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Dissequestrati i beni dell’editore Mario Ciancio

Libera il . Giustizia, Informazione, Sicilia

giornali ciancioLo scorso 24 marzo la Corte d’Appello di Catania ha disposto la restituzione dei beni oggetto di confisca a Mario Ciancio Sanfilippo, attualmente sottoposto a procedimento penale per concorso esterno in associazione mafiosa, poiché “…non ritenendosi provata alcuna forma di pericolosità sociale…” né “…è risultata accertata e provata alcuna sproporzione tra i redditi di provenienza legittima di cui il proposto e il suo nucleo familiare potevano disporre e le relative la liquidità utilizzate nel corso del tempo…” pur affermando la “..contiguità…” di Mario Ciancio Sanfilippo con l’organizzazione mafiosa.

Tra i beni dissequestrati le società che controllano i quotidiani “La Sicilia”, “Gazzetta del Mezzogiorno” e le emittenti televisive Antenna Sicilia e Telecolor.

Stupisce e sconcerta il clima di indifferenza e di disattenzione che ha accolto tale provvedimento. La vicenda Ciancio ha necessità di essere approfondita perché con questo provvedimento è stata scritta una pagina buia della storia italiana, con principi giuridici fantasiosi e innovativi dove un imprenditore viene protetto dalla mafia senza che la stessa ne ricevesse alcun contributo fattivo, ovvero senza che in qualche modo si determinasse di fatto uno scambio di favori con reciproca utilità.

Siamo davanti ad una nuova figura di “imprenditore amico” dei mafiosi ma non “pericoloso”. E questo succede all’ editore del quotidiano più letto in terra siciliana.

Seppur la Corte di Appello afferma principi di diritto ripresi da vecchi principi già conosciuti in anni lontani, descrive le condotte di Mario Ciancio Sanfilippo come quelle di un imprenditore che perseguiva i propri interessi economici, sfruttando ed utilizzando la rete di ampie relazione tanto che la Corte in un passaggio afferma “…che gli uomini politici passano ma Mario Ciancio Sanfilippo resta ad esercitare il proprio potere economico e sociale…”. Un imprenditore per tutte le stagioni.

Quelle relazioni sono “cosa nostra”

Diversi sono i passaggi del provvedimento che rilevano relazioni tra Ciancio e Cosa nostra catanese. La stessa Corte d’Appello, a pag 106 del Decreto scrive ”(…) D’altra parte, che “cosa nostra” catanese si adoperasse per “proteggere” Ciancio Sanfilippo, è circostanza nota anche ad esponenti della mafia palermitana…gli uomini di Santapaola avevano addirittura sostenuto “una guerra” con i “calamittari” (delinquenti che operavano nella Piana di Catania) per tenerli lontano dalle diverse proprietà che Ciancio aveva in quel territorio (…)”.

Nel corpo del proprio provvedimento la Corte rileva che nel negare il coinvolgimento della mafia per rientrare in possesso della refurtiva il Ciancio Mario Sanfilippo ha reso dichiarazioni reticenti e tra loro contrastanti.

Ed ancora la “vicinanza” tra Ciancio e cosa nostra catanese è comprovata dalla ricostruzione del fallito attentato dinamitardo alla sua abitazione, che:“(…) dimostrerebbe comunque i rapporti di “contiguità” tra l’odierno proposto (Mario Ciancio Sanfilippo) e l’organizzazione criminale, atteso che, in caso contrario, non si comprenderebbe perché mai l’organizzazione mafiosa dovesse operare in tal senso (…)”. A pag. 114 del Decreto la Corte ritiene che le condotte ascrivibili a Mario Ciancio Sanfilippo  “integrano un rapporto di “contiguità”, “vicinanza” tra Ciancio Sanfilippo e “cosa nostra” catanese (…)”.

La Corte nel proprio Decreto nel definire Ciancio imprenditore contiguo, dice “finisce… con l’alimentare e consolidare l’humus su cui si attecchisce, si radica e si sviluppa l’associazione mafiosa, e/o, ancor prima, la sub cultura mafiosa. Ciò, invero, accade quando si instaurano con l’organizzazione mafiosa rapporti di cordialità che finiscono col costituire un “formale riconoscimento”  dell’organizzazione medesima, o quando si ricorre e/o comunque ci si avvantaggi dei “servigi” che può fornire l’organizzazione mafiosa.

La stessa Corte non ha mancato di evidenziare come Ciancio abbia omesso di denunciare fatti a propria conoscenza, non solo ma ha addirittura reso dichiarazioni difformi dal vero. Venendo meno ai propri doveri di  cittadino, e ciò  appare ancor più grave in considerazione del ruolo ricoperto di editore e direttore.

La Corte, definisce “protetto” un imprenditore, come Mario Ciancio Sanfilippo, pur non ritenendo provato il pagamento di questa protezione, giungendo a ritenere questo rapporto di protezione “cordialmente consolidato“ nel tempo tanto da essere considerato dall’associazione mafiosa come un “amico” , ed  affermare:” (…) Ciò che è emerso, in maniera certa ed univoca, a giudizio di questa Corte, è che tra “cosa nostra” catanese e Ciancio Sanfilippo Mario si sia progressivamente consolidato nel tempo un rapporto di particolare “vicinanza/cordialità” (…)”.

Proprio in coerenza con il suo essere imprenditore “contiguo” non si può scordare il necrologio rifiutato a familiari del commissario Beppe Montana, ucciso in un agguato mafioso e liquidato invece dalla Corte come un episodio “che non può essere considerato quale contributo fattivo agli interessi di “cosa nostra” catanese, ma costituisce al più una manifestazione di contiguità e sudditanza ad alcuni modelli culturali, certamente presenti nella nostra società soprattutto nel recente passato, secondo i quali, la mafia è un fenomeno con il quale bisogna convivere e non una realtà criminale da combattere senza alcuna esitazione sotto ogni profilo.(…)”

Lo stesso giornale “La Sicilia” mentre rifiuta la pubblicazione di un necrologio ai familiari di una vittima della mafia non esita a pubblicare la lettera dal carcere del figlio di Santapaola (sottoposto al 41 bis), permettendo ad un’esponente di primissimo piano della mafia di manifestare e rafforzare il proprio prestigio criminale comunicando con l’esterno del carcere in palese violazione di legge.

La moneta buona che scaccia quella cattiva

A Catania è in corso il processo contro Mario Ciancio imputato di concorso esterno, e su questo processo è calato il silenzio, vi è l’assenza totale dell’informazione. Il processo è seguito da alcuni volontari di Libera che cercano di illuminare quanto succede in quel territorio, nel quale ancora di più la strategia che usa la mafia imprenditrice è quella dell’inabissamento e dove gli affari si devono realizzare utilizzando sempre più condotte corruttive, di connivenza e collusione silenziosa per accrescere il potere individuale e distruggere le regole del libero mercato.

Tutto questo ci inquieta.

Ancora di più se contestualizziamo tale provvedimento nel momento delicato che il nostro Paese sta vivendo dove le misure di distanziamento sociale in tutto il territorio nazionale, imposte per il contenimento della epidemia, hanno portato alla totale interruzione di moltissime attività produttive, destinate, tra qualche tempo, a scontare una modalità di ripresa del lavoro comunque difficile e faticosa. Un contesto assai favorevole per il rilancio e l’espansione dei piani della associazione criminale su tutti i territori.

E dove è fondamentale accompagnare e sostenere tutti quegli imprenditori che hanno scelto la strada della legalità, del rispetto delle regole, e che sempre hanno rifiutato di avere rapporti di contiguità con le associazioni mafiose per continuare ad essere liberi e creare lavoro nel rispetto dei diritti e della dignità delle persone.

Sono questi imprenditori la “bella faccia” del nostro paese. Sono la stragrande maggioranza. Sono loro la moneta buona che scaccia quella cattiva. E che non possono essere offuscati o delegittimati da supposti “imprenditori contigui” ma non pericolosi socialmente.

E’ inaccettabile. Non possiamo permetterlo. E’ in gioco la credibilità della democrazia del nostro paese.

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