19 luglio 1992
Non saprei dire quante volte ho raccontato questa storia, e non so neppure se adesso sto rielaborando quello che per anni ho rivisto ogni 19 luglio, la storia dei miei racconti, oppure sarò capace di una testimonianza vera.
Io quel giorno ero lì, il 19 luglio 1992 ero proprio lì, a Palermo.
Nel tardo pomeriggio di quella maledetta domenica io ero in via d’Amelio, nella confusione di una strada e di case sventrate, sul campo della sconfitta, e della paura.
Come tanti magistrati avevo trovato la mia prima sede in Sicilia, ero alla Procura di Sciacca da appena un anno quando saltò in aria l’autostrada. Passate alcune settimane da quei fatti sconvolgenti, sentita addosso la pioggia dei funerali davanti alla Chiesa di San Domenico, seguivo con una preoccupazione adrenalinica gli sviluppi delle inchieste, ma anche i discorsi e quei preziosi interventi in pubblico di cui Paolo Borsellino non volle privarci, fino all’ultimo
Ero anche un po’ egoista.
In quei giorni giravano strane voci su progetti d’attentati, venivano pubblicati trafiletti di stampa con riferimenti equivoci a “giovani magistrati nell’obiettivo” della mafia. Mi ritenevo così importante che per cercare rassicurazione lo chiamai, il venerdì sera prima di quel 19 luglio per sentirmi dire che erano notizie senza fondamento, che potevo stare tranquilla, o qualcosa del genere. Paolo Borsellino mi rassicurò. Non ricordo le parole che mi disse e questo mi tormenta proprio, perché se solo fossi stata più attenta adesso potrei raccontare una storia più interessante, e invece sfodero solo i ricordi dei sentimenti di una giovane magistrata, sollevata nel sapere che non ci poteva essere nulla di male che l’aspettava. Per questo il sabato sera mi ero ritrovata con amici a Palermo e poi l’indomani al mare, una bella domenica di luglio.
Invece il male c’era, eccome. Era in via D’Amelio ad aspettare Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta.
Di rientro dalle spiagge di Pollina iniziarono a squillare i telefoni dei miei amici, entrambi giornalisti palermitani, e mentre ci avvicinavamo alla città si vedeva la colonna nera di fumo alzarsi da quel punto verso il porto. Le prime notizie dicevano ben poco, via D’Amelio non era nella mappa dei luoghi noti e protetti in città, quelli davanti ai quali stavano i divieti di sosta (le camionette con i soldati dell’operazione Vespri siciliani sarebbero arrivate sei giorni dopo).
Giunti in città, ci si precipitò col motorino in via D’Amelio. In tutti questi anni ho cercato di estrarre dai miei ricordi quello che vidi allora, con chi parlai, cosa ascoltai in quei momenti e invece riesco solo a ricordare come ero vestita (un impresentabile copricostume) e come mi sentissi del tutto inutile e fuori luogo a starmene lì, a creare intralcio, girovagando tra strada e marciapiedi ingombri di cose che non saprei descrivere. Ogni anno, ad ogni anniversario, rivedo le immagini di quella strage in televisione e mi ostino a cercare qualcosa che mi ricordi me stessa, in quei luoghi, quella sera. Col tempo mi sono anche fatta una ragione di questo vuoto, credo davvero che la testa a volte decida di oscurare quello che vediamo e sentiamo per aiutarci a sopportarne l’esperienza.
Ogni anno, da allora, ho raccontato di quel pomeriggio e di quella sera, quando alcune ore più tardi ci si ritrovò, alcuni colleghi, interrogandoci e guardandoci in faccia per incoraggiarci ma senza riuscire a cavar nulla di buono.
Quella sera sentivamo davvero quello che di lì a poco avrebbe detto Antonino Caponnetto: “E’ finito tutto!”. Una settimana dopo, alla stessa ora di quella domenica pomeriggio, Rita Atria, testimone di giustizia a 17 anni, si uccise; ascoltando la sua testimonianza insieme ad Alessandra Camassa avevo conosciuto il Procuratore di Marsala, e questa sarebbe ancora un’altra storia..
In tutti questi anni ho narrato a classi di studenti, in iniziative di Libera, ai miei uditori, la mia storia, ogni volta tornando al giorno in cui perdemmo Paolo Borsellino, l’uomo, il magistrato che avevo avuto la fortuna di conoscere al mio primo incarico; ma non è la violenza di quella strage che merita il ricordo e non sono i particolari di quel pomeriggio che mi spingono a parlare e ora a scrivere.
Paolo Borsellino, visto da lontano, rappresentava per me qualcosa di irraggiungibile, un pezzo della storia della magistratura, il maxi processo, una parte importante delle ragioni per cui avevo fatto il concorso. Da vicino, con tutto il timore reverenziale del caso, fu una grande scoperta. Era davvero molto palermitano, conosceva l’accoglienza e la gentilezza, ma anche il parlare duro. Aveva sempre una gran voglia di insegnare qualcosa ai colleghi di prima nomina, e lo faceva, concretamente, anche se non citava l’ultima Cassazione.
Era un magistrato fedele all’impegno preso giurando sulla Costituzione e a lui, all’epoca anche presidente della Giunta distrettale dell’ANM, consegnai a la mia prima iscrizione ad una associazione di magistrati. Paolo Borsellino era un magistrato attento e impegnato, iscritto a Magistratura Indipendente, coinvolto nell’attività associativa.
Ecco allora non solo il desiderio, ma la necessità oggi, nel momento in cui l’intera magistratura appare colpita e piegata dalla perdita del sentimento della vergogna che ha infestato le nostre istituzioni di autogoverno e le relazioni associative, di ricordare e fare testimonianza del magistrato e dell’uomo, dell’esempio e del coraggio, dell’impegno e della disponibilità che la vita di Paolo Borsellino ci hanno lasciato in eredità, senza dimenticare che proprio perché così consapevole del ruolo che svolgeva Borsellino non si tirò mai indietro quando era il momento. L’esempio conta, ricordare è importante.
* Fonte: Giustizia Insieme
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