Smart working e informazione, cambiamento epocale
Per smart working nel settore giornalistico si intende, in maniera specifica, un cambiamento epocale delle modalità di lavoro per cui i redattori possono/debbono lavorare a casa (o anche a casa).
Vi sono però due maniere diverse di affrontare la questione.
Una è quella di considerare l’applicazione dello smart working in giornali che da anni tendono a tagliare gli organici e a ridurre i costi di produzione. Giornali in profonda crisi di vendite (storicamente per la loro prevalente inadeguatezza in termini di servizio e di utilità, poi per il boom televisivo, infine per l’irresistibile espansione del digitale e della Rete). Ad essi lo sviluppo tecnologico, le normative e la debolezza della classe giornalistica hanno consentito già abbondanti tagli e riduzioni, con l’espulsione in particolare dei giornalisti più esperti e meno manipolabili e il ricorso al precariato e ai sottopagati. Evidentemente, da questo punto di vista, lo smart working pone problemi materiali e urgenti che riguardano l’allontanamento dei giornalisti dalla redazione, l’abolizione della scrivania personale in redazione (vedi trattativa in corso alla Repubblica), il tentativo editoriale di operare di fatto per ulteriori tagli agli organici e riduzione dei costi (senza porsi seriamente il problema della qualità dei rapporti di lavoro, del lavoro stesso e del prodotto finale), la necessità per la categoria dei giornalisti e per il sindacato di difendersi, le questioni contrattuali, eccetera.
L’altra, diversa maniera di affrontare la questione dello smart working – che probabilmente renderebbe meno strumentale e forse meno problematico il confronto/scontro sulla sua introduzione nel lavoro giornalistico – è quella di considerarla come la prosecuzione di una vecchia questione di settore, maturata in termini precisi (ma perlopiù ignorati e sottovalutati, sia dagli editori sia dai giornalisti) almeno negli ultimi vent’anni.
Questa maniera, tanto per cominciare, non comporta un nuovo contributo al ricorso sempre più massiccio, immotivato e manipolatorio alla lingua inglese (dove “smart working”, che in Italia traduciamo abitualmente e nella concretezza del fenomeno con “lavoro remoto” o “da casa”, sta per “lavoro intelligente”). Se ne può scrivere, parlare e trattare semplicemente in italiano, anzi con le parole che usiamo da sempre nei giornali.
E’ da quaranta/cinquant’anni che usiamo l’espressione desk (ahinoi, altro inglesismo), per indicare le prime scrivanie attorno alle quali cominciarono a lavorare i primi redattori che si specializzarono in editing (ahi, ahi, ahi). Ricordo personalmente quello che successe durante la preparazione dei numeri zero e nella prima fase di vita di Repubblica. Non c’era ancora il desk. Tutti si faceva tutto, alla vecchia maniera. Per esempio, Carlo Rivolta – ma analogo discorso si potrebbe fare per tutti gli altri, cronisti politici, giornalisti economici, addetti alle pagine culturali, ecc.. – andava alle manifestazioni degli Autonomi, poi veniva in redazione e faceva il pezzo (ancora con la macchina da scrivere), lo consegnava al redattore capo Gianni Rocca o a Scalfari in persona che gli davano un’occhiata e lo mandavano in tipografia. Poi toccava a Carlo stesso di fare il titolo, sulla base delle indicazioni dell’impaginato. E poi Carlo dava una mano a passare il pezzo di qualche collaboratore e corrispondente, poi titolandolo, o anche a riscrivere qualche flash di agenzia, spesso dovendo poi anche fare il turno in tipografia… Così succedeva a tutti noialtri. Poi, pian piano, sorse la necessità di “specializzarsi” e si formarono di fatto le prime “scrivanie” concentrate nella gestione delle pagine, nel passaggio-pezzi e nella titolazione, poi sorse infine un vero e proprio ufficio centrale…. E tutti avevano in redazione la propria scrivania, salvo Alberto Arbasino, che non veniva mai pur essendo un art.1. Anche Edgardo Bartoli, che girava il mondo e che qualche volta troncava per settimane qualsiasi contatto con la redazione, perdendosi in regioni esotiche e lontane, aveva la propria scrivania personale ed esclusiva nel settore Esteri (che qualche collaboratore osava a volte utilizzare, in assenza del legittimo titolare).
Ma almeno da vent’anni, la questione è chiara e assodata. I redattori di un giornale si dividono fra quelli che stanno al desk complessivamente inteso (direttore, vice-direttori, redattori-capo, ufficio centrale, responsabili di settore, grafici…) e gli “scrittori”, cioè quelli che scrivono i pezzi, la cronaca parlamentare, l’inchiesta, l’intervista, il pezzo da inviato, eccetera. A quest’ultima categoria vanno evidentemente assimilati i collaboratori e corrispondenti, i non-dipendenti, i non-redattori e i non art.1.
E’ un dato acquisito almeno da vent’anni – sempre di più, man mano che avanzava la crisi e calavano vendite ed entrate – la realtà di redazioni che improvvisamente apparivano (e appaiono) di dimensioni-monstre, sproporzionate, sovradimensionate, anche in virtù di scelte editoriali scellerate basate, nelle conglomerate editorial-pubblicitarie più ambiziose, perlopiù sull’abuso di posizioni dominanti chiaramente transeunti. E in effetti, drammaticamente “passate”. Conglomerate – in testa la Repubblica e il Corriere della Sera – specializzate in prodotti omnibus, che non hanno rinunciato a niente pur di acquisire e accumulare fette di mercato, in termini di lettori e soprattutto di fatturato pubblicitario: giornalismo di qualità e giornalismo spazzatura, prodotto “nazionale” e prodotto “locale”… Testate che producono quotidianamente montagne di carta stampata, di cronache locali, di inserti e di allegati, che in pochi leggono, ripieni di inserzioni pubblicitarie con un tariffario sempre più magro…
Così, nel dicembre 2018, per esempio, si poteva scrivere: “Feste natalizie amare per i giornalisti. Una categoria in estinzione. Esodo e contratto di solidarietà per 400 giornalisti del sistema-Repubblica tra edizione cartacea, online, inclusi tutti i supplementi e gli inserti del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, Carlo De Benedetti e Carlo Caracciolo. Uno tsunami…”. Peraltro, leggo casualmente in rete (articolo di Sergio Menicucci, su l’Opinione), “sottoposta alla votazione dei redattori l’intesa durata tre mesi ha ottenuto il parere favorevole di 221 giornalisti, i no sono stati 133, 11 le schede bianche e 3 nulle. Un ‘piano di risparmi’ secondo l’azienda. Un ‘massacro’ redazionale e qualitativo per il mondo del giornalismo e per quanti hanno ritenuto in questi anni ‘la nave’ di Barbapapà, la portabandiera di un certo modo di fare informazione, impegnata e d’avanguardia”. In un sol colpo: 400 giornalisti in meno, con il parere favorevole di 221 giornalisti!
Ecco da dove nasce la pelosa passione per il “lavoro intelligente”. E’ il disperato tentativo di rimanere comunque in piedi, confidando in un miracolo di Santa Rete, da parte di gruppi editoriali divenuti troppo grassi e impacciati nei movimenti, incapaci di perseguire soluzioni di mercato, di prodotto e di organizzazione tali da produrre utili con altri metodi. Non riescono a vedere né tantomeno a praticare altra via d’uscita per la propria, pur ridotta, rimpicciolita se non accorciata sopravvivenza. Non sanno nemmeno immaginarsi con un proprio nuovo, concreto ruolo culturale, politico e sociale, pur sminuito nel mondo globalizzato, che sottragga alla marginalità le proprie testate e il lavoro giornalistico che pure continuerà a svolgervisi.
Perciò, detto tutto questo, io non parlerei, più o meno difensivamente – a proposito di smart working – del rischio che le redazioni si smaterializzino e che venga meno il loro ruolo o la loro funzione.
Le redazioni propriamente dette hanno da tempo una precisa funzione, che non possono non continuare a svolgere: “fare il giornale”. Non si smaterializzeranno. Dimagriranno, rispetto ad un passato (penso ancora ad Alberto Arbasino e a Edgardo Bartoli) e ad un presente che le vede comprendere giornalisti che fanno gli “scrittori” più che i “redattori”.
L’espressione “redazione” oggi (e soprattutto per domani e dopodomani) non può che riferirsi a chi fa il giornale, ai metteurs en page, agli ideatori, ai progettisti, agli editors, a chi fa editing, a chi taglia e cuce pezzi e agenzie, a chi impagina e fa i titoli, a chi tiene i contatti con l’esterno, a chi mette in moto collaboratori e corrispondenti e ne gestisce l’apporto, dall’ideazione al confezionamento finale del prodotto.
Questo ovviamente pone il problema – oltre che degli errori fatti in passato – della transizione. Di una riforma delle strategie aziendali, di un radicale cambiamento culturale e professionale in primis per i giornalisti (penso a un direttore di giornale in crisi, forse persino sull’orlo della chiusura, che crede di fare il proprio mestiere continuando a confezionare quasi un editoriale al giorno, totalmente inutile per il giornale e per la società, che nessuno leggerà mai salvo parenti e amici). Della ricerca di massimizzazione degli apporti individuali, per confezionare un prodotto utile e interessante per il potenziale lettore, frenando autoreferenzialità e vanità.
E’ chiaro che, in mancanza di questa autoriforma, per i giornali che hanno una certa anzianità – e che hanno accumulato nel tempo i vizi del gigantismo e quelli, più prosaici, ma assai diffusi, delle assunzioni clientelari – non ci sono che i tagli, i prepensionamenti, l’esodo agevolato, i contratti di solidarietà, eccetera. Ben diversamente, per quelli nati da poco o che possono nascere (penso al Domani di Carlo De Benedetti e di Stefano Feltri) le cose stanno proprio così: assumeranno i “redattori”, i metteurs-en-page, i confezionatori. L’Alberto Arbasino di turno non avrà un art.1, ma un buon contratto di collaborazione…
Quindi, altro che smart working! E’ da tempo che già si doveva fare così: la presenza quotidiana in redazione e la scrivania personale per i redattori. E, se c’è una cosa da dire e da sostenere con forza, è proprio il rifiuto del “lavoro remoto” per chi fa il giornale, prodotto collettivo per definizione. Certo, quando c’è un’emergenza come la pandemia o se un metteur en page fosse impossibilitato per un giorno o per un periodo ristretto di giorni ad assicurare la propria presenza alle riunioni e al lavoro collettivo, in redazione, viva il “lavoro intelligente”! Ma per fare un giornale bisogna discuterne e idearlo stando attorno ad un tavolo, confrontando minuto per minuto opinioni, verifiche, idee, improvvise variazioni, eccetera.
Se gli editori vogliono tagliare – non sapendo cos’altro fare – debbono dirlo e farlo chiaramente, facendo autocritica e assumendosi tutte le responsabilità per i propri errori. Senza l’obliquo, strumentale ricorso formale agli inglesismi per coprire feroci metodi da tagliatori di testa.
Se invece gli editori volessero fare finalmente il proprio mestiere, analizzando errori e potenzialità in campo, e assumendosi la quota di rischio proprio di qualsiasi imprenditore (non tutelato o rimborsato impropriamente, come in passato, dal potere politico e finanziario per le proprie iniziative), dovrebbero, prima ancora di ricorrere automaticamente al taglio dell’organico e della qualità del prodotto, dare un’occhiata ai dati dell’andamento e delle tendenze nell’articolato e vasto mercato dei bisogni informativi esistenti, sulla globalità delle piattaforme tradizionali e nuove attraverso le quali essi possono essere soddisfatti e stimolati.
Si accorgerebbero che fuori dal mercato in cui si sono ristretti i loro prodotti – prima ancora che per il boom televisivo e per lo tsunami-Rete, per le proprie storiche inadeguatezze, anzi per il proprio storico disinteresse per il linguaggio, le aspettative, la cultura, le esigenze e i bisogni dei cittadini e dei potenziali lettori/utenti – esistono spazi straordinari per numerosi prodotti informativi, di vario tipo e livello, per i quali sarebbe possibile e necessario tentare di impegnare proprio le professionalità e le competenze già nei loro organici e che invece si tende a tagliare, a prescindere. A spese di tutti. Con danni per tutti.
* Il dibattito promosso dalla Fondazione Paolo Murialdi sul giornalismo nell’età dello smart working si arricchisce del contributo di Beppe Lopez dopo quelli di Giancarlo Tartaglia, Raffaele Fiengo, Francesco Facchini, Christian Ruggiero, Roberto Reale, Daniela Scano, Alberto Ferrigolo, Romano Bortoloni, Bruno Del Vecchio, Giuseppe Catelli, Alessandra Costante.
Fonte: www.fondazionemurialdi.it
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