Caterina Chinnici: “Mio padre vive!”
Intervista di Donatella Palumbo a Caterina Chinnici
Il 29 luglio 1983 a Palermo, in via Pipitone Federico, vennero assassinati il magistrato Rocco Chinnici, due carabinieri addetti al servizio di tutela – Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta – e Stefano Li Sacchi, il portiere dello stabile dove abitava il magistrato e dinanzi al quale era parcheggiata la Fiat 126 imbottita di esplosivo. Unico superstite Giovanni Paparcuri, autista del magistrato.
Sono trascorsi 37 anni eppure il ricordo è ancora vivo, soprattutto nella mente e nel cuore della figlia Caterina Chinnici, che ha seguito l’esempio del padre diventando magistrato.
Attraverso le parole di Caterina Chinnici il ricordo non assume una dimensione solo privata ma è testimonianza dell’impegno civile di un magistrato che ha compiuto il suo dovere fino alla fine senza cedere alla prepotenza mafiosa, contribuendo con il sacrificio del bene più prezioso – la sua vita – alla tenuta democratica dello Stato e dei diritti e delle libertà di tutti noi. Una vita “al servizio della giustizia, dello Stato e delle istituzioni”, come recita la motivazione con cui è stata assegnata al magistrato la Medaglia d’oro al valore civile.
Una testimonianza per chi c’era e in quegli anni ha vissuto la tragicità degli eventi proseguendo tenacemente il proprio lavoro e per i giovani magistrati della mia generazione che, pur non avendo vissuto quel periodo, hanno come modello per la propria formazione colleghi come Rocco Chinnici, nel solco del cui esempio cercano di affrontare le difficoltà quotidiane della funzione con spirito di servizio, dedizione al lavoro e rigore morale.
Il 29 luglio 1983 Rocco Chinnici venne ucciso, unitamente a due uomini della scorta e al portiere dello stabile della sua abitazione, in un agguato mafioso. Un dolore intimo e personale per la morte di un genitore che assunse una dimensione pubblica per il ruolo svolto da suo padre. Che ricordo serba di quella terribile giornata e a cosa pensa ogni volta che ricorre questa data?
“Quel giorno non mi trovavo a Palermo. Ero a Caltanissetta, sulla strada da casa al tribunale. Come sempre mi accompagnò mio marito. Passammo prima dal suo studio, accanto al quale c’era la casa dei suoi genitori. Era già successo tutto ma ancora non sapevamo. Incrociai uno sguardo strano di mia suocera ma sapevo che suo marito era malato e lo ricollegai a questo. Pochi minuti dopo, però, telefonarono dalla questura di Caltanissetta e rispose mio marito. Improvvisamente cambiò espressione, si contrasse in volto e disse «No, lo zio Rocco no»: in quel momento capii. È così che ho saputo dell’attentato a mio padre. Partimmo per Palermo ma non ricordo nulla di quell’ora di strada, a parte un grande vuoto e la sensazione di sprofondare. Volevo andare subito da mio padre e mi accompagnarono all’obitorio, dove avevano già spostato i corpi delle vittime, e lì lo vidi per un attimo. Poi andai a casa dai miei fratelli, che qualche minuto prima dell’esplosione avevano bevuto il solito caffè preparato da nostro padre, l’ultimo. Li trovai impietriti in quello scenario di devastazione, anche loro sotto shock. Mia mamma fu avvisata da un cugino, una volante andò a prenderla a Trapani nella scuola dove lei era impegnata in commissione d’esami durante le sessioni di maturità. Quel giorno il dolore si è annidato dentro di me, non se n’è più andato. Lo stordimento iniziale, la rabbia, ma a poco a poco la volontà di proseguire nel nostro percorso di vita con dignità e coraggio. A papà infatti la rabbia non sarebbe piaciuta. Lui stesso, pur consapevole dei rischi ai quali si esponeva, aveva scelto di portare avanti fino in fondo il proprio impegno civile mantenendo sempre intatta la propria benevolenza. Il suo sacrificio non è stato vano: per il messaggio culturale che ha lasciato ai giovani, per come il suo lavoro ha contribuito a tutta l’antimafia moderna e agli importanti risultati che ne scaturiscono, per gli sviluppi che le sue intuizioni continuano ad avere adesso a livello europeo, anche attraverso il mio personale impegno al Parlamento Europeo. Questo è ciò che penso ogni anno in occasione del 29 luglio, perché in questo c’è il significato più alto della memoria: la continuità”.
La città di Palermo, dal 1979 al 1982, venne scossa da plurimi omicidi di mafia contro uomini delle forze dell’ordine, politici e magistrati: Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa. Erano gli anni in cui suo padre, Rocco Chinnici, assunse la direzione dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. Ebbene, di fronte a questa lunga scia di sangue quale era lo stato d’animo di suo padre e come veniva vissuto in famiglia il suo lavoro e i rischi cui andava incontro?
“Papà amava molto il suo lavoro. Le difficoltà le metteva nel conto e non lo condizionavano. Si è sempre sforzato di tenerci al riparo dalle preoccupazioni e dalle tensioni che, sicuramente, con il passare del tempo si facevano strada sempre di più. Da metà anni Settanta, tuttavia, le limitazioni dovute a ragioni di sicurezza e le conseguenti rinunce diventarono progressive, e io ebbi la netta sensazione che fosse iniziata una nuova epoca dalla quale non si sarebbe più tornati indietro, sebbene lui ripetesse che era una situazione transitoria. Smise di andare in ufficio a piedi, venivano a prenderlo con l’auto blindata. Non poté più andare con mamma a fare una passeggiata, al cinema o al teatro. Non accompagnava più noi alle feste. Poi dal 1980 si intensificarono le telefonate minatorie, alcune anche in piena notte. Papà arrivava sempre prima di noi a prendere la cornetta del telefono, tranne un paio di volte in cui rispose mamma per errore, ma ormai a quel punto la paura era entrata in casa. Mamma voleva che lui lasciasse l’ufficio Istruzione e che presentasse istanza per andare alla procura generale di Torino ma non credo che papà abbia mai avuto realmente questa intenzione, anche se per tranquillizzare mamma si mostrava a volte possibilista. Sentiva di essere al suo posto e noi stessi ci rendemmo conto che non potevamo chiedergli di rinunciare al lavoro che stava portando avanti: per lui sarebbe stato come tirarsi indietro”.
Una delle intuizioni più importanti di suo padre quando dirigeva l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo fu la creazione di una struttura collaborativa tra magistrati dell’ufficio che negli anni successivi sarebbe diventato il “pool antimafia”, un gruppo di lavoro capace di creare sintonie professionali e anche amicizie tra magistrati e uomini della polizia giudiziaria, al fine di alleviare la solitudine e l’isolamento che spesso connotano il nostro lavoro. Quanto credeva suo padre nel lavoro di squadra, soprattutto con riferimento al contrasto dei reati di criminalità organizzata?
“Ci credeva moltissimo. E quella fu una delle innovazioni dirompenti nate dal suo lavoro. Basti pensare al fatto che oggi la cooperazione, sia giudiziaria che di polizia, è un pilastro delle strategie investigative per la lotta contro le organizzazioni criminali. Quell’idea non è solo all’origine del pool antimafia, ha ispirato anche la nascita delle direzioni distrettuali antimafia coordinate dalla direzione nazionale antimafia, e di riflesso anche la procura europea istituita di recente. Mio padre analizzava, approfondiva, e per questo aveva maturato una grande conoscenza del fenomeno mafioso. Aveva capito che alcuni fatti di sangue apparentemente indipendenti erano tasselli di uno stesso scenario, che c’erano connessioni tra mafia, imprenditoria e politica, che era necessario monitorare i movimenti di denaro sui conti correnti bancari. Si rese conto, cioè, che non era possibile combattere la mafia un reato per volta, e così decise di costituire un gruppo. Era indispensabile superare la frammentazione delle conoscenze e garantire la condivisione delle informazioni tra magistrati, così come la condivisione delle scelte successive. Un metodo che fece dell’ufficio Istruzione del tribunale di Palermo un modello di efficienza nella lotta alla mafia. Uno schema consolidato nel tempo venne così scardinato, ma non fu l’unico. Per esempio, papà iniziò a dare direttamente indicazioni alla polizia giudiziaria, coordinandone l’attività: per questo ricevette una lettera di richiamo, ma con il nuovo codice di procedura penale del 1989 quella prassi diventò legge e ancora oggi la polizia giudiziaria è alle dipendenze funzionali del pubblico ministero, ad ulteriore dimostrazione di quanto le intuizioni di Rocco Chinnici abbiano inciso sull’evoluzione dell’antimafia moderna”.
Rocco Chinnici aveva una visione moderna e innovativa delle tecniche investigative e diede, in particolare, grande impulso alle misure di prevenzione patrimoniali come strumento elettivo per indebolire l’organizzazione criminale mafiosa aggredendone direttamente il profitto illecitamente accumulato. Nel suo Ufficio lavorarono anche due grandi magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ricorda qualche episodio che possa far comprendere il livello dei loro rapporti professionali e personali?
“Mio padre li scelse uno per uno i giudici con cui formare quel gruppo di lavoro successivamente denominato pool antimafia. Paolo Borsellino lo affiancava già da qualche anno, Giovanni Falcone invece arrivò dopo. Papà lo convinse a trasferirsi all’ufficio Istruzione dalla sezione fallimentare del tribunale di Palermo. Voleva infatti avviare le prime indagini bancarie e pensò di sfruttare la capacità di leggere i bilanci societari e di ricostruire i movimenti di denaro che Falcone aveva maturato in ambito civilistico. Tre personalità diverse, appartenenti a correnti diverse della magistratura, ma tra loro c’erano coesione, complicità, stima e amicizia. Si frequentavano anche fuori dal lavoro, spesso con il coinvolgimento delle famiglie. Ricordo molti momenti trascorsi insieme ma quello che meglio esemplifica i loro rapporti personali e professionali è, ritengo, il momento in cui io, allora giovane uditore giudiziario in servizio proprio all’ufficio Istruzione, li vedevo appartarsi in un angolo del palazzo di giustizia per scambiarsi informazioni sottovoce. In quei conciliaboli c’è la rappresentazione di tutto quanto ho appena detto e, in più, della grande fiducia reciproca senza la quale quell’approccio d’èquipe non sarebbe stato possibile”.
Ogni anno, il 21 marzo, primo giorno di primavera, l’Associazione Libera celebra la Giornata della Memoria e dell’Impegno attraverso la lettura dell’elenco dei nomi di tutte le vittime di mafia, tra i quali figura anche suo padre. Nel corso di questa giornata, così come in altre occasioni, di fondamentale importanza risulta la partecipazione dei giovani, sempre più spesso impegnati in percorsi di legalità nel corso dell’anno scolastico. Per Rocco Chinnici quanto era importante coinvolgere in dibattiti ed incontri le istituzioni, la società civile e, in particolare, i giovani al fine di sensibilizzare le coscienze sui temi del contrasto alla criminalità organizzata e quanto credeva suo padre nelle nuove generazioni e nella loro capacità di riscatto?
“Papà dischiuse le porte degli uffici giudiziari. Metaforicamente, intendo. Nel senso che, superando e quasi forzando la propria innata riservatezza, parlava del suo lavoro per sensibilizzare la cittadinanza, per spiegare cos’era la mafia in un’epoca in cui spesso ne veniva negata l’esistenza, per mettere in guardia dai pericoli legati all’uso di droghe. Interveniva alle conferenze, ai dibattiti televisivi, e fu proprio in quegli anni, periodo ’79-‘80, che per esempio si iniziò a parlare di una nuova legislazione che consentisse di perseguire i reati di mafia in quanto tali. Con grande impegno papà si batteva già insieme a Gaetano Costa, procuratore capo di Palermo, affinché fosse previsto il reato di associazione di stampo mafioso e affinché i giudici potessero colpire la mafia nel vivo, cioè nella sua ricchezza conseguita illecitamente. Sostenne pubblicamente la necessità di approvare la legge Rognoni-La Torre con la quale poi, nel settembre 1982, fu effettivamente introdotta la nuova figura di reato, cioè l’associazione di tipo mafioso, e furono rese obbligatorie le misure patrimoniali del sequestro e della confisca dei beni illecitamente conseguiti dall’organizzazione mafiosa. Inoltre papà parlava spesso con i giovani. Era sua convinzione che dovesse essere combattuta l’acquiescenza a un certo sistema, e che questo andava fatto a livello sociale, riducendo il disagio delle famiglie, portando il lavoro e la cultura che, diceva sempre, vuol dire libertà. E siccome l’illegalità trova terreno fertile dove prosperano ignoranza e indigenza, lui volle scommettere soprattutto sui giovani. Perché credeva nei ragazzi. Diceva che se i giovani sono messi in condizione di studiare, la loro intelligenza può renderli cittadini consapevoli, in grado di esercitare i diritti e di fare le proprie scelte. La sorte e il futuro dei giovani erano stimoli fortissimi per lui, e non potrò mai dimenticare quanto era rimasto segnato dalla tragedia di una ragazza, inquilina del nostro palazzo, trovata morta per overdose. Decise allora che doveva fare di più, e iniziò ad andare sistematicamente nelle scuole per informare i ragazzi sui rischi che correvano. Nessun magistrato aveva mai fatto queste cose prima di lui”.
Lei è entrata in magistratura nel 1979, anno in cui furono uccisi i magistrati Emilio Alessandrini e Cesare Terranova. L’anno successivo, nel 1980, vennero assassinati anche i magistrati Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato e Gaetano Costa. Per ogni giovane magistrato il periodo del tirocinio rappresenta un momento importante, vissuto con grande entusiasmo atteso che finalmente, dopo tanti anni di studio, si ha la possibilità di confrontarsi con la realtà giudiziaria, con gli affidatari e con gli altri colleghi in tirocinio per prepararsi adeguatamente ad assumere le funzioni nella prima sede di assegnazione, spesso uffici di frontiera caratterizzati da molteplici criticità. Cosa ha significato per lei, giovane magistrato, svolgere l’uditorato e lavorare nel primo ufficio di destinazione in quel periodo scosso da eventi così tragici?
“Era un periodo di tragici eventi, sì, e ovviamente anche di forti tensioni, ma non c’era il tempo di pensarci più di tanto perché all’ufficio Istruzione del tribunale di Palermo si lavorava incessantemente. Io e gli altri uditori di quell’epoca abbiamo avuto la grande fortuna di poter imparare il mestiere da alcuni autentici fuoriclasse della magistratura, peraltro in un clima reso molto familiare dalla loro carica umana che andava sempre a braccetto con una rigorosissima professionalità. Il mio è stato un uditorato bellissimo, perché come giudice affidatario mio padre scelse per me Paolo Borsellino, che di papà aveva lo stesso profilo umano, la stessa severità, la stessa capacità di essere instancabile. Lo conoscevo già perché frequentava anche casa nostra. Con me era paterno, mi rendeva partecipe del suo lavoro. Io studiavo i fascicoli e gli esponevo il mio punto di vista sui possibili provvedimenti. Un giorno Paolo mi portò con sé al carcere, dove doveva interrogare un imputato per omicidio. Di solito gli uditori prendevano contatto insieme, in gruppo, con questo tipo di realtà. Paolo volle che lo accompagnassi e per me già il solo varcare le porte di ferro del penitenziario fu traumatico, ma dopo fui ancora più turbata dal trovarmi faccia a faccia con un assassino. È davvero difficile per un giovane magistrato quel momento in cui necessariamente si entra nei particolari del fatto per capire come è stato compiuto il crimine. Ma ecco l’insegnamento che viene dall’esempio: mentre a me quasi tremavano le gambe, Paolo rimase lucido e distaccato, pose le domande in modo fermo ma trattando sempre quel detenuto come una persona. È stato un grande maestro per me”.
Qual è l’insegnamento più grande che ha ricevuto da suo padre e che ha praticato nella sua vita professionale?
“Il suo modo di essere magistrato mi ha fortemente ispirato. Era un giudice rigoroso nell’applicare la legge ma sempre umano nei confronti delle persone che era chiamato a giudicare. Un vero servitore dello Stato e della collettività. Il suo esempio ha avuto un ruolo determinante nella mia scelta di intraprendere la carriera di magistrato. E poi lui mi ha insegnato ad andare sempre oltre le difficoltà per portare avanti quello in cui credo. Pur conscio di cosa significasse in quegli anni essere magistrato, non ha mai cercato di dissuadermi e anzi ha sempre sostenuto questa mia passione. Ma questo insegnamento, il non farsi scoraggiare dalle difficoltà, me lo aveva sempre dato, fin da quando ero piccola. Era proprio questo, per esempio, il suo messaggio quando io, bambina tranquilla ma con il vezzo della velocità sulla bicicletta, cadevo rovinosamente procurandomi sbucciature a volte anche profonde: lui non mi sgridava, nessuna ramanzina, anzi mi medicava, mi rimetteva in sella e mi diceva «ora ricomincia a correre e cerca di farlo meglio». Coraggio e determinazione: questo l’’insegnamento più importante che ho ricevuto da mio padre e che ho praticato nella vita e nel lavoro”.
Dal 2015 Rocco Chinnici è onorato come Giusto nel Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Milano, un memoriale per tutti coloro che si sono opposti ai genocidi e ai crimini contro l’umanità. Sul cippo in suo onore si legge “Magistrato integerrimo e di grande umanità, coraggioso promotore del primo pool antimafia del Tribunale di Palermo, ucciso dalle cosche nel 1983”. Secondo suo padre, quali erano le qualità professionali, umane ed etiche che dovevano essere incarnate da un magistrato e come lui le praticava?
“Né lui né i suoi colleghi impegnati in prima linea avrebbero potuto fare ciò che hanno fatto senza una solidissima base di valori che li sorreggeva nel loro eccezionale impegno. La giustizia, la legalità, il senso del dovere, la fedeltà allo Stato e alle istituzioni. Tutto questo si traduceva poi in una straordinaria dedizione al lavoro. Mio padre aveva proprio la religione del lavoro, riusciva a smaltire impressionanti quantità di lavoro. Una domanda molto simile a quella che lei mi pone adesso la fecero a lui un giorno durante un’intervista televisiva, e lui disse proprio così: che un magistrato deve innanzitutto lavorare”.
Un’ultima domanda: cosa direbbe oggi suo padre Rocco Chinnici ad un giovane che si appresta a muovere i primi passi in magistratura, soprattutto in contesti criminali difficili?
“Ai giovani magistrati che prendevano servizio all’ufficio Istruzione come uditori papà trasmetteva un grande entusiasmo. Me lo hanno testimoniato tanti colleghi che hanno iniziato la carriera proprio con lui. Parlava loro della responsabilità che si ha nello svolgere la professione di magistrato, a maggior ragione in un contesto territoriale difficile come quello di Palermo, e al tempo stesso li stimolava a lavorare con passione, anche contagiandoli con la sua che era smisurata. Sono sicura che anche oggi a un giovane magistrato Rocco Chinnici direbbe di lavorare tenendo sempre come riferimenti l’impegno, la passione e il senso di responsabilità”.
* Fonte: Giustizia Insieme
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