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Smart working e giornalismo

Annamaria Abbate * il . Informazione, Società

smart-workingCome e perché l’inarrestabile avanzata dell’innovazione tecno-digitale possa obbligare il mondo del lavoro a fare i conti con fragilità strutturali, nodi organizzativi mai sciolti, vuoti giuridici e manchevolezze sindacali, è ben spiegato in una consistente letteratura scientifica (vedi tra l’altro Presente e futuro del lavoro umano, viaBorgogna3 2018).

Il giornalismo riflette su se stesso e ragiona, ormai da decenni, sulla sua crisi specifica, quella di un settore che espelle sempre più addetti, crea sempre maggiori sperequazioni tra garantiti e freelance, fatica a trovare strategie (con)vincenti di fronte ai fenomeni dilaganti della disintermediazione e del fai da té, e, last but not least, continua a perdere lettori. Senza un quadro chiaro che dia conto anche della differenza intrinseca delle modalità di lavoro e della diversa formazione e provenienza dei professionisti dell’informazione rispetto agli specialisti della comunicazione, non è facile trovare un minimo comune denominatore con il quale cominciare a confrontarsi.

Se, poi, su tutto questo piomba una crisi pandemica di proporzioni bibliche che trova nell’antico e collaudato lavoro a domicilio, come lo definisce Oreste Pivetta, il primo e immediato antidoto alla paralisi, allora è la torre di Babele. Sì, perché il tanto decantato smart working (termine che gli inglesi non usano), o lavoro agile (detto così suona anche peggio, preferisco lavoro a distanza) nel giornalismo è quanto di più variegato e multiforme si possa immaginare e suscita le più disparate e contrastanti reazioni tra gli operatori che lo scelgono/subiscono. Si va dalla posizione apocalittica di chi sente semplicemente sgretolarsi il vecchio mondo senza intravedere alcuna alternativa accettabile all’orizzonte, a quella entusiastica di chi saluta i segni del nuovo come il paradiso in terra della promessa digitale (Tra le due posizioni personalmente, ma credo di essere in buona compagnia, mi colloco nel mezzo e spiegherò più avanti il perché).

La legge 81/2017 al Capo II fornisce una cornice normativa accettabile nell’ambito del rapporto di lavoro dipendente grazie alla quale i lavoratori “agili” garantiti restano tutelati sotto ogni aspetto: dalla equiparazione totale con i colleghi non agili all’imprescindibilità di un accordo sulla modalità di lavoro e sugli strumenti tecnologici che vengono loro affidati, fino al riconoscimento del sacrosanto diritto alla disconnessione.

Per tutti gli altri, i non garantiti che lavorano con strumenti propri, pc, ipad, telefonino e banda casalinga è mare aperto e procelloso (Da un sondaggio condotto tra i freelance da Acta e Slow News risulta che Il 75% pur svolgendo di fatto un lavoro dipendente non è mai stato assunto: il 40% ha partita Iva e il 35% viene pagato con collaborazioni occasionali. La maggior parte svolge fino a cinque mansioni eppure solo il 52% riesce a mantenersi con questo lavoro ed è costretto ad integrare il reddito con altre attività: il 42% riceve meno di 5.000 euro lordi annui, il 68,1% meno di 10.000).

Dunque, se da un lato appaiono legittime le preoccupazioni di chi con lo smart working teme di perdere il contatto con la realtà esterna, fondamentale non solo per chi pratica il mestiere di cronista, con conseguente dequalificazione professionale, e/o paventa l’esaurimento della funzione del sindacato e la perdita di forza contrattuale con il venir meno della prossimità fisica della redazione, altrettanto fondate risultano le lagnanze dei freelance che di smart working vivono da sempre e che, abbandonati a se stessi, hanno risicatissimi margini di negoziazione con il committente.

Tornando alla mia posizione mediana tra apocalittici e entusiasti, dico subito che è tutta frutto di esperienza empirica personale e non di indagine sociologica, per cui prendetela per quello che è. Premetto che faccio un lavoro multiforme e variegato che oltre a quella di editor copre una quantità di mansioni che in istituzioni con maggiore disponibilità economica di norma sono svolte da più operatori. Di fatto sono anni che lo smart working è intrecciato, direi connaturato, alla mia attività in sede. Sede che resta comunque il cuore pulsante di tutto perché è il luogo dove si “pensa” e dove “succede” tutto. Una scelta felice che si è resa necessaria quando, con una visione di respiro e un progetto di lungo periodo, la Casa della Cultura ha deciso tempestivamente di afferrare le opportunità del digitale e dei nuovi media per moltiplicare le attività, espandere la progettazione, raggiungere nuovi pubblici, insomma darsi un futuro.

Cambiamenti e trasformazioni sono segno di vitalità, ma quasi mai avvengono senza travaglio, soprattutto se affrontati sotto la spinta di necessità impellenti di sopravvivenza. Altri prestigiosi centri culturali, che pur hanno fatto la storia culturale di questo Paese, colti di sorpresa e di fatto impreparati dall’avvento delle tecnologie informatiche, pur mantenendo costante la qualità della loro produzione, stanno quasi del tutto scomparendo dall’infosfera. La loro offerta culturale risulta invisibile ai più, restringendosi inevitabilmente in piccole cerchie di pubblico, anche anagraficamente connotate, raggiunte prevalentemente mediante i canali tradizionali. Annegare nel mare dell’indistinzione arrancando per farsi notare tra la pletora delle proposte sembra il destino degli enti che non hanno visto per tempo la portata del cambiamento che stava arrivando. Noi abbiamo imboccato per tempo l’altra strada. Non è stato semplice, e nemmeno facile, ci stiamo tuttora lavorando. E i risultati, devo dire assai lusinghieri, non si sono fatti attendere.

La gratificazione del risultato è sicuramente il primo premio in assoluto, il solo che giustifica lo smart working che nel mio caso non è stata una scelta imposta, ma condivisa perché condiviso e partecipato è stato il progetto complessivo grazie alle relazioni fortunatamente sane tra tutte le persone che a vario titolo lavorano per la Casa della Cultura. Relazioni che il lavoro agile non ha mai diminuito e che, finito il lockdown, sono riprese anche in presenza.

Il secondo premio è senz’altro poter sfuggire alla difficile e frenetica vita da pendolare: basta sveglie antelucane, basta ore sprecate in viaggio, basta pasti veloci e non sempre appetitosi (anche se poi mi sento insensatamente in colpa quando penso alla grande città, ai suoi spazi diventati improvvisamente vuoti, agli esercizi che arrancano.)

Naturalmente non mi sfuggono tutte le criticità più o meno pesanti del lavoro agile. Per esempio, se non si ha la prontezza di chiudere pc e telefonino in orari rigorosamente definiti, se si commette l’errore di rimanere continuamente connessi, si rischia di finire incagliati in una dimensione spaziotemporale parossistica in cui vita e lavoro si fondono e si confondono senza soluzione di continuità compromettendo salute fisica e mentale. Non sto esagerando, credetemi. Chi vi trova disponibili, efficienti, attivi e “sul pezzo” ad ogni ora del giorno finirà per considerare il vostro lavoro molto facile e inevitabilmente darà meno valore ai vostri sforzi. Sbagliando. Farglielo a capire è un dovere e va a vantaggio di tutti.

Mentre scrivo, sento che il Ministro della Pubblica Amministrazione ha annunciato il suo progetto di modernizzazione che mette al centro lo smart working e pare che dal 2021 diventerà una realtà. Molte aziende e enti più o meno silenziosamente si sono già attrezzati. Prendiamo dunque atto che lo smart working non scomparirà con il covid: prima ci disporremo a trarne il buono, correggendone il più possibile i difetti, meglio sarà.

* Condirettrice e Direttrice responsabile di viaBorgogna3 il magazine della Casa della Cultura

Fonte: www.fondazionemurialdi.it

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