In ricordo di Peppe Valarioti. Se non lo facciamo noi, chi deve farlo?
L’amuri è focu e non si po’ stutari
ca pè ‘stutari u focu di l’amuri, non basta, no, l’acqua di lu mari
Guarda a potenza chi avi lu suli
guarda a potenza chi avi l’amuri.
Francesco Sicari – giovane cantautore calabrese
Così forte come la potenza del sole che brucia i volti dei contadini nei campi, la forza immane, inarrestabile, salvifica e catartica dell’amore di Peppe per la sua gente, forza che neanche i proiettili sono riusciti a fermare.
“Se non lo facciamo noi, chi deve farlo?” Questo era il grido di battaglia di Peppe Valarioti, politico, intellettuale, professore, precario e archeologo che venne ucciso l’11 Giugno 1980. Peppe amava il profumo della terra, la sua. Quella bagnaticcia e umida, con quello strano odore di fresco e fatica che si sente in campagna e diventa fragranza che impregna i gilet dei contadini insieme alle vesti larghe delle contadine che, ogni mattina all’alba – oggi come allora – si dirigono verso i campi. Quell’odore caratterizzava anche lui, figlio di gente umile e onesta che aveva fatto della terra il centro del mondo. Aveva un amore spassionato e viscerale per la cultura. Unico vero strumento di riscatto per i giovani e la terra, una terra vilipesa, deturpata, soggiogata da violenze e soprusi ma vogliosa di costruire il nuovo.
Parlava di impegno e dedizione, affinché tutti un giorno potessero indossare il futuro che più poteva renderli felici. Stava al margine, dalla parte dei braccianti nella lotta per la rivendicazione delle terre, dei giovani studenti, delle donne e degli uomini di Rosarno che chiedevano soltanto ciò che spettava loro: un lavoro onesto e libero, condizioni di vita dignitose, e non ultima la possibilità di scelta con una vera e decisa emancipazione. Peppe sapeva farla la politica, quella del dubbio che contemporaneamente costruisce certezze, quella politica che senti addosso come una missione, una necessità, della piazza e delle strade di periferia, fatta di domande alla gente con cui si cerca di trovare, insieme, le risposte alla mancanza di lavoro, di prospettive. La questione dell’emigrazione, oggi ancora attuale.
La storia di Peppe è una storia collettiva.
Lo possiamo immaginare durante un comizio, fiero, con quegli occhiali grandi, il suo sguardo buono, la schiena dritta e la voce quasi rotta dall’emozione, ma al contempo sicura. Dinnanzi a lui c’è un contadino con le sue rughe profonde, i ragazzi del partito e i giovani studenti con cui ha organizzato gli scioperi.
Sono tutti lì che ascoltano. A ogni parola tremano febbrili, perché sentono che qualcosa sta iniziando a cambiare. Gli occhi applaudono più delle mani perché ci credono davvero a quel giovane trentenne precario che prima delle parole ha sempre messo i fatti.
Peppe aveva capito che la ‘ndrangheta, come la società, stava cambiando, voleva inserirsi nei grandi affari, era dentro la politica, e diventava appetibile qualsiasi cosa che potesse produrre denaro, anche le cooperative. Lui non ci stava, e insieme ai compagni del Pci di Rosarno, di cui era il segretario, denunciava pubblicamente, con nomi e cognomi a spada tratta, senza aver timore di stare nel giusto. Forse un po’ l’aveva, ma la sua voglia di cambiamento e l’amore puro per la sua gente erano molto più forti. Quell’anno le elezioni registrarono un livello di tensione molto alto. La macchina di Peppino Lavorato, suo, compagno e maestro, immenso politico nostrano, andò in fiamme come la sede del partito, i manifesti venivano scollati e attaccati all’incontrario e le minacce non cessavano.
<< I comunisti non si piegano>> gridò a uno degli ultimi comizi che fu lo stesso giorno del funerale della madre del boss Giuseppe Pesce, Il quale riunì a Rosarno tutti i boss del circondario.
Dovevano sentirlo tutti, ma proprio tutti, che si stava iniziando a sgretolare il muro della paura, che iniziava a soffiare un vento nuovo. Nasceva nella gente la consapevolezza che quei luoghi non erano destinati ad avere servi e padroni, pupi e pupari per sempre.
Era l’11 giugno 1980. Avevano festeggiato la vittoria alle elezioni provinciali e regionali, un risultato importante che rappresentava una svolta decisiva a dimostrazione che stava nascendo una coscienza nuova, che la gente iniziava a ribellarsi a quelle logiche meschine e clientelari, dandogli fiducia. Erano credibili perché facendo gruppo, avevano vinto la paura e la gente li seguiva, ci sperava, ci credeva. Stavano uscendo dal locale dove avevano cenato tutti insieme, nonostante la stanchezza erano ancora presi dal fervore della campagna elettorale, con il sorriso a mezz’aria e forse ancora storditi dall’entusiasmo, continuavano a dialogare.
D’un tratto, si sentono degli spari, senza nemmeno il tempo di rendersi conto di quello che stava accadendo. Si trattò di attimi.
Valarioti crolla a terra. È il compagno Lavorato a stringerlo per l’ultima volta, a sentire il suo ultimo sospiro e a guardare quello sguardo smarrito mentre gridava “compagni mi’ spararu”.
Cosa è cambiato in questi quarant’anni è difficile dirlo. Però, sappiamo di certo, dove sarebbe Peppe oggi.
A difendere una politica seria, contro quella avvezza a offrire temi e sbocchi alle ansie e alle paure pubbliche.
Alimenterebbe la fiamma dell’antifascismo, mostrando come la libertà sia un bene supremo da conquistare e difendere ogni giorno.
Sarebbe a fianco dei lavoratori e delle lavoratrici precarie, sarebbe voce delle rivendicazioni dei braccianti di ieri e di oggi, sciopererebbe per leggi reticenti nel riconoscere i diritti umani e la dignità di tutti e tutte senza distinzione di colore, etnia, sesso, o provenienza geografica. Difenderebbe l’idea di una comunità inclusiva e solidale come Riace. Oggi, scenderebbe in piazza al grido “Black lives matter”.
Per i quarant’anni dalla morte, Radio Ciroma 105.7- Cosenza ha deciso di portare avanti una serie di iniziative social in memoria sua e del compagno Giannino Losardo, ucciso dalla ‘ndrangheta, dieci giorni dopo.
L’11 mattina, nell’ovvio rispetto delle norme anti-Covid, ci sarà una passeggiata dalla Casa del Popolo fino al cimitero, capeggiata dai vecchi compagni di Peppe. Lo stesso giorno, il museo archeologico Metauros di Gioia Tauro gli dedicherà la sala conferenze.
E proprio a distanza di quarant’anni dal primo omicidio politico della Calabria, un gruppo di studenti, ricercatrici e ricercatori calabresi sparsi per l’Europa, ha deciso di formare un collettivo che porta il suo nome, per far pratica di memoria viva, raccogliendo il testimone e l’eredità di un uomo che ha dato la vita per la giustizia e per la sua Calabria.
Ora vi chiedo:“Se non lo facciamo noi, chi deve farlo?”
Fonte: Vivi – Libera
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