’ergastolo, decisione annullata dalla Prima Sezione penale della Corte di Cassazione il 23 febbraio 1987, per una violazione procedurale consistente nell’omesso avviso a taluni difensori della data di estrazione dei giudici popolari chiamati a comporre il collegio di appello.
Per giungere a questa incomprensibile e sconcertante decisione la Prima Sezione Penale, presieduta da Corrado Carnevale, aveva dovuto ribaltare un trentennale orientamento giurisprudenziale che riconosceva natura amministrativa a questo genere di violazioni procedurali omissive, non incidente come tale sulla regolarità e legittimità del processo. Venne invece riconosciuta natura giurisdizionale a questa mera irregolarità sostenendosi addirittura che ne era derivata la lesione dei diritti di difesa degli imputati!
Tanto scrupolosissimo garantismo veniva dunque applicato ai mafiosi assassini di un Ufficiale dei Carabinieri, raggiunti da “prove schiaccianti” perfino secondo il giudizio degli altri uomini d’onore di Cosa Nostra.
Basti pensare inoltre che appena pochi mesi dopo, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione ribadivano invece il principio esattamente opposto, escludendo che quella irregolarità potesse costituire causa di nullità, sicché quella decisione della Prima Sezione penale – nel processo Basile – rimarrà assolutamente isolata.
È a questo punto che il Presidente Saetta incrocia sulla sua strada il processo Basile, presiedendolo con la sua indiscussa imparzialità ed il suo ineccepibile rigore e, nonostante gli accertati tentativi di intimidazione e condizionamento subiti da alcuni giudici popolari del collegio, la Corte da lui presieduta lo definiva con la sentenza del 23 giugno 1988, che giudicava nuovamente colpevoli gli imputati, e li condannava alla pena dell’ergastolo.
Pochi giorni dopo il deposito della sentenza, il Presidente Saetta veniva ucciso insieme al figlio Stefano.
Un giudice dalla schiena dritta
La Corte di Assise di Caltanissetta che ha giudicato e condannato all’ergastolo Salvatore Riina e Francesco Madonna, quali mandanti, e Pietro Ribisi, quale esecutore materiale, ha evidenziato che l’omicidio del Presidente Saetta “maturò in un contesto ed in un momento storico in cui per le funzioni giurisdizionali svolte in determinati processi, per l’impegno profuso, per la fermezza dimostrata per il rigore morale che ebbe ad ispirarne l’attività professionale, divenne funzionale ad un interesse strategico e complessivo di quella potente e pericolosissima organizzazione criminosa che è Cosa nostra”.
Questo interesse strategico era la risultante della convergenza di diverse causali. In primo luogo, il forte desiderio di ritorsione conseguente alla resistenza manifestata dal Presidente Saetta verso i pesanti tentativi di condizionamento volti ad influenzarne l’operato in relazione ai delicati processi dei quali si era occupato e che, con specifico riferimento al processo Basile, non si erano arrestati neppure dopo la sua morte.
Basti pensare alle molteplici ombre che – ancora una volta – si sono addensate sul secondo giudizio di legittimità emesso sempre dalla Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione nel 1989 e sui pesanti tentativi di condizionamento operati sino al giorno della pronuncia della sentenza nei confronti del Presidente Salvatore Scaduti e del giudice a latere Rocco Camerata Scorazzo, componenti togati della Corte di Assise di Appello che il 14 febbraio 1992 affermò la responsabilità penale di Salvatore Riina, Francesco Madonia , Giuseppe Madonia e Michele Greco.
Ma è stato accertato anche un movente preventivo finalizzato ad evitare che il Presidente Saetta, dimostratosi cosi fermo ed inflessibile, fosse destinato, come ormai era sempre più probabile, alla presidenza del primo maxi-processo di appello, processo che i vertici dell’organizzazione temevano più di ogni altro, consapevoli che da un eventuale conferma in appello della sentenza di condanna – che avrebbe comportato il riconoscimento dell’esistenza della commissione provinciale, l’organismo deputato a deliberare le scelte ed i crimini più rilevanti commessi a Palermo ed in altre località del territorio nazionale, e la conseguente responsabilità di tutti i suoi membri per questi ultimi fatti – ne sarebbero derivate conseguenze disastrose per tutti gli uomini d’onore di vertice della stessa organizzazione.
Come poi in effetti avverrà.
Infine vi era anche un movente di intimidazione generale verso tutti i componenti degli organi collegiali giudicati che, in quel periodo, si stavano occupando di importanti processi di mafia.
Movente che, nell’immediatezza dell’omicidio, venne subito colto dall’allora Giudice Istruttore Giovanni Falcone, il quale evidenziò il salto di qualità compiuto dall’organizzazione mafiosa con l’uccisione, per la prima volta, di un magistrato non appartenente ad un ufficio giudiziario deputato al contrasto dell’organizzazione mafiosa ma appartenente alla magistratura giudicante.
A distanza di alcuni mesi dall’omicidio, il 26 gennaio del 1989, nel corso di un incontro con gli studenti di un istituto professionale di Bassano del Grappa, Paolo Borsellino ricostruendo la sequenza di omicidi eccellenti che avevano insanguinato l’azione statale di contrasto all’organizzazione mafiosa Cosa Nostra, si era soffermato ad analizzare la straordinaria gravità del duplice omicidio Saetta. Secondo Borsellino, questo giudizio conseguiva non solo all’irreparabile perdita di due vite umane ma anche all’allarme generalizzato che il duplice omicidio aveva finito per provocare in tutti gli appartenenti all’ordine giudiziario, anche tra quelli non direttamente esposti e che non si occupavano di indagini e di processi di mafia, i quali però, cito testualmente, “se un giorno fossero stati chiamati a far parte di un collegio che doveva giudicare imputati per fatti di mafia avrebbe dovuto mettere in conto di potere essere colpiti nella propria incolumità ed in quella dei propri familiari”
Nei trentadue anni che sono trascorsi dalla sua morte, la figura ed il sacrificio del Presidente Saetta sono stati spesso dimenticati, come ha più volte e con garbo fatto notare il figlio, l’avvocato Roberto Saetta, adducendo il concorso di varie circostanze obiettive che vanno dalla poca notorietà avuta da vivo, alla naturale riservatezza del carattere e forse anche, probabilmente, al luogo in cui l’omicidio venne consumato, lontano da Palermo, ove aveva la residenza e ove svolgeva le sue funzioni,
Tuttavia la figura del Presidente Saetta ha conservato una straordinaria attualità.
In un momento storico come quello attuale, caratterizzato da una grave crisi di credibilità in cui versa la giurisdizione e dalla incalzante tendenza ad orientare il ruolo e la funzione del giudice verso l’accettazione di atteggiamenti culturali ed esistenziali conformi ai desiderata dei potenti di turno, la storia personale e professionale di Antonino Saetta, giudice dalla schiena diritta, costituisce un immenso patrimonio di valori a cui tutta la Magistratura, e non solo i giovani magistrati che non l’hanno conosciuto, deve ispirarsi per non rinunciare in alcun modo alla difesa dei principi di indipendenza e di imparzialità della funzione giurisdizionale e del corretto esercizio del controllo di legalità.
In fondo il Presidente Saetta non aveva fatto nulla di straordinario per diventare la figura straordinaria che oggi ricordiamo, poiché si era limitato a fare soltanto il suo dovere e per questo è stato ucciso dalla mafia ma anche perché, altri al suo posto – per paura, per vigliaccheria o, peggio, per collusione – il loro dovere non sono stati in grado di compiere o non hanno voluto compierlo sino in fondo.
Quel maledetto 25 settembre 1988 la figura e l’opera del Presidente Saetta sono state strappate alla riservatezza ed all’anonimato, cosi tanto tenacemente coltivati, per essere definitivamente consegnate alla Storia di questo Paese.
* Procuratore della Repubblica Aggiunto, Reggio Calabria
La Costituzione: un progetto di società che attende di essere realizzato
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