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La magistratura e l’uso spregiudicato delle correnti

Gian Carlo Caselli * il . Giustizia, Istituzioni, Società

csmC’era una volta un signore che amava indossare divise e camicie rigorosamente di colore nero. Spesso si affacciava ad un balcone o trebbiava il grano. Ogni volta gonfiava i muscoli e induriva le mascelle. Comandava tutto lui. Chi non era d’accordo veniva bastonato, incarcerato, ucciso. Durò circa vent’anni e alla fine portò alla rovina il nostro Paese.

Dopo i disastri del fascismo, gli italiani si dissero che bisognava scongiurare –  in futuro –  un uomo solo al comando. Fu così che 556 eletti dal popolo, uomini e donne, si riunirono in una Assemblea costituente ed elaborarono insieme la Costituzione repubblicana del 1948. Uno dei Padri costituenti, Piero Calamandrei, ha osservato che sotto la Carta ci sono tre firme che sono un simbolo: De Nicola, Terracini e De Gasperi. Tre nomi, tre idee, tre concezioni che costituiscono le correnti più importanti del paese (liberale, social-comunista e democratico-cristiana). Vuol dire che intorno alla Costituzione si è formato il consenso dell’intero popolo italiano, che la Costituzione è il prodotto di un’Italia unita sui principi e valori che essa esprime.

Indipendenza della magistratura

Fondamentale espressione di questo consenso unitario è l’indipendenza della magistratura. Sotto la dittatura, sciolta d’imperio l’Associazione magistrati, la conformazione della corporazione al regime era stata ferrea e capillare (nonostante alcune nobili eccezioni) fino a realizzare una sostanziale sudditanza. Tant’è che ai magistrati, a differenza che agli altri pubblici funzionari, non venne chiesto – almeno sino all’avvento della Repubblica di Salò – alcun «giuramento di fedeltà». Per escludere tale sudditanza, la Costituzione si è conformata al principio cardine delle democrazie moderne, la separazione dei poteri (legislativo , esecutivo e  giudiziario), prevedendo un sistema in cui nessuno dei tre prevale  sugli altri ma vi è un controllo e bilanciamento reciproco. Ha poi  stabilito  che i  giudici  sono soggetti soltanto alla legge e ha istituito il CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) affidandogli il compito di garantire l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati ordinari, civili e penali. Ma il  passaggio dal fascismo alla democrazia – si sa – è purtroppo avvenuto all’insegna della continuità;  a parte la rifondazione dell’Associazione magistrati (ANM), pochi i segnali normativi e politici di novità nel settore giustizia, e frustrati dalla mancanza di qualsivoglia rinnovamento personale e di mentalità.

Per dare una parvenza di legittimità a questo andazzo vi fu, da parte della Cassazione, l’invenzione della categoria delle norme costituzionali programmatiche (non suscettibili, cioè, di applicazione diretta, ma costituenti semplici programmi per il legislatore ordinario). Anche in ragione di questa ipocrisia il CSM poté cominciare a funzionare soltanto nel 1959. Prima, se qualcosa di nuovo si affacciava nel corpo giudiziario, scattavano censure autorevoli ed intransigenti. Nondimeno buona parte dei magistrati era indipendente ed imparziale, ma in termini di immagine e di linee di tendenza la magistratura rimase fortemente condizionata fino agli anni Sessanta, rendendosi – per usare parole di Luigi Ferrajoli – «un corpo burocratico chiuso, cementato da una rigida ideologia di ceto: un ‘corpo separato’ dello Stato, collocato culturalmente, ideologicamente e socialmente nell’orbita del potere, che veniva avvertito come ostile dalle classi sociali subalterne ed avvertiva esso stesso queste medesime classi come ostili».

Riscoperta della Costituzione

Il quadrò cambio con la “riscoperta” della Costituzione ed in particolare di alcuni principi fondamentali in essa contenuti: la previsione di una democrazia  pluralista contrapposta all’onnipotenza della politica e  l’affermazione (fin dall’art. 1 della Carta) che la sovranità appartiene al popolo e si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Ma soprattutto l’assunzione dell’obiettivo di realizzare una democrazia emancipante, nella quale il compiuto riconoscimento dei diritti di libertà è integrato dalla solenne affermazione del principio di uguaglianza in senso sostanziale, assunto non come semplice aspirazione ma come dato normativo fondamentale non negoziabile. Una democrazia nella quale la cittadinanza è uno status di cui fanno parte, oltre al diritto elettorale, un reddito decoroso e il diritto a condurre una vita civile, anche quando si è ammalati o vecchi o disoccupati o stranieri.

Tutto ciò ha prodotto nel nostro Paese risultati importanti. Agli anni dell’inadempimento costituzionale seguono gli anni Sessanta e Settanta, che innescano un rinnovamento sociale e politico denso di effetti sulla giurisdizione. Con lo statuto dei lavoratori (maggio 1970) i giudici si videro attribuire un inedito ruolo di garanti e promotori dei diritti sociali e il sistema giudiziario divenne strumento dell’emancipazione dei cittadini disegnata dalla Costituzione. Il modello era, per definizione, espansivo e, in breve, si affermò anche in altri settori: casa, studio, diritti degli utenti, famiglia, minori, handicap, aree emarginate,  tossicodipendenza, sofferenza psichica, immigrazione, etc. Passò meno di un decennio e la magistratura dovette misurarsi con la stagione del terrorismo (nero e rosso), e poi con i fatti e i misfatti di poteri occulti e illegali (dai servizi deviati alla P2), con una mafia sempre più aggressiva e potente, con una corruzione di estensione abnorme e addirittura sistemica. Di qui la sua proiezione nella dimensione, egualmente inedita, di garante del diritto dei cittadini alla legalità nei confronti dei poteri forti, sia privati che pubblici, e di strumento di controllo dell’esercizio di tali poteri.

In questo quadro un ruolo determinante ha avuto il funzionamento del CSM come organo di autogoverno della magistratura,  posto a presidio non soltanto formale ma effettivo della sua indipendenza. Ma decisivo è stato anche il ruolo delle “correnti” nelle quali si è articolata l’ANM. Nate come veicoli di dibattito e orientamento culturale (pubblico e trasparente), esse hanno svolto una funzione assai utile per incrinare l’estraneità dei giudici rispetto alla società civile e per cercare di introdurre in un corpo tradizionalmente burocratico il rifiuto del conformismo (inteso come gerarchia, logica di carriera, giurisprudenza imposta dall’alto, passività culturale: tutti fattori di subalternità alla politica).

Involuzione delle correnti

Malauguratamente, le correnti hanno subito col tempo una pessima involuzione: da luogo di confronto fra culture ed idee sono  diventate – quale più quale meno – cordate di potere per il conferimento clientelare di incarichi e la nomina di dirigenti. L’inchiesta di Perugia sul “caso Palamara” ha squadernato un vergognoso groviglio di trattative, accordi e baratti per la scelta dei capi degli uffici giudiziari. Di qui un crollo di credibilità e affidabilità senza precedenti che ha investito la magistratura tutta (anche la parte incolpevole, che rimane preponderante).

Di uso spregiudicato delle correnti, per altro, si può parlare anche prima del caso Palamara. Ma per quanto è dato sapere (non esistevano i Trojan…) si è trattato di fatti indubbiamente gravi ma non generalizzati e diffusi come quelli evidenziati oggi dalle cronache. Ecco alcuni esempi.

Primo. ll programma della loggia P2 – sciolta per legge nel  1982 – riferendosi ad “una forza interna alla magistratura (la corrente di Magistratura indipendente) che raggruppa oltre il 40% dei magistrati italiani su posizioni moderate”, sosteneva  che “un raccordo sul piano morale e programmatico” insieme a “concreti aiuti materiali” avrebbe assicurato “un prezioso strumento già operativo all’interno del corpo». Come si vede, la degenerazione delle correnti, pur nella sua gravità, non è assimilabile alle trame di “venerabili maestri” che assoldano magistrati associati in corrente disposti a vendersi. E non si tratta di semplici progetti, perché proprio per l’adesione alla P2 e per i  finanziamenti ricevuti, la Sezione disciplinare del Csm ha radiato dall’ordine giudiziario, nel 1983, Domenico Pone, allora segretario della corrente in questione. Nello stesso tempo va sottolineato l’esemplare comportamento del CSM, unica fra le amministrazioni pubbliche (a quanto risulta) capace di sanzionare  la vergognosa appartenenza alla P2.

Secondo. L’impareggiabile professionalità di Giovanni Falcone fu sacrificata dal Csm (1988) sull’altare della maggiore anzianità, a vantaggio di un candidato (Antonino  Meli) che di processi di mafia non ne aveva mai visti. Quello stesso CSM,  per la nomina dei dirigenti in terra di mafia, si era dato la direttiva di valutare con attenzione le attitudini specifiche. La direttiva, applicata per la nomina di Borsellino a capo della procura di Marsala, pochi mesi dopo fu aggirata con nonchalance per Falcone. Come a dire che  anche allora le regole potevano valere ad intermittenza se c’erano certi obiettivi da raggiungere. Non solo la nomina di un dirigente, ma persino spalancare le porte a uno come Meli,  convinto dell’infruttuosa inutilità del metodo di lavoro del pool di Falcone. Che Meli non esitò a demolire, arretrando l’antimafia di una cinquantina d’anni e rassicurando tutti coloro che in Falcone avevano intuito un  pericoloso “maccartismo”,  in ragione della dichiarata propensione ad occuparsi anche della “convergenza di interessi col potere mafioso […], che costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa nostra e della sua natura di contropotere” (1987, ordinanza-sentenza del “maxi ter”). Nel caso Meli il “gioco” delle correnti fu smaccato, al punto che il palermitano Vincenzo Geraci, dopo aver trainato la sua corrente (Magistratura indipendente) alla sconfitta di Falcone, dichiarò ad un giornale che “per quanto mi riguarda personalmente, non ho difficoltà ad ammettere che prima di schierarmi ho valutato quale orientamento era prevalente fra i giudici all’interno delle correnti di Palermo. Il riflesso elettorale di questa decisione non poteva essere trascurato”. E così, un pugno di voti per la propria corrente aveva finito per prevalere su tutto, perfino sull’interesse generale a riconoscere Falcone come il campione indiscusso dell’antimafia.

Cause storiche

Alla situazione odierna, caratterizzata –  ripeto – da una generalizzazione senza precedenti del criterio della “appartenenza” a questa o quella corrente come criterio decisivo per le scelte del CSM (in molti casi, anche  importanti),  si è arrivati per l’effetto congiunto di vari fattori, distribuiti nel tempo. Innanzitutto l’abolizione delle Preture con le relative Procure, che ha ridotto di circa la metà il numero dei posti direttivi o semidirettivi complessivamente a disposizione; riduzione (poi accentuata dall’accorpamento di vari tribunali) che ha moltiplicato – per fortuna con rilevanti  eccezioni – il numero dei magistrati disposti a strumentalizzare le correnti per sgomitare contro la “concorrenza” .

Un ruolo importante ha poi avuto la controriforma dell’ordinamento giudiziario voluta nel 2002 dal ministro ing. Roberto Castelli, con un sistema elettorale del CSM basato su un meccanismo di candidature individuali che invece di ridurre il potere delle correnti lo ha aumentato in misura esponenziale. Ancora: di fatto la legge n.150 del 2005 (modificata nel 2007),  ha  finito per disegnare un nuovo tipo di carriera –  gerarchico/arrivista –   brodo di coltura  di ulteriori appetiti.

Va detto inoltre che spazi sconfinati in favore di coloro che amano praticare il suk si sono aperti per il combinato effetto della inadeguatezza del criterio gerontocratico e della difficoltà di ancorare la scelta dei dirigenti ad altri parametri (attitudini e quant’altro) di almeno relativa oggettivazione. Infine, ricordiamo l’eclissi della questione morale che ha colpito il Paese e della quale (più o meno inconsapevolmente) ha risentito anche una parte dei magistrati, posto che essi non vivono di certo in compartimenti stagni.

Riforme radicali

Ora come ora, per guarire c’è bisogno di riforme radicali tanto quanto occorre ossigeno per i malati gravi di covid-19. Sia per il  CSM che  per la nomina dei direttivi.

Sul primo versante, una buona soluzione potrebbe essere – a mio avviso – la previsione di un collegio elettorale per ogni distretto di corte d’appello, con “primarie” prima della vera e propria elezione (imprescindibile per l’art. 104 Cost.). Primarie da effettuarsi in ciascun collegio con la partecipazione, oltre che dei magistrati ordinari, di quelli onorari, di tutto il personale amministrativo e di adeguate rappresentanze dell’Avvocatura e dell’Università. Lo strapotere delle correnti potrebbe così trovare un freno consistente.

Quanto ai direttivi, mi sembra saggia la proposta del presidente della Corte d’appello di Brescia Claudio Castelli: “Se si debbono valutare le capacità organizzative ed i risultati ottenuti sul campo”; posto che “il CSM ma neppure i Consigli giudiziari hanno queste competenze, perché la valutazione è una scienza”; ci si potrebbe avvalere di un “Organo consultivo” formato da “tecnici esterni”, in particolare di estrazione universitaria, incaricati di una vera “istruttoria”.

Tenendo ben a mente due profili: che le nomine non sono mai fine a se stesse ma incidono  all’evidenza sulla capacità dell’ufficio di essere fedele soltanto alla Costituzione (l’unica fedeltà – ammonisce il presidente Mattarella – richiesta  ai servitori dello Stato a tutela della democrazia); e che anche le migliori leggi hanno sempre bisogno di gambe robuste per camminare: nel caso nostro, un profondo rinnovamento culturale dell’AMM e della magistratura in generale, capace di rigenerare i  valori oggi appannati.

* Fonte: Rocca n°16/17 – 15 agosto/1 settembre 2020

Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi

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