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Falcone conosceva il suo destino

Gian Carlo Caselli * il . Giustizia, Mafie, Memoria

© Franco Zecchin

© Franco Zecchin

L’intera esperienza professionale di Giovanni Falcone è cementata da spirito di servizio e senso del dovere fino al sacrificio. Semplicemente vero, niente retorica.

Lo dimostra anche l’ultimissimo tratto della sua vita, poco noto ma significativo, che rivela un Falcone capace di fare la cosa giusta sebbene fosse consapevole di innescare un meccanismo che l’avrebbe consegnato alla mannaia di Cosa nostra.

Cosa nostra, attenta ad ogni angolazione delle sue attività, aveva anche una “strategia giudiziaria” finalizzata a condizionare l’esito dei processi a proprio favore.

In Cassazione, praticamente tutti i processi di mafia finivano alla prima sezione penale, presieduta da Corrado Carnevale. Con esiti che all’organizzazione criminale di solito non dispiacevano affatto, al punto che una certa pubblicistica usava definire Carnevale “ammazzasentenze”.

Ovviamente la massima intensità di tale strategia era destinata al “maxiprocesso”: il capolavoro investigativo-giudiziario del pool antimafia di Palermo di cui Falcone era stato componente di primo piano.

Costretto ad abbandonare Palermo (diventata per lui ostile e inospitale fino all’umiliazione, a partire da quando il pool cominciò a occuparsi anche di imputati eccellenti come Ciancimino padre, i cugini Salvo e i Cavalieri del lavoro di Catania, oltre che del golpe Borghese), Falcone riparò nel 1991 a Roma, presso il ministero di Grazia e Giustizia.

Qui, tra le altre cose, avviò un approfondito e articolato monitoraggio sulle pronunzie della prima sezione della Cassazione penale, preoccupato per quella nomea di “ammazzasentenze” associata a Car­nevale. I risultati del monitoraggio (che rientrava nelle funzioni del suo ufficio) evidenziarono singolari concrete anomalie e una serie di decisioni – talora motivate con minuscoli  vizi di forma –  che potevano corrispondere a tale nomea.

Così, quando  il “maxi” approdò in Cassazione, il primo presidente Antonio Brancaccio decise di  intro­durre la novità di un sistema di rotazione, assegnando il “maxi” non a Carnevale ma ad Arnaldo Valente. Nomen omen? Coincidenza? Felice congiunzione astrale?  Sta di fatto che alla  rotazione fece segui­to una sentenza della suprema Corte, emessa il 30 gennaio 1992, che portò alla conferma della quasi totalità dell’impian­to accusatorio e quindi delle pesanti condanne comminate nel “maxi”.

Per la prima volta nella storia italiana mafiosi di ogni ordine e grado venivano condannati a pene severe irrevocabili. Fine del mito dell’impunità di Cosa nostra. Una vera disfatta per il vertice dell’organizzazione, che si era speso nel garantire ai quadri intermedi e alla base l’annullamento delle condanne. Un traumatico “passaggio di fase” rispetto all’ormai consolidato rapporto di scambio tra Cosa nostra ed esponenti del mondo politico. Una grave perdita di “faccia” e di credibilità, con la prospet­tiva che la stagione dei “processi aggiustati” e dell’impunità fosse finita.

Cosa nostra reagì con bestiale rabbia con la strage di Capaci del 23 maggio 1992, puntando dritto al cuore dello stato e massacrando Giovanni Falcone insieme alla moglie Francesca Morvillo e ai ragazzi della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

E Falcone di certo non ignorava che operare per una conclusione del “maxi” sgradita a Riina e soci era appunto come autocondannarsi alla loro feroce rappresaglia.

(Parentesi finale: va segnalato che a carico di Carnevale sarà celebrato a Palermo un processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo l’accusa, numerosi esponenti dell’organizzazione mafiosa lo consideravano come loro principale “punto di riferi­mento”. A mediare le relazioni tra Carnevale e Cosa nostra – a partire dal 1987 e fino al 1992 – erano uomini del mondo forense e del mondo politico. Nel giugno 2001 Carnevale fu condannato in appello a sei anni di reclusione, in ragione tra l’altro delle testimonianze giurate di tre giudici della sua sezione, definite “formidabili elementi di riscontro individualizzante a carico dell’imputato”. Nell’ottobre 2002 la Cassazione – Sezioni unite – annullò la condanna con una acrobazia giuridica: la non utilizzabilità di tali testimonianze in quanto riguardanti il segreto della camera di consiglio; mentre è principio consolidato che il pubblico ufficiale a conoscenza di un reato ha sempre l’obbligo di denunziarlo, anche se componente di un collegio giudicante).

* Il Fatto Quotidiano, 22/05/2020

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