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La separazione delle carriere dei magistrati sarebbe la riforma peggiore

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Istituzioni, L'analisi

togaIl “caso Palamara ha offerto all’opinione pubblica un quadro desolante di certe modalità di funzionamento dell’Anm e del Csm che definire distorte o pessime è riduttivo. Sono ai minimi storici la credibilità e la fiducia sia di questi organi di rappresentanza sia della magistratura stessa. L’unica via di scampo sta in radicali riforme, necessarie alla stregua dei respiratori per i malati gravi di covid-19.

Per l’avvocatura e per una certa politica (trasversale agli schieramenti) l’occasione è propizia per assestare una robusta spallata al sistema inserendovi la “separazione delle carriere” fra Pm e giudici.

Senza esagerazioni o ipocrisie, va detto che in gioco c’è l’indipendenza della magistratura. La stragrande maggioranza dei magistrati italiani ha la schiena dritta: l’indipendenza (la libertà di decidere senza essere soggetto a palazzi o potentati politici, economici, culturali) la respira e la vive come elemento naturale. Per contro, la realtà di tanti altri paesi è diversa.

Anni fa, invitato a Vienna  come Procuratore di Palermo, incontrai alcuni Pm del pool nazionale anticorruzione e li trovai in un momento di grande euforia per una novità che consideravano “rivoluzionaria”.  Dipendevano dal Ministro della giustizia e le direttive di questi sulle inchieste (se farle o non farle, fino a che punto arrivare, quali soggetti escludere…) dovevano scrupolosamente  osservarle. Sempre. Ma gli “ordini” che prima erano soltanto “verbali” adesso – ecco la grande novità – dovevano essere impartiti con atto scritto da inserire nel fascicolo processuale perché ne restasse traccia.

L’episodio spiega bene che la separazione delle carriere è praticamente sinonimo di dipendenza del Pm dal potere esecutivo. Nel senso che in tutti i paesi in cui (con modalità che possono essere diverse) c’è la separazione, il Pm – per legge! – deve ottemperare a ordini, direttive o indicazioni del governo. Vale a dire che poco o tanto, per un verso o per l’altro, non è indipendente. Sicuramente non è mai indipendente come nel nostro Paese.

Nello stesso tempo l’episodio ci dice che sì, è vero che separazione c’è, senza scandalo né scompensi, in paesi di autentica democrazia. Ma nel nostro paese, purtroppo, si deve registrare una brutta anomalia rispetto alle altre democrazie occidentali.

Non solo in Italia, anche altrove, si sono avuti personaggi pubblici inquisiti; ma solo in Italia è accaduto che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di imputati “eccellenti” abbia determinato la contestazione in radice del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici, spesso indicati “tout court” come avversari politici. Questo invece è proprio ciò cui si assiste nel nostro Paese da quasi 30 anni. Con il dilagare anche nella politica di due idee tipicamente italiane: quella di una giustizia “à la carte”, valida per gli altri, ma mai per sé; e quella che gli interventi giudiziari si valutano non in base ai criteri della correttezza e del rigore, ma unicamente in base all’utilità per sé e per la propria cordata.

In sostanza, dunque, il problema della separazione delle carriere è questo: se ancora oggi buona parte della politica ragiona così, conviene subordinare il Pm all’esecutivo? Oppure è meglio continuare con l’indipendenza del Pm, che quantomeno offre la prospettiva di una giustizia uguale per tutti e non “generosa” verso chi può e conta, ma spietata con chi non gode di un posto al sole?

Da segnalare infine che il sistema italiano di indipendenza del Pm dall’esecutivo è indicato dalle competenti istanze della Comunità europea come un modello.

Si può anche suicidarsi imboccando la strada opposta, ma guai a dimenticare una frase di Calamandrei che ben si può applicare pure nel nostro caso: “la libertà è come l’aria; ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”.

Huffington Post, il blog di Gian Carlo Caselli

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