Il caporalato del padrone «buono»
La StraBerry, azienda del milanese a chilometro zero, è sotto sequestro con l’accusa di sfruttamento dei braccianti immigrati. Venturini (Flai Cgil): “in Lombardia molti casi simili, bisogna attivare le Reti di certificazione”
La notizia, battuta ieri (24 agosto) dalle agenzie e ripresa oggi da molti quotidiani nazionali, ha sorpreso un po’ tutti. La StraBerry di Cassina de’ Pecchi, nel parco agricolo sud di Milano, è stata sequestrata dalla guardia di Finanza con l’accusa di sfruttamento dei braccianti nella raccolta delle fragole e dei mirtilli. L’azienda, premiata più volte dalla Coldiretti per le sue qualità agricole innovative e per il rispetto dell’ambiente, è molto conosciuta a Milano, dove le sue Apecar circolano per tutta la città coi loro prodotti a chilometro zero, e vanta più di sei milioni di follower su Instagram. Il suo fondatore e Ceo, Guglielmo Stagno d’Alcontres, è giovanissimo: 31 anni, bocconiano. Sembrerebbe una storia virtuosa, invece oggi il brutto risveglio.
L’agenzia Agi, la prima a battere la notizia, riferisce che i finanzieri hanno messo sotto sequestro, su disposizione della magistratura, “tutti i beni della società, consistenti in 53 immobili, tra terreni e fabbricati, 25 veicoli e 3 conti correnti e hanno nominato un amministratore giudiziario ai fini della continuità aziendale”. Ci sono “sette denunciati per intermediazione illecita e sfruttamento della manodopera”. I braccianti impiegati (un centinaio) avevano regolare permesso di soggiorno, venivano dai centri di accoglienza tra Milano e la Brianza, e agli inquirenti – riporta sempre l’Agi – hanno riferito di essere stati costretti a “raccogliere e confezionare le fragole a 4,5 euro all’ora per più di nove ore al giorno in tempi impossibili”. Se non mantenevano i ritmi, “nei casi peggiori ci mettevano in punizione a casa due giorni o non ci facevano più lavorare”, leggiamo sempre sul lancio dell’agenzia. Secondo gli inquirenti non sarebbero nemmeno state rispettate le misure anti-Covid (distanziamento, mascherine, igiene), ma non risultano casi di positività. L’indagine è durata due mesi.
Il quotidiano La Stampa riferisce che “gli investigatori si sono accorti che troppo spesso numerosi braccianti agricoli della StraBerry risultavano assunti e poi, dopo un paio di giorni, cancellati. (…) L’utilizzo continuo di questo strumento ha insospettito i finanzieri. E dagli accertamenti è venuto fuori che l’azienda era solita assoldare dipendenti per un paio di giorni di prova senza pagarli. Ogni volta il nuovo bracciante veniva in ogni caso registrato, in modo da comparire sempre in regola in caso di controlli, salvo poi essere cancellato al termine della prova. E in questo modo nessuno dei lavoratori, una volta allontanato dall’azienda, avrebbe potuto fare causa, perché la prestazione oltre a non essere retribuita non sarebbe stata neppure dimostrabile”.
“Nulla di nuovo sotto il sole, come si suol dire, ma fa ovviamente più effetto perché è un’azienda che è ubicata in quel di Milano”. Questo il commento di Giancarlo Venturini, segretario generale della Flai Lombardia, il sindacato del settore agroalimentare. “Per quanto ci riguarda – prosegue – come Flai Lombardia e territoriali sappiamo che da tempo emergono fenomeni di sfruttamento e caporalato anche nella nostra regione, ovviamente proporzionati al numero di lavoratori immigrati. Questo caso fa ancora più specie perché si tratta di un’azienda che si è fatta molta pubblicità sulle questioni etiche e ambientali. Ma in realtà le condizioni di lavoro – stando a quanto emerge dall’inchiesta – dimostrano il contrario, e ci sarebbe anche una cattiva conservazione delle marmellate e delle derrate alimentari nei magazzini. Sembra davvero la fotografia completa dell’illegalità”.
Secondo il responsabile della Flai regionale, nell’azienda, “con quel sistema di distribuzione dei prodotti, con quei lavoratori, si erano già riscontrate carenze dal punto di vista retributivo e per quanto riguarda la sicurezza”. Giorgia Sanguinetti, segretaria della Flai Cgil di Milano, ha dichiarato al Corriere della Sera: “avevamo avuto diversi contatti con i lavoratori di quell’azienda, che lamentavano anomalie nella gestione degli orari di lavoro, scarsa trasparenza nelle buste paga e soprattutto atteggiamenti vessatori da parte dei loro referenti in azienda. In modo particolare pressioni fortissime per aumentare le vendite e controlli oppressivi”. Ma l’inchiesta della magistratura e della guardia di Finanza denuncia, adesso, un sistema di sfruttamento nei campi.
“Io sono un garantista – prosegue Venturini -, c’è un’inchiesta in corso e fino al giudizio definitivo la colpevolezza deve essere dimostrata. Ma la mia impressione è che non ci sia nulla di campato in aria, purtroppo”.
Venturini ricorda che “ci fu un caso simile nel bresciano, due o tre anni in fa in Franciacorta, in un’azienda sempre associata a Coldiretti, casualmente, la Demetra, che gestiva i lavoratori immigrati durante la raccolta di frutta e ortaggi nei campi. Lo stile era simile: elusione contributiva di giornate, buste paga azzerate, orari sostenuti. Anche quella, comunque, è una vicenda giudiziaria non ancora conclusa”.
“La nostra risposta – spiega il dirigente sindacale – non può che essere il sindacato di strada. Siamo presenti nelle nostre sedi, che nei territori più importanti sono molto capillari. Abbiamo fatto un lavoro importante nel basso mantovano durante la raccolta dei meloni. Abbiamo sporto denunce riguardo aziende che poi sono andate in cronaca per problemi di evasione contributiva e previdenziale, e ultimamente anche per casi di Covid-19, che però è un altro discorso. Anche la Franciacorta la battiamo ogni giorno con acqua da bere, cappellini e informazioni sui diritti sindacali”.
Un’altra risposta a questi fenomeni di caporalato “dovrebbe venire dall’attivazione della Rete delle commissioni territoriali per la certificazione del lavoro agricolo di qualità”. Ma quella purtroppo, lamenta il segretario Flai, è “una nota dolente, in Lombardia, perché delle Reti non si vede neanche l’ombra. Le aziende si tirano indietro”.
Le Reti sarebbero uno strumento formidabile per certificare le aziende virtuose e lasciare il caporalato fuori dalla porta. Proprio per non farlo entrare in casa, e per tutelare il lavoro degli stagionali. Fornirebbero il certificato di qualità più importante cui un’azienda agricola possa ambire. “Ma la legge sul caporalato, che prevede l’istituzione delle Reti, purtroppo è monca, perché non sancisce alcun obbligo di adesione per le imprese”, conclude Venturini con una nota di amarezza che questo ennesimo caso di cronaca contribuisce ad acuire.
* Fonte: Collettiva
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