Rosario Livatino: identità, martirio e magistero
Una biografia che raccoglie la sostanza spirituale di un uomo, che come magistrato ha combattuto ed è caduto per mano della mafia, scandagliando il percorso di formazione, l’anelito alla Giustizia, l’incontro con Dio, le profonde tensioni che ne hanno attraversato l’esistenza.
Il 21 settembre 1990 veniva ucciso il giudice Rosario Angelo Livatino.
Quattro sicari lo raggiunsero lungo la statale 640, che congiunge le città di Caltanissetta ed Agrigento, in prossimità del viadotto Gasena, mentre a bordo della propria vettura, una Ford Fiesta rossa, si recava al lavoro.
Ricorre quest’anno il trentesimo anniversario della sua morte.
Entrato in magistratura nel 1978, per lungo tempo sostituto procuratore ad Agrigento e in seguito giudice nella stessa città, al momento della morte non aveva ancora compiuto 38 anni.
Quella di Rosario Angelo Livatino è una figura posta storicamente al di fuori della iconografia classica dei magistrati uccisi per mano della mafia. Certamente egli è vittima della mafia e le ragioni del suo assassinio si radicano in un retroterra criminale, come reazione all’intenso impegno di magistrato. In questo senso la sua storia non fa eccezione rispetto alle tante che hanno costellato le vicende giudiziarie siciliane.
Vi è tuttavia una impronta più profonda che calca il percorso della sua vita, una eredità che non si ferma al pur rilevante profilo professionale e deontologico. Una tensione dello Spirito intensa ed una religiosità profonda e tormentata rappresentano il segno di una vita interiore ricchissima, che ne ha informato l’intera, seppur breve, esperienza umana e professionale.
La trama sviluppata da Pio Sirna nella sua biografia [Rosario Livatino. Identità, Martirio e Magistero, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2020] è incentrata sugli aspetti più profondi della personalità di Rosario Angelo Livatino: lontano da una ricostruzione delle vicende giudiziarie e professionali, il libro scandaglia la religiosità dell’uomo in relazione al suo percorso di formazione ed educativo, ne osserva l’evoluzione alla luce del contesto sociale di appartenenza, esamina i risvolti legati alla laicità del ruolo di magistrato, per come da lui vissuto.
Livatino è un uomo che ha dato testimonianza di sé attraverso le opere, ma anche con alcuni scritti.
I diari che il giudice teneva ordinatamente, anno per anno, rappresentano una fonte essenziale per accostarsi alla sua figura. Dopo la morte vennero affidati dai genitori a Ida Abate, sua insegnante di latino e greco nel liceo di Canicattì, che sulla figura dell’allievo ha scritto nei primi anni novanta un libro, Il piccolo giudice. Fede e Giustizia in Rosario Livatino.
Sul frontespizio di ciascun volume è riportata la sigla S.T.D., che Livatino annotava per esprimere, Sub tutela Dei, il principio ispiratore di una vita fondata sul messaggio evangelico. Un richiamo forte, come ebbe a sottolineare Ida Abate, che indica il sentimento di protezione di Dio ma anche, e prima ancora, la presenza del suo sguardo su di noi (tutela che origina dal verbo transitivo tueor, guardare, osservare, oltre che proteggere).
Una spiritualità che si alimenta delle letture e della temperie culturale del Vaticano II, con richiami ad encicliche e documenti post conciliari sul ruolo che ai laici è affidato per la realizzazione del messaggio evangelico. La seconda delle costituzioni conciliari, Lumen Gentium, l’enciclica di Paolo VI Popolorum Progressio e la Laborem exercens di Giovanni Paolo II fanno da sfondo al retroterra culturale, oltre che di fede, di Rosario Livatino.
La spiritualità di Rosario Livatino era tutt’altro che fideistica e i diari, che il libro rievoca, ne offrono una rappresentazione lucida e aperta. Una delle frasi più celebri annotate da Livatino «Alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili» riflette la tensione morale che, tutt’uno con la profonda fede religiosa, ha vissuto Rosario Livatino: una sintesi di “essere” e “agire”, la proiezione di un uomo non rinchiuso nella turris eburnea di valori intangibili, ma fortemente presente nel mondo.
Una spiritualità tormentata la sua. Tra il 1984 e il 1986, in coincidenza peraltro con difficili momenti professionali, Livatino attraversa la fase del deserto e della solitudine, e invoca l’aiuto di Dio: «Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni … Qualcosa si è spezzato. Dio avrà pietà di me e la via mostrerà?». Risuona il grido di abbandono tante volte letto nell’Antico Testamento, l’implorazione di Giobbe, l’urlo del cristiano di ogni tempo nella fase della desolazione.
Livatino è un uomo riservato e non ostenta la sua fede religiosa. Ha una solida formazione culturale, è cresciuto sui classici della letteratura latina e greca, la comprensione della laicità è ben radicata nel suo agire e nel ruolo di magistrato che riveste. Partendo dalla nota massima evangelica «Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio», nello scritto Fede e Diritto dell’aprile 1986 osserva come «l’irrinunciabile primato di Dio nella coscienza dell’uomo non è in contrasto con il potere / giurisdizione della legittima autorità civile di organizzare la vita della polis bisognosa di ordine, legalità e giustizia. Nella dialettica Città di Dio – città dell’uomo, Gerusalemme – Atene, il cristiano obbedisce perciò allo Stato fino a quando questi non si mette contro Dio e la sua legge divina» [nel testo di Sirna, pag. 108].
Il volume di Pio Sirna dedica ampio spazio a come la Chiesa ha affrontato nel tempo il fenomeno della mafia.
La morte di Rosario Angelo Livatino viene accostata a quella di Padre Giuseppe Puglisi e Padre Giuseppe Diana, anche essi uccisi nel tormentato periodo dei primi anni ’90. Di Livatino ebbe a dire Giovanni Paolo II che fu «martire della Giustizia e indirettamente della Fede». E’ impresso nel ricordo di tanti il monito che il 9 maggio 1993 il Papa lanciò ai mafiosi, davanti a migliaia di persone raccolte ad Agrigento, ai piedi del tempio della Concordia, uno dei punti più carichi di suggestione e storia della Sicilia: «Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!». Forse non molti sanno come questo anatema, con la sua impronta apocalittica, venne pronunciato da Giovanni Paolo II poche ore dopo essersi intrattenuto con i genitori di Rosario Livatino, in un incontro riservato, avvenuto su iniziativa dell’allora vescovo di Agrigento, Carmelo Ferraro.
E’ in corso, giunto alla fase finale, il processo di beatificazione di Rosario Angelo Livatino. La sua morte è, nella prospettiva della Chiesa, non solo un fatto criminale ma un atto in radicale contrasto con il messaggio ed i precetti evangelici. Un atto in odium fidei, compiuto nei confronti di chi si è spinto al martirio con la propria testimonianza, nella quotidianità del lavoro, nella esperienza di uomo, nelle attenzioni di figlio. Una esistenza fatta di atti che non hanno nulla di eroico, ma sono il frutto di scelte responsabili, portate avanti nel tempo con costanza e dedizione.
Impressionano le pagine dedicate alla vicenda di Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer del giudice, che appena ventenne aveva partecipato all’agguato. Nel periodo di prolungata detenzione, con una condanna all’ergastolo divenuta definitiva, Puzzangaro ha percorso una intensa fase di conversione. Non un “pentito”, nella comune accezione del termine legato alla collaborazione processuale, ma un uomo che vive il dramma dell’errore e del male ingiustamente inflitto ad altri con profondo senso di colpa, ma anche alla luce della fede. Rievoca l’immagine del giudice, lo sguardo che Livatino rivolge ai suoi assassini nella concitata fase dell’omicidio e il sogno ricorrente di tornare indietro, lungo la scarpata dove era stato freddato, per soccorrerlo e aiutarlo a risollevarsi. Ogni sera, racconta Puzzangaro, dedico al giudice Livatino un Eterno riposo, a Lui e a mio padre, insieme, come si fa con le persone più care. Viene dall’autore richiamata l’espressione di Tertulliano «il sangue dei martiri è seme dei nuovi cristiani», con la figura di Livatino che assurge nel suo martirio ad agente di conversione del suo persecutore [nel testo di Sirna, pag. 64].
Centrali per la comprensione di Livatino come giudice sono gli scritti Il ruolo del Giudice nella società che cambia (1984) e Fede e Diritto (1986), che ne rappresentano, in qualche modo, un testamento ideale. Vengono lambite corde da sempre sensibili per il ruolo e la funzione del magistrato, quali l’interpretazione della legge, il rapporto con la politica, la responsabilità per le decisioni assunte e l’errore giudiziario, il profilo che il giudice è tenuto ad osservare, come cittadino, nel contesto sociale in cui è inserito. Fondamentali per Livatino sono, accanto alle competenze tecniche, gli “elementi interiori” che ciascun giudice deve portare in sé: «L’indipendenza del Giudice è nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio …». E, rispetto all’immagine esterna che un giudice autorevole deve sapere offrire di sé, Egli scrive: «Non di una persona austera o severa o compresa del suo ruolo, della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma una persona seria sì, persona equilibrata sì, persona responsabile pure … persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire» [nel testo di Sirna, pagg. 91 e 92].
E’ emblematico della complessità della figura, un magistrato rigidissimo nella applicazione della legge, il contegno di fronte alle vittime della violenza mafiosa, spesso esse stesse coinvolte come compartecipi di associazioni criminali. Il silenzio e la preghiera serbati dinanzi ai cadaveri e le lacrime versate di fronte alle tombe dei morti ammazzati sono, nel ricordo di chi lavorava con lui e del custode di un cimitero, l’impronta tangibile della profonda umanità di Rosario Livatino.
E poi, la comprensione che la Giustizia ha regole e schemi nella sfera del divino non semplici da afferrare: «come mostra l’agire secondo giustizia del padrone nella parabola della vigna (Mt, 20,1-16), la vita cristiana, frutto di una fede alimentata dalla conoscenza, è dunque continuo esercizio vivificato dalla virtù della giustizia, ma la sua ultima tappa, il salto di qualità nella risposta alla chiamata divina, non mira ad essere giusti, ma ad essere buoni, obbedienti al comandamento della carità». Un anelito all’unità e alla ricomposizione delle tante sfaccettature dell’animo umano, con il primato della solidarietà che, nella visione di Rosario Livatino, dissolve l’apparente rapporto oppositivo tra carità e giustizia [nel testo di Sirna, pagg. 115 e 116].
Il 18 luglio 1978 Rosario Angelo Livatino prestava giuramento come uditore giudiziario al Tribunale di Caltanissetta. In quella data nella sua agenda annota: «Ho prestato giuramento. Da oggi quindi sono in Magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige». Un impegno, ma anche un messaggio augurale, affidato a tutti noi, Magistrati di ieri, di oggi e di domani.
* Sostituto procuratore presso il Tribunale di Milano
Fonte: Questione Giustizia
Trackback dal tuo sito.