Il razzismo e le sue varianti
Le dichiarazioni lesive dell’immagine dei migranti da parte di alcuni politici riprese in questi ultimi giorni in relazione agli sbarchi sulle nostre coste, con le strampalate strategie di “blocco navale europeo” (Giorgia Meloni, FDI) e il vile omicidio negli USA di un afroamericano da parte di un agente di polizia, ci danno lo spunto per tornare sul tema del razzismo.
Si è tornati, dunque, a parlare di lotta all’immigrazione clandestina (non di lotta alle cause delle migrazioni) ed è riemersa quella criminalizzazione dei migranti che leggi passate e recenti, prassi, politica e alcuni media hanno praticato nel tempo.
Per chi voglia avere le idee più chiare sull’“Italia che discrimina”, suggerisco il prezioso libretto di Clelia Bartoli “Razzisti per legge” (Ed. Laterza 2012) che ci ricorda, tra l’altro, come negli USA il razzismo affondi le sue radici in tempi lontani e, più precisamente, nel 1640 quando da una piantagione della Virginia fuggirono tre schiavi. Uno dei tre era nero non cristiano mentre gli altri due erano bianchi protestanti. Tutti e tre i fuggitivi furono condannati dal tribunale della Virginia a pene severe ma lo schiavo nero, “in quanto negro”, ebbe la più dura e cioè la schiavitù a vita. Prima di allora non era stata ancora stabilita alcuna connessione tra la schiavitù e la carnagione né con la razza, concetto ancora non compiutamente formulato.
Toccò alla Corte Suprema americana elaborare la dottrina del “separati ma uguali” (separate but equal) con la sentenza del giugno 1892 dopo che un nero (non in ragion del colore della pelle ma solo perché uno dei bisnonni era un afroamericano!) si era rifiutato di lasciare una carrozza del treno riservata a soli bianchi. Imprigionato e processato, dopo una serie di ricorsi si arrivò alla Corte che stabilì come il principio costituzionale di eguaglianza non era stato violato in quanto sebbene vi fossero carrozze per bianchi e neri, queste avevano gli stessi standard di accoglienza. Era bastata un’unica goccia di sangue per “inquinare” il pedigree di vero bianco.
Qualcosa del genere, va ricordato, è accaduto a tutti quei migranti europei (italiani, ebrei, polacchi) che sbarcati negli USA almeno fino al 1920, non furono subito considerati bianchi ma rimasero per un certo tempo in uno stato di incertezza razziale.
Da noi, come argomenta Clelia Bartoli, esistono diverse varianti di razzismo in quanto il concetto “è davvero trasversale, adattandosi alle aspirazioni e posizioni di chiunque lo utilizza” ed è utilissimo per tracciare strategie per conseguire rispetto o ricchezza, per esempio nelle competizioni politiche. Così, si può individuare una forma di razzismo dell’Italia settentrionale ed una del Meridione. Non è una novità, infatti, che “diffidenza e aggressività nei confronti dei migranti sono (..) più espliciti e ostentati al Settentrione..”.
C’è, poi un razzismo di destra “che opprime le minoranze invocando il pugno di ferro, la tolleranza zero (quante volte lo abbiamo sentito dire!ndr), l’elitismo identitario” ma anche uno di sinistra “che si traveste da bonario paternalismo o da ingenuo esotismo”.
Non manca il razzismo dei cattivi come pretesto “per dare sfogo violento al proprio avvilimento” attaccando e umiliando “il debole di turno”, ma può esistere anche il razzismo dei buoni e cioè di quelli che accogliendo e sorvegliando gli oppressi “ne alimenta la dipendenza e l’infantilizazzione” (e non sono mancati nel nostro paese alcuni esempi di associazioni e di enti che temevano la definitiva emancipazione delle persone prese in carico per non perdere il proprio ruolo).
Non manca il razzismo delle minoranze discriminate come quello che si rileva tra gli africani verso i cinesi, tra i rumeni verso i rom e persino tra gli immigrati ormai stanziali nel nostro paese ed i connazionali arrivati di recente.
Tante varianti ma con quell’elemento comune ripugnante della discriminazione razziale che riduce la persona “ad una categoria segnata dalla minorità”.
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