Il ruolo della magistratura a 30 anni dall’omicidio di Rosario Livatino
Due importanti convegni di studi, alla presenza delle più importanti cariche istituzionali dello Stato – quasi a farsi perdonare l’ancora non spento eco dell’epiteto di “giudice ragazzino” lanciato dall’ex Presidente delle Repubblica Cossiga all’indirizzo di quei giovani magistrati, come Rosario Livatino, su cui non riponeva alcuna fiducia neppure per affidare loro la gestione di una “casa terrena” – sono stati indetti in occasione del trentennale della barbara uccisione del Giudice Rosario Livatino, avvenuta per mano mafiosa il 21.9.90 in c.da Gasena di Agrigento.
Non è un caso che tema di entrambi i convegni sia una riflessione sul ruolo, la professionalità e la deontologia del magistrato a 30 anni dall’uccisione di Rosario Livatino.
E’ a tutti noto, infatti, che la magistratura italiana sta vivendo una crisi profonda, una crisi che è di sostanza, ma anche di forma se è vero che secondo un recente sondaggio IPSOS solo un italiano su tre ha fiducia nella magistratura come istituzione.
I recenti scandali, dal caso Saguto fino al caso Palamara, hanno inciso un solco profondo nelle coscienze degli italiani, li hanno lasciati sbigottiti, perché da una istituzione posta dalla Costituzione a garanzia del gioco democratico ci si attende alta professionalità e altissimo senso morale.
Eppure non può dirsi che Il CSM non abbia preso provvedimenti severi, al pari di altre istituzioni attraversate da crisi di credibilità analoghe, atteso che il Giudice Saguto è stata destituita prima della affermazione definitiva in sede penale della sua colpevolezza e che ugualmente il Sostituto Palamara è stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio, per non dire dei consiglieri del CSM, a vario titolo implicati nel caso Palamara, costretti alle dimissioni e sottoposti a procedimento disciplinare.
Evidentemente tali provvedimenti non sono bastati per rigenerare il rapporto fra magistratura ed opinione pubblica.
Ed invero, il rapporto fra magistratura, politica e opinione pubblica è stato in quest’ultimo trentennio di vita democratica sempre piuttosto critico e caratterizzato da un andamento ciclico.
Va ricordato, infatti, che fino agli ’80, per quel che riguarda la lotta alla mafia, la magistratura non godeva di fiducia nell’opinione pubblica, i capi degli Uffici Giudiziari erano spesso espressione del partito di maggioranza relativa, a sua volta in alcune sue articolazioni, strettamente legato a Cosa Nostra. Non per nulla negli anni ‘60 e ‘70 buona parte dei processi contro la mafia si concludevano con imbarazzanti assoluzioni “per insufficienze di prove”.
La strage Chinnici del 29.7.83 è stato forse il momento di svolta della lotta alla mafia. Si ricordi infatti che Chinnici fu sostituito alla guida dell’allora Ufficio Istruzione di Palermo da un grande uomo, dal tratto mite ma dal coraggio infinto, Antonio Caponnetto. Fu proprio Caponnetto che diede vita al primo pool antimafia, valorizzò la grande professionalità di Giovanni Falcone e in poco meno di tre anni permise di portate a dibattimento il primo maxi processo a Cosa Nostra.
La storia è poi nota: la sentenza del maxi processo e l’impostazione accusatoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono confermate in Corte di Cassazione; per ritorsione per il mancato “aggiustamento” del processo furono uccisi Salvo Lima e Ignazio Salvo e alla fine Giovanni Falcone e Paolo Borsellino persero la vita negli attentati terroristici del 1992, rei di avere combattuto frontalmente e a testa alta Cosa Nostra.
Dopo i tragici eventi del ’92 in Sicilia si respirò una aria nuova, la società civile era tutta con la magistratura, si viveva una nuova stagione di speranze e di entusiasmo.
E tuttavia occorre ricordare che la stagione antimafia della magistratura non è mai stata una strada facile, anzi tutt’altro: vanno qui ricordati i magistrati che lavorarono e morirono nell’isolamento della Provincia siciliana. Due esempi per tutti, il nostro Rosario Livatino ad Agrigento e i Giudici Ciaccio Montalto e Alberto Giacomelli a Trapani, a cui va aggiunto il tragico attentato al sostituto Carlo Palermo.
Analoghi crediti di consenso, peraltro, aveva vantato la magistratura nella lotta al terrorismo (1976/1983) e alla corruzione con la stagione di “mani pulite” (1991/1994).
Nella lotta al terrorismo la magistratura aveva avuto il merito di inventarsi un metodo di indagine (i primi pool e i primi coordinamenti di indagine nascono proprio durante la lotta al terrorismo) e di avere garantito una giustizia senza Tribunali e leggi speciali così permettendo alla Prima Repubblica di continuare a vivere nella libertà e nella democrazia .
La stagione di “mani pulite” è stata una stagione controversa che, se da un lato ha fatto emergere la corruzione sistemica in cui versava (e ancora versa) il Paese accelerandone il cambiamento politico; dall’altro, ha registrato eccessi non sempre condivisi dalla società. Si ricordi infatti come si è passati nel giro di soli tre anni dal grido di “Milano ladrona, Di Pietro non perdona” fino alla sequela di falsi dossier e processi imbastiti contro lo stesso Di Pietro avanti l’Autorità Giudiziaria di Brescia e dai quali, va ricordato, venne sempre assolto.
Voglio quindi ricordare come lo sforzo della magistratura non si sia esaurito nella stagione successiva alle stragi ma abbia registrato la capacità della stessa magistratura – ma sarebbe più corretto dire di alcuni illuminati e coraggiosi magistrati, spesso isolati – di leggere una realtà criminale complessa, fatta di depistaggi, di apparati deviati, di trattative innominabili fra Stato e mafia, di un antistato occulto che pretende di reggere le fila delle istituzioni democraticamente elette.
Negli ultimi anni, tuttavia, sono scoppiati, com’è noto, due fatti che hanno stravolto il rapporto fra la magistratura, la politica e l’opinione pubblica: il caso Saguto e il caso Palamara.
In verità ci sarebbe da annotare anche la recentissima difficile stagione vissuta da una parte della magistratura nel complesso controllo di legalità sulle azioni di contrasto del governo all’immigrazione clandestina, alla luce dei trattati internazionali sottoscritti dall’Italia e delle indicazioni della Corte EDU, ma essendo materia ancora sub iudice e fortemente divisiva appare opportuno rinviare ad altri tempi e ad altra sede un esame critico della stessa.
Il caso Saguto, ma per certi versi anche il caso Montante, ha realizzato purtroppo la profezia di Leonardo Sciascia nel famoso articolo comparso sul Corriere della Sera il 10.1.87 sui “professionisti dell’antimafia”, mettendo a nudo una magistratura assetata di potere e di soldi che piega ai suoi personali interessi la sua altissima funzione istituzionale.
Peggio ancora il caso Palamara, vittima di un sofisticato congegno elettronico che ne ha spiato per mesi i più rilevanti momenti della sua vita pubblica (ma purtroppo anche privata), ha messo in luce come nomine, promozioni, iniziative giudiziarie e disciplinari rispondessero a logiche di parte anziché a logiche di terzietà ed imparzialità come richiesto dall’Ordinamento Giudiziario e dalla deontologia professionale.
Da questi scandali è uscita una immagine della magistratura votata al rafforzamento delle proprie posizioni personali ed istituzionali, disinteressata alla corretta amministrazione della giustizia, sorda alle vicende di umane di vittime ed imputati.
Quali le cause e quali i rimedi?
Le cause – a parte gli appetiti di denaro e di potere che albergano in ogni animo umano in modo più o meno carsico – vanno ricercate nell’essersi la magistratura allontanata dal modello costituzionale secondo cui “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”, per andare verso un modello di magistratura votata al carrierismo più sfrenato e alla ricerca del potere. In ciò facilitata da norme che hanno accresciuto il potere gerarchico dei Procuratori (il riferimento è alla riforma dell’Ordinamento Giudiziario del 2006) e dal turn over dei capi degli uffici all’esito dei pensionamenti anticipati e della regola della temporaneità degli incarichi direttivi.
Si ricordi, infatti, che il CSM ove sedeva il Dott. Palamara, nel quadriennio 2014/2018, ha proceduto alla nomina di 428 capi di uffici giudiziari e 617 fra presidenti di sezione e procuratori aggiunti, per un totale mai raggiunto in precedenza di 1045 incarichi. Numeri così elevati, in posti di assoluta rilevanza, non potevano non accendere insani appetiti e creare cordate di potere dove magistrati e politici di turno hanno annodato raffinate e complesse reti relazionali.
Il CSM, ma anche l’ANM, sono diventati da luogo di confronto, di garanzia del corretto esercizio dell’alta funzione del giudicare, una sorta di parasindacato corporativo che si occupa delle vicende dei magistrati esclusivamente sulla base di logiche di appartenenza.
Ricordava, in un suo recente articolo il Presidente Emerito della Corte Costituzionale, Gaetano Silvestri, che durante il suo mandato al CSM “c’erano due file di magistrati che si formavano a Palazzo dei Marescialli: quella di coloro che venivano a chiedere ascolto e sostegno nella loro quotidiana azione per la legalità, specie in terra di mafia, talvolta non ricevendo ne’ l’uno ne’ l’altro, e quella di coloro che venivano a raccomandarsi per trasferimenti, uffici direttivi e quant’altro; la prima fila era piuttosto esigua e andava accorciandosi, la seconda si allungava progressivamente”.
Il rimedio sta forse nel ritornare ad un magistratura dove non ci sia più spazio per il carrierismo fine a se stesso, dove i magistrati si distinguano solo per diversità di funzioni, e dove non esista una gerarchia ma solo funzioni diverse e concorrenti verso l’unico fine che è quello poi di rendere un servizio ai cittadini e al Paese tutto.
Occorre quindi riaffermare l’indipendenza esterna ed interna della magistratura, intesa la prima come indipendenza dal potere politico ed economico, e la seconda come indipendenza ed autonomia di giudizio del singolo magistrato nei confronti dei suoi capi.
Occorre evitare che poteri esterni, mossi da volontà punitiva, dettino regole per il governo della magistratura, peraltro spesso improvvisate e contraddittore, come la ventilata elezione per sorteggio dei componenti togati del CSM che buffamente ricorda il metodo del Giudice Brigliadoca di Rabelais. Così come occorre evitare che l’attuale calo di credibilità e di moralità della magistratura dia spazio a chi vuole “tagliare le unghie” ad un potere dello Stato che è gradito alla politica quando combatte i propri avversari e scomodo quando doverosamente esercita il controllo di legalità su tutte le attività di tutte le componenti la società nessuna esclusa.
Si possono, in fondo, dettare ai magistrati regole di comportamento sempre più stringenti e pesantemente sanzionate, imporre cause di incompatibilità e di ineleggibilità, introdurre responsabilità e decadenze, ma la vera riforma resta una riforma di tipo morale che deve provenire proprio dall’interno della magistratura la quale deve recuperare l’orgoglio del proprio ruolo fondato su autorevolezza e professionalità.
Ed in questa ricercata dimensione etica della giustizia si staglia la luce dell’insegnamento del giovane giudice Rosario Livatino, il quale nei suoi scritti, tutti vergati sotto la sigla STD, “sub tutela Dei”, si preoccupava, già più di 30 anni addietro, di indicare ai colleghi la strada da percorrere per onorare la figura del magistrato: “… un giudice deve offrire di se stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile; l’immagine di un uomo capace di condannare ma anche di capire … se egli rimarrà sempre libero ed indipendente si mostrerà degno della sua funzione, se si manterrà integro ed imparziale non tradirà mai il suo mandato” .
Un magistrato profondamente religioso ma anche profondamente rispettoso della laicità dello Stato secondo cui: “… il compito del magistrato è quello di decidere … una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare … in questo scegliere per decidere il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale senso spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia …”.
Rosario Livatino, era lontanissimo da sms ammiccanti, accordi sottobanco, conventicole, cene eleganti, palazzi e corridoi di ministeri, lui era ed operava solo con la sua coscienza e con la sua scienza giuridica, con a destra i codici e a sinistra il Vangelo, ed oggi, a trent’anni dalla sua uccisone, ci appare come un fulgido ineguagliato simbolo di verità e giustizia.
Che i nuovi magistrati ne siano degni.
* Procuratore della Repubblica di Agrigento. L’articolo è tratto dall’intervento tenuto al convegno indetto dalla Sottosezione dell’ANM di Agrigento il 19.9.2020 dal titolo Il ruolo della magistratura a 30 anni dall’omicidio di Rosario Livatino
Fonte: Giustizia Insieme
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