Non chiamiamolo smart working
Vi prego, non chiamiamolo smart working. Quello che abbiamo fatto (e che molti continueranno a fare fino al 31 dicembre 2020, come ha previsto il Dl Rilancio) non ha nulla di agile e niente di smart. E’ una forma di lavoro emergenziale, rapidamente adottata in tutti i settori produttivi e industriali italiani per consentire di far sopravvivere il Paese al lungo lockdown. Ed è stato così anche per i media italiani. Poche persone in redazione, molte a casa. “Homeworking”, più che lavoro agile; “covidworking”, più che smart working.
E comunque una modalità di lavoro che, a causa dell’emergenza, ha derogato a qualsiasi principio della legge istitutiva del lavoro agile, la 81 del 2017: basti pensare che la legge prevede la volontarietà, l’accordo individuale tra le parti, l’utilizzo di strumentazioni per lavorare da remoto. Invece in tempi di Covid 19 non ci sono stati accordi individuali: l’emergenza ha portato il governo prima e le aziende poi a istituire come unica ancora di salvezza l’home working.
E adesso? Adesso sono rimaste le scorie. Velenose, che in futuro prossimo potrebbero mettere a rischio la tenuta stessa del nostro fragile sistema editoriale.
Una premessa è necessaria: nessuno vuole fare battaglie di retroguardia, nessuno vuole impedire lo sviluppo o l’upgrade tecnologico delle aziende. Anzi, sono anni che ci battiamo perché le aziende editoriali investano in tecnologia, migliorino i loro standard di sicurezza, formino i giornalisti a lavorare su più piattaforme (e sì, siamo ancora a questo punto nel confronto con gli editori). Ma non possiamo neppure cedere alla convinzione che la tecnologia di oggi possa permettere ai giornalisti italiani, a tutti i giornalisti italiani, di passare dalle redazioni (di qualunque tipo) al lavoro agile. Sarebbe la destrutturazione delle redazioni prima e del contratto poi. E il dovere del sindacato è quello di tutelare singolarmente i colleghi, ma soprattutto la buona occupazione.
I giornali sono e restano un’opera dell’ingegno individuale e collettivo. Il giornale, qualunque tipo di giornale, nasce dal confronto. Si lavora tutti, per la propria parte, ad un’opera collettiva, che è quella che poi andrà in televisione, on line o in stampa. Ecco, fare questo da remoto è complicato, se non impossibile. Il giornale opera dell’ingegno individuale e collettivo se confezionato da giornalisti chiusi tra le loro quattro mura diventa un ossimoro. E noi giornalisti rischiamo di essere meri esecutori di qualcosa che viene deciso altrove. Non solo: nonostante la potente connessione infrastrutturale, l’upgrade tecnologico che le aziende si stanno apprestando a realizzare (una su tutte il gruppo Gnn che comprende i giornali locali ex Finegil, Stampa e Secolo), il pericolo è perdere la connessione emotiva con la società e con i colleghi, così importante per chi fa il nostro mestiere. Un salto nel passato: all’organizzazione verticistica delle redazioni anni Cinquanta, paradossalmente favorita dallo sviluppo delle tecnologie.
Scorie del Covid, si diceva. La prima: dopo settimane di lockdown molti colleghi hanno scoperto che lavorando da casa si riescono a conciliare meglio i tempi del lavoro e della famiglia, si sono azzerati i trasferimenti, ci sono stati risparmi anche importanti. Sono colleghi che vorrebbero continuare a lavorare in questa modalità anche terminata l’emergenza.
Attenzione, però, all’altra faccia della medaglia: gli editori. Nello stesso periodo si sono resi conto che il giornale può essere fatto con meno persone in redazione, che forse non è più necessario spendere o investire in immobili grandi per ospitare tutta la redazione. Anche per loro il risparmio è a portata di mano. E non ci vorrà molto prima che capiscano che la voglia di molti giornalisti di lavorare da remoto potrebbe essere monetizzata in termini di “alleggerimento” contrattuale. Il rischio è evidente: la destrutturazione delle redazioni e del contratto. Il rischio è favorire surrettiziamente un nuovo modello organizzativo: pochi redattori e molti collaboratori esterni, un’ulteriore parcellizzazione e precarizzazione della professione. La cattiva moneta che scaccia quella buona.
Abbiamo però gli anticorpi. E sono contenuti nel contratto Fnsi-FIEG. Le imprese editoriali non sono assimilabili alle altre imprese e non solo perché “producono informazione”, ma anche perché demandano al direttore (articolo 6 del contratto) e non all’editore l’organizzazione del lavoro. E sull’organizzazione del lavoro il cdr (art.34) ha sempre sempre il diritto di intervenire. Se anche ora il legislatore ha dato alle aziende la possibilità di imporre in via unilaterale il lavoro da remoto, il cdr può sempre intervenire per le sue ripercussioni sull’organizzazione del lavoro.
Non è un no allo smart working. In fondo di lavoro da remoto il contratto dei giornalisti italiani parla da tempi non sospetti, basta pensare alla figura dei corrispondenti (articolo 12) e degli inviati (articolo 11). E se si pensa ad un giornalista in smart working, preferirei che fosse presa a modello l’organizzazione del lavoro di un inviato, che semplicemente può prestare la propria opera indifferentemente in redazione o sul posto di una notizia, piuttosto di un giornalista costretto a casa da un’emergenza sanitaria.
Certo di lavoro agile il prossimo contratto dovrà parlare più approfonditamente, mettendo paletti ben chiari sull’organizzazione del lavoro e insistendo su tutti quegli aspetti che oggi i singoli colleghi considerano un sensibile miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, ma che in futuro potrebbero trasformarsi in un pericoloso cottimo 4.0 oppure nella segregazione professionale. La stessa che da anni stanno provando i 15 mila lavoratori (a vario titolo) autonomi, da sempre home worker. Fermatevi e pensateci: le aziende editoriali conoscono già l’home working, lo fanno i collaboratori, pagati pochi euro a pezzo.
Un’ultima considerazione, le donne. Oggi sono tra i colleghi che chiedono di più di restare a lavorare a casa, assorbite dai figli e dalle attività di cura. Nelle settimane del lockdown, un social, le ricercatrici internazionali hanno più volte sottolineato come in quel periodo la produttività scientifica dei colleghi uomini sia aumentata, mentre la loro era diminuita. A volte il passo verso la segregazione professionale è più breve di quanto si immagini.
* Al dibattito promosso dalla Fondazione Paolo Murialdi sul giornalismo nell’età dello smart working si unisce Alessandra Costante, componente della Giunta Esecutiva e della Segreteria della Federazione della Stampa, dopo le riflessioni di Giancarlo Tartaglia, Raffaele Fiengo, Francesco Facchini, Christian Ruggiero, Roberto Reale, Daniela Scano, Alberto Ferrigolo, Romano Bortoloni, Bruno Del Vecchio, Giuseppe Catelli.
Fonte: www.fondazionemurialdi.it
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